Verri, Pietro
Economista e filosofo (Milano 1728 - ivi 1797). Fu esponente tra i più rappresentativi dell’Illuminismo riformatore lombardo. Figlio di un autorevole membro del Senato milanese, si dedicò allo studio della filosofia e dell’economia. A Milano svolse importanti incarichi pubblici: fece parte della giunta istituita per promuovere la nuova amministrazione delle imposte; fu consigliere del supremo consiglio di economia e membro della magistratura camerale, istituzione di cui fu anche vicepresidente e presidente. In queste sue attività, che si inseriscono nel clima riformatore inaugurato in Lombardia dal governo di Maria Teresa e del suo ministro Kaunitz, V. ebbe modo di mettere alla prova le sue idee liberalizzatrici in campo economico, volte a incoraggiare lo sviluppo delle manifatture e dei commerci e a promuovere la crescita di un’autonoma classe media, combattendo i pri-vilegi e gli abusi del patriziato dei grandi proprietari terrieri. Espose le basi teoriche di tale progetto in una serie di scritti, tra cui gli Elementi del commercio (1760) e le Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano (1761-63), nei quali si riflettono tematiche economiche sempre più diffuse nell’Europa dei Lumi. Emblematico dell’impegno di V., e della filosofia che lo sostenne, è il ruolo da lui svolto nella redazione del Caffè, periodico di vita breve (si pubblicò tra il maggio 1764 e il giugno 1766) ma che rappresenta una delle espressioni più alte dell’Illuminismo italiano, cui collaborarono, fra gli altri, il fratello Alessandro, Beccaria, Giuseppe Visconti e Antonio Longo. Tra le finalità che animarono l’impresa editoriale emerge quella della formazione di un’opinione pubblica consapevole attraverso la diffusione delle «scienze utili» al benessere pubblico e individuale. Di ispirazione utilitaristica è la filosofia espressa da V. nelle Meditazioni sulla felicità (1763), poi ripresa con toni originali nel Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773). Prendendo le mosse dal calcolo di Maupertuis, V. proponeva una definizione del piacere come «cessazione del dolore» e giungeva alla conclusione per la quale la quantità del piacere non può «essere maggiore giammai della quantità del dolore» dalla quale di fatto dipende.