ROSSI, Pietro
– Nato a Siena probabilmente nel maggio del 1403, venne battezzato nella pieve della cattedrale, come risulta dai registri della Biccherna l’ultimo giorno di quel mese. Il padre, Giacomo di Latinuccio, era un esponente della ricca famiglia magnatizia dei Rossi, il cui palazzo sulla via Francigena, uno dei più grandi complessi della Siena medievale del pieno Duecento, ben incarnava la potenza economica del casato. La madre era figlia di Andrea di Gabriello di Giovanni Piccolomini.
Avviato agli studi superiori, Pietro Rossi compì la sua formazione universitaria, come egli stesso testimonia, a Siena sotto il magistero di personalità di notevole rilievo come Andrea Biglia (che almeno fino alla metà degli anni Trenta del Quattrocento vi insegnò filosofia morale e naturale), il filosofo Gabriele di Spoleto e Paolo Veneto.
Proprio la vicinanza al Biglia e all’ambiente agostiniano ha probabilmente alimentato – fin dai decenni successivi alla sua morte – la notizia della sua appartenenza all’Ordine agostiniano, testimoniata da fonti molto antiche, risalenti alla fine del XV secolo. Viene presentato come eremitano nel manoscritto che tramanda il suo commento al De anima, e annoverato tra gli esponenti dell’Ordine anche dall’autore del Chronicon Oldeburgensium Archicomitum, l’agostiniano Johannes Schipover di Meppen, che aveva studiato a Siena pochi decenni dopo la sua morte. Lo stesso Isidoro Ugurgieri Azzolini, annoverandolo tra i teologi, dà notizia della sua nobiltà e della sua appartenenza all’Ordine degli eremitani, tra i quali lo indica anche l’Ossinger, nella sua Bibliotheca Augustiniana.
Accogliendo l’ipotesi di Uberto Benvoglienti, ancorata alle pagine della cronaca di Sigismondo Tizio, Gianfranco Fioravanti presenta Rossi come un laico animato tuttavia da una profonda religiosità, che segnò tutta la sua esistenza, interamente dedicata allo studio e alla preghiera e lo rese oggetto di venerazione e di elogio tra i contemporanei.
Nel 1437 Rossi fu uno dei tre procuratori incaricati dai fratelli della appena istituita compagnia di Sant’Ansano di trovare in Siena un luogo idoneo come sede, poi individuato in alcuni locali presso la chiesa di S. Vigilio concessi da Antonio Piccolomini, abate di S. Salvatore della Berardenga.
Qualificato come preceptor preaestantissimus bene vivendi, Rossi si dedicò all’insegnamento universitario, allo studio e al commento delle opere di Aristotele e del testo biblico, impegnandosi nell’insegnamento della filosofia pura per un ventennio presso lo Studium di Siena: il suo nome compare a partire dal 1432 tra le apodixae dei maestri dello Studium, e la sua condotta ad lecturam loyce et philosophiae si ripete nel 1436, 1437, 1439 e nel 1445. Sotto la sua guida si formò, come egli stesso testimonia, anche Agostino Dati. Rispetto al contesto urbano, due scelte contribuirono a costruire la fama di Rossi come maestro riconosciuto e venerato della vita intellettuale della sua città: da un lato la rinuncia alle ricchezze, dall’altro la presa di distanza dall’agone politico cittadino.
Diversamente da quanto accade per la quasi totalità degli esponenti della vita culturale senese del Quattrocento, che affiancarono all’impegno intellettuale una partecipazione continua e attenta alla vita pubblica, Rossi sembra infatti aver rifuggito l’ingresso nella turbolenta vita pubblica della sua città; allo stato attuale delle conoscenze, non risulta che ricoprì cariche, né incarichi di ambasciatore o portavoce del governo.
A lui è attribuita una serie di trattati filosofici oggi non più disponibili: i Commentarii in libros Posteriorum tramandati da un manoscritto che l’Ossinger dice essere stato custodito, nel Settecento, presso la Biblioteca di S. Maria del Popolo a Roma; le Adnotationes multae super libros logicales et philosophicos Aristotelis e i Commentarii in opus de Civitate Dei, di cui tuttavia l’autore della Bibliotheca Augustiniana non fornisce alcuna notizia circa i testimoni. Della cospicua attività di Rossi si conservano invece il commento al De anima di Aristotele e quello al Vecchio Testamento, tramandati da tre manoscritti.
Il primo è tràdito da un manoscritto della Biblioteca Angelica di Roma (ms. 545), realizzato alla fine del Quattrocento, che riporta il commento di Rossi al De anima di Aristotele. I codici F.III. 8 e F.III.9 della Biblioteca senese degli Intronati, provenienti entrambi dalla libraria del Duomo di Siena, tramandano invece l’imponente commento di Rossi al testo biblico, Veteris testamenti atque sententiarum nec non Aristotelis Ethicorum concordia, ovvero il commento al Pentateuco, ai libri sapienziali e ai profeti. Il primo codice, appartenuto a Giovanni Cinughi, vescovo di Pienza e di Montalcino, fu da questi donato alla parva libraria della cattedrale senese insieme ad altri manoscritti, come lascito testamentario. Il secondo, realizzato nel 1482 dalla penna del copista Tommaso di Alessandria, fu commissionato dall’operaio del duomo Alberto Aringhieri, proprio per custodire e conservare nella biblioteca, che in quegli anni si era proposta come specchio e scrigno della vita culturale cittadina, le opere che si erano potute rintracciare del filosofo senese: fu dunque un tributo di ammirazione e di stima.
Questi risultati dell’attività esegetico-filologica di Rossi, frutto come si è detto di una conversione interiore profonda, sono dedicati ai più insigni esponenti della Curia papale. Ad Antonio Bettini, futuro vescovo di Foligno, egli dedicò il commento all’Esodo; a papa Pio II, suo parente per parte di madre, offrì il commento ai libri di Giosuè, dei Giudici e dei Re; il cardinal Bessarione fu infine il destinatario del commento ai libri sapienziali.
Complessivamente, nella sua opera confluì una serie assai complessa di temi filosofico-religiosi: la conciliazione tra scienza e fede, la denuncia della corruzione ecclesiastica, la polemica esegetica contro gli ebrei, il tentativo di dimostrare sillogisticamente la verità della Lex Christi. Mettendo in stretto parallelo il libro dei Re con il primo e il terzo libro della Retorica di Aristotele, i libri di Salomone con le pagine dell’Etica, il filosofo senese tentò di dimostrare la perfetta identità di contenuti tra il testo biblico e la filosofia aristotelica, che avrebbe nella Sacra Scrittura un anticipatore divinamente ispirato. Lo strumento attraverso il quale costruì la sua impalcatura filosofica è quello, caro alla scolastica, dell’interpretazione allegorica che egli applica in maniera sistematica allargando così nel suo commento l’ispirazione messianica del Vecchio Testamento. Per i temi e gli strumenti cui il filosofo senese ricorre il commento può dunque essere letto anche come un poderoso Tractatus adversus iudeos, nel quale egli dimostra i capisaldi della fede cristiana ricorrendo non solo alle fonti classiche dell’apologetica antigiudaica ma anche alle pagine delle stesse auctoritates ebraiche, quali il Talmud e il Targum. Oltre alla conoscenza dell’ebraico e dell’aramaico, Rossi dimostra nel trattato le sue competenze astronomico-astrologiche che richiama affrontando temi classici della disputa antigiudaica, e che portarono Sigismondo Tizio a definire quel testo Concordantia scripturae sanctae cum astrologia.
A Pietro Rossi è attribuito anche uno scritto che esula dalla dimensione puramente teologica e che lo presenta come testimone consapevole delle vicende politiche e militari del suo tempo. Seguendo l’esempio del suo maestro Andrea Biglia, egli compose una breve cronaca delle turbolente vicende di Siena negli anni della guerra di Lucca.
Morì a Siena nel 1459.
La centralità delle questioni discusse da Rossi nel suo commento all’Antico Testamento emerge dalla lettura di un contesto che sembra aver recepito quel testo e gli insegnamenti del magister. Qualche anno dopo la morte, egli fu l’interlocutore ideale di una polemica legata al tema della grazia e del libero arbitrio. Rivolgendosi agli uomini di scienza, in particolare ai medici, il vescovo di Foligno Antonio Bettini – al quale s’è detto il Rossi aveva dedicato una parte del suo commento – aveva preso posizione circa il consiglio dato dai medici di allontanarsi dai centri cittadini per sfuggire al contagio della peste che in quegli anni era tornata a infuriare in Europa. Nell’edizione del 1480 il Liber de divina preordinatione vitae et mortis humanae, dato alle stampe a Roma per i tipi di Eucharius Silber, è accompagnato da una Responsio contra magistrum Petrum, redatta a difesa dello scritto stesso, nella quale Bettini confutava la teoria di Rossi sullo spazio da questi accordato alla prescienza divina.
Il «celeberrimus in artibus et medicina doctor» – così lo definisce lo storico senese Sigismondo Tizio, nelle pagine delle sue Historiae senenses – rappresentò dunque, con il suo insegnamento e con le sue opere, una stagione della vita culturale senese, quella del pieno e maturo Quattrocento, che si distinse proprio per la centralità dello Studium e delle personalità che lo animavano, e per le numerose direttrici lungo le quali si mosse nella civitas Virginis l’impegno culturale dei suoi protagonisti, diviso tra la diffusione delle idee del nascente Umanesimo e la persistenza di un sapere che, seppure ancorato alla tradizionale scolastica, non appare privo di specificità.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Siena, Biccherna, 1132, c. 194; Quattro Maestri del Sale, VI, c. 80; Diplomatico, Patrimonio dei resti Ecclesiastici, Compagnie, 22 settembre 1437; Roma, Biblioteca Angelica, ms. 545: Petri Rusii, In III libros De anima; Siena, Biblioteca comunale degli Intronati, Mss., F.III.8, F.III.9: Petri Rusii, Veteris testamenti atque sententiarum nec non Aristotelis Ethicorum concordia; B.III.10: Sigismondo Tizio, Historiae senenses; Petri Rusii, Historiae fragmentum, in L.A. Muratori, RIS, XX, Mediolani 1731, coll. 27-48; Augustini Dathi Opera, per Simeonem de Nardis, Senis 1503, p. 99; Iohannes Petri Feretrii Saena vetus, ex officina Simeonis Rubei, Senis 1513, p. 45; I. Schiphover, Chronicon Oldeburgensium Archicomitum, in Rerum Germanicarum Scriptores, II, Helmaestadii 1688, pp. 121-192; Le pergamene delle confraternite nell’Archivio di Stato di Siena (1241-1785), a cura di M.A. Ceppari Ridolfi, Siena 2007, p. 28.
I. Ugurgieri Azzolini, Le pompe sanesi o vero relazione delli huomeni e donne illustri di Siena e suo stato, I, Pistoia 1649, pp. 368 s.; J.F. Ossinger, Bibliotheca augustiniana, Ingolstadii et Augustae 1768, pp. 780 s.; C. Lohr, Medieval Aristotle Commentaries, in Traditio, XXVIII (1972), p. 369; G. Fioravanti, Alcuni aspetti della cultura umanistica senese nel ’400, in Rinascimento, s. 2, XIX (1979), pp. 117-167; Id., Pietro de’ Rossi. Bibbia e Aristotele nella Siena del ’400, ibid., XX (1980), pp. 87-159 (ora in Id., Università e città. Cultura umanistica e cultura scolastica a Siena nel ’400, Firenze 1981); Id., Le arti liberali nei secoli XIII-XV, in L’università di Siena. 750 anni di storia, Siena 1991, pp. 268-270; I. Gagliardi, I pauperes Yesuati tra esperienze religiose e conflitti istituzionali, Roma 2004, pp. 174, 192, 221, 228, 266, 409-424; P. Pertici, Siena quattrocentesca. Gli anni del Pellegrinaio nell’ospedale di Santa Maria della Scala, Siena 2012, pp. 35 s., 55, 183, 197; N. Mahmoud Helmy, Tra Siena, la curia e l’Oriente. Beltramo di Leonardo Mignanelli e le sue opere, Roma 2013, pp. 121, 261, 264, 266, 271, 286 s., 302.