GIOFFREDO, Pietro
Nacque a Nizza, nell'agosto 1629, da un'antica famiglia "civile", figlio di Antonio e Devota Gerbona.
Il padre, provveditore del castello di Nizza e dei forti del contado e poi sovrintendente delle fabbriche e fortificazioni della città e del castello, proveniva da una casa che nel Nizzardo aveva dato diversi funzionari al governo sabaudo. Nel 1682 un cognato del G., tale avvocato Laugiero, era in carica presso la giudicatura di Chieri, mentre il minore dei fratelli, Giovanni Andrea, era frate cappuccino con il nome di Arcangelo.
Compiuti i primi studi presso il gesuitico Collège du Saint-Nom de Jésus e ordinato sacerdote il 20 sett. 1653, sin da giovane il G. andò raccogliendo un piccolo museo di antichità nizzarde, segno di un precoce interesse verso l'erudizione. Lo stimolo a passare alla storia gli venne allorché il padre gesuita T. Rainaudo, che aveva pensato di scrivere una storia di Nizza, rinunciò al progetto, informandone il Gioffredo. Dopo diversi anni di lavoro, nel 1657, fu così il G. a ultimare la Nicaea civitas sacris monumentis illustrata, che l'anno successivo venne pubblicata a Torino a spese della Municipalità nizzarda.
Si tratta di una storia enciclopedica divisa in quattro parti: la prima (Prolegomeni) è costituita dalla descrizione storico-geografica di Nizza, della sua diocesi e dell'intera contea; la seconda rappresenta una sorta di storia ecclesiastica, compiuta attraverso ventisei biografie di personaggi noti per le loro virtù cristiane; la terza e la quarta sono rispettivamente la cronotassi dei vescovi di Nizza e l'elenco degli abati del convento nizzardo di S. Ponzio. Merito principale del G. fu quello di non rifarsi semplicemente a quanto pubblicato sino ad allora, ma di compiere nuove e accurate indagini documentarie, che gli guadagnarono un considerevole prestigio internazionale. La Nicaea fu infatti ristampata, con dedica a Vittorio Amedeo II, a Leida nel 1723, insieme con l'Augusta Taurinorum di E.F. Pingone, nel Tesoro d'italiche storie di P. Burnam.
Il successo dell'opera valse al G. la nomina a storiografo di corte di Carlo Emanuele II di Savoia (patenti del 20 marzo 1663). Grazie all'appoggio del marchese F. Tana (al quale - qualche anno dopo, in un passo della Storia delle Alpi Marittime -, il G. avrebbe ammesso di dovere l'"avanzamento […] in questo mondo" di cui ormai godeva), il G. divenne membro dell'Accademia degli Incolti, che, fondata a Torino nel 1662 per opera di L. Scoto, era stata accolta proprio nel palazzo del Tana. Questi esercitava, inoltre, per conto dei Della Rovere, il patronato sulla parrocchia di S. Eusebio, il cui rettorato, dal 24 apr. 1665 al 13 maggio 1673, sarebbe toccato al Gioffredo.
Asceso ai vertici degli ambienti culturali piemontesi, membro - dopo l'esperienza degli Incolti - dell'Accademia reale, voluta dalla reggente Maria Giovanna Battista di Nemours e organizzata a partire dal 1677 da G. Brusoni, il G. ebbe modo di stringere relazioni con intellettuali di fama, in particolare con il medico e matematico G. Torrini e con l'abate E. Tesauro, con il quale avrebbe diviso le responsabilità di elemosiniere e viceprecettore del principe di Piemonte Vittorio Amedeo. L'11 maggio 1673, infatti, Carlo Emanuele II affiancava il G. a un "ajo e governatore" (il conte Giovan Filippo Solaro di Monasterolo) e al precettore vero e proprio (l'ormai anziano abate Tesauro), concedendogli una congrua pensione.
La pratica di palazzo e l'impegno formativo nell'istruzione dell'erede al trono ebbero un preciso riflesso sulla produzione del G., incrementando due filoni: la poesia latina, finalizzata alla glorificazione dinastica in un circuito internazionale, e i discorsi accademici, destinati alla comunità colta locale e intesi alla divulgazione delle direttive sovrane. Il G. compose così i Miscellaneorum epigrammatum libri sex, usciti nel 1681 con dedica al principe Vittorio Amedeo (Augusta Taurinorum), sorta di anticipazione del successivo Theatrum Statuum Sabaudiae per la celebrazione dei sovrani, della capitale, della corte e dei suoi cortigiani, modellata sugli esempi classici, umanistici e rinascimentali, ma rinnovata da un'ingegnosa rilettura della tradizione. Al contempo il G. dava corpo a un progetto culturale di cui il discorso I debiti scambievoli del principato e delle lettere, pronunciato all'Accademia reale di Torino il 5 luglio 1678, costituisce il documento più significativo e insieme un autentico gioiello di retorica secentesca.
Il Gazzera, nella prefazione all'edizione da lui curata della Storia delle Alpi Marittime, ricorda il discorso come uno tra i più importanti inediti del G.; a fine Settecento l'originale era conservato dall'archivista e avvocato del Senato di Nizza C.F. Cristini. Un manoscritto autografo di questo testo, recentemente pubblicato da M.L. Doglio (Un inedito…), si conserva presso l'Archivio di Stato di Torino (Corte, Biblioteca antica, J.A.X.12). Agile compendio della serie di trattati fioriti nell'ambito della corte sabauda sulla scia di un genere di successo quale l'institutio principis (dallo Statista regnante di V. Castiglione a Il principe avvisato di S. Cadana, da La scuola della verità aperta a' principi di L. Giuglaris fino a La filosofia morale del Tesauro), il discorso è volto a dimostrare il rapporto di reciprocità fra le lettere e il principe: se il secondo deve alle lettere la possibilità di mantenere il proprio potere e di perfezionare la propria arte di governo e della guerra, le prime sono a un tempo debitrici al loro signore della fortuna di cui godono e responsabili della glorificazione delle sue imprese terrene. Letto e annotato nel corso di tutto il Settecento, il discorso prefigurava, con esemplare pregnanza, la tipologia dei trattati che, dall'età di Vittorio Amedeo II in avanti, si sarebbero spinti sino alle tesi del Del principe e delle lettere di V. Alfieri.
Morto il medico e bibliotecario ducale G. Torrini, il 31 dic. 1674 Carlo Emanuele II ne passava le consegne al G., destinandogli uno stipendio di 300 lire d'argento. Si trattò, peraltro, di una carica puramente formale, dato che la raccolta libraria e antiquaria del duca attendeva ancora di essere riordinata da quando, nel 1667, era stata notevolmente danneggiata da un incendio, ma non risulta che il G. vi abbia mai posto mano. Nel 1677, "gionta l'applicazione singolare" nel dar lustro alla storia di casa Savoia e nel descrivere con grande eloquenza le "moderne parti più riguardevoli" della capitale, la Municipalità di Torino concedeva al G. la cittadinanza, e nella motivazione del decreto (Arch. di Stato di Torino, Corte, Biblioteca antica, J.a.X.12) è facile scorgere un'allusione alla descrizione di Torino compiuta nel TheatrumStatuum regiae celsitudinis Sabaudiae ducis (Amstelodami 1682).
L'opera è una sorta di meraviglioso libro figurato dei domini sabaudi frutto di un lungo periodo di gestazione: l'idea originaria risale a circa il 1657, cui seguirono nel 1661 l'ordine ducale diramato ai Comuni per l'esecuzione di "succinte relazioni", la raccolta del materiale, l'incendio della stamperia nel 1672. Il monumentale progetto concentrò intorno alla figura centrale del Tesauro alti funzionari di corte: accanto al G. (storiografo ufficiale, cui toccò la parte letteraria), il segretario G.T. Borgonio (per la sezione artistica), con il coordinamento del conte G.F. Carcagni, decurione e socio del Collegio di leggi dell'università. Se, tra i curatori, il Borgonio è indubbiamente il personaggio oggi più conosciuto, è indubbio che tanto il G. quanto il Carcagni erano allora intellettuali in autentica ascesa, grazie al prestigio che conferiva loro l'autorità stessa del Tesauro. Nella fase preparatoria il G. mise a punto la definizione di una tipologia da seguire in tutte le relazioni: uno schema che prevedeva dati geografici iniziali, compendio delle vicende storiche, cenni sul paesaggio, sul clima, sulle culture, sulle risorse e gli abitanti, informazioni su edifici e monumenti, istituzioni, usanze, per concludere con una galleria delle famiglie nobili e degli uomini illustri nella chiesa, in politica, nelle arti e nelle scienze. La matrice ideologica era volta a piegare in un disegno unitario la sintesi dei contributi di autori dal retroterra più disparato: non solo il grande letterato, lo storico, l'artista-scrittore, ma dignitari, burocrati, docenti universitari, semplici raccoglitori di memorie comunali e infine anonimi, senza possibilità alcuna di essere identificati, dato che nessuna relazione era firmata. Prima della definitiva traduzione in latino delle diverse parti (intrapresa nel 1678 da un omonimo, Giovanni Gioffredo, la cui identità resta tuttora incerta), fu il G. a ridurre la memoria che il consigliere comunale G.A. De Rossi aveva inviato da Ceva, a rimaneggiare - se non rifare - le relazioni di piccoli funzionari di corte o vicini ai circoli di corte quali A. Valsania e G. Piozzo (cui risultano versati compensi per le descrizioni di alcune "meraviglie" torinesi: il Bastion Verde, il palazzo di Città, la piazza delle Erbe, la Torre Civica, la villa di Cristina di Francia, la villa della Regina e il castello di Mirafiori), e, ancora, a integrare e rivedere il testo dedicato alla residenza ducale della Venaria da E.F. Panealbo (lettore presso la facoltà di giurisprudenza, consigliere di Stato e conservatore degli affari ecclesiastici), ad ampliare, completare o a comporre ex novo le parti su Chieri, Riva, Tenda, Turbia, Oneglia, Susa, sull'arco d'Augusto ad Aosta e su talune località savoiarde. Scomparso il Carcagni (1678), è certo che il riassetto finale del piano dell'opera passò per lo più al G., con un cospicuo aggravio di lavoro.
Oltre all'impegno assunto in questa impresa, nella seconda metà degli anni Settanta il G. ricevette dalla reggente Maria Giovanna Battista di Nemours l'incarico di realizzare, collaborando sempre con il Borgonio, un nuovo albero genealogico della real casa. Nel 1679 gli fu commissionata un'iscrizione da apporre all'ingresso principale del nuovo ospizio di virtù di Pinerolo; lo stesso anno il G. venne ammesso nell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, del quale egli avrebbe compilato la storia (oggi consultabile presso l'Archivio mauriziano a Torino). Con la caduta in disgrazia della reggente, già prima della presa del potere da parte di Vittorio Amedeo II, il 14 marzo 1684 il G. fu dispensato dalla funzione di elemosiniere, mantenendo in ogni caso il ruolo di "historico et ducal bibliotecario" (funzione per la quale compare nei registri di pagamento sino al 1689). Commutato il beneficio ecclesiastico di S. Maria delle Alpi (il cui usufrutto gli fu assegnato dal duca a partire dal 20 marzo 1688), il G. godette ancora negli ultimi anni di vita delle rendite dell'abbazia di S. Ponzio. Verso il 1685 egli aveva fatto ritorno a Nizza, dove il 28 genn. 1686 dettò il proprio testamento e il 3 febbr. 1687 ottenne ancora la patente per esercitare in qualità di giureconsulto collegiato. Di lì a poco le truppe di Luigi XIV di Francia avrebbero occupato quella provincia sabauda (1691): nella guerra della Grande Alleanza Vittorio Amedeo II di Savoia si era schierato contro la Francia, subendo sui suoi territori gli effetti di una guerra tanto economicamente impegnativa quanto strategicamente delicata. In tali frangenti, il G. fu incaricato di trattare la resa di Nizza con il maresciallo Nicolas Catinat, compito che si può spiegare forse con il fatto che suo padre era stato sovrintendente della fortezza (in seguito il comando sarebbe andato a membri della famiglia Adrechio, imparentata con i Gioffredo). Il Vernazza, inoltre, attribuisce al G. una Relatione delle cose occorse durante l'assedio, e resa primieramente dei forti di Villafranca, Mont'Albano e Sant'Ospizio, poi della città e castello di Nizza ne' mesi di marzo et aprile del presente anno 1691.
A Nizza il G. non sopravvisse a lungo alle vicende della guerra. Morì infatti l'11 nov. 1692 e fu sepolto in quell'abbazia di S. Ponzio che gli aveva fruttato in vita laute rendite.
La figura del G. era destinata a ridestare, circa ottant'anni dopo la sua scomparsa, l'interesse non solo della comunità degli studiosi, ma pure della casa regnante piemontese. Nel 1773 Vittorio Amedeo III ordinava di incamerare nella Biblioteca dell'Archivio di corte, acquistandoli per la consistente somma di 1500 lire, i manoscritti storico-geografici del G. conservati dai discendenti del ramo degli Adrechio, cui il G. aveva lasciato i propri beni librari (nel testamento del 1686 cedeva al nipote Giovanni Francesco il suo studio, la "libraria" e il "gabinetto d'anticaglie"). Iniziata con il pronipote G.B. Adrechio, la dispersione di tale archivio privato si verificò in più direzioni. è lo stesso Vernazza a testimoniare di essere entrato in possesso, attraverso il già citato C.F. Cristini, di parecchie carte gioffrediane (tra le quali il manoscritto della Nicaea, un inventario dei documenti dell'Archivio di Nizza e abbozzi vari della Storia delle Alpi Marittime sotto il titolo di Repertorium pro componenda historia Alpium Maritimarum), mentre il presidente del Senato di Nizza, conte Ilarione Spitalieri de Cessole, affermava ancora nel 1833 di avere in casa propria fogli manoscritti del Gioffredo. Dopo l'acquisizione del 1773, gli accorpamenti ai fondi delle biblioteche di Stato continuarono ma senza seguire criteri di inventariazione uniformi.
Accanto ai codici originali conservati nell'Archivio di Stato di Torino (Corte, Biblioteca antica, H.III.6-8), della Storia delle Alpi Marittime e della Corografia esistono copie manoscritte posteriori che, dallo smembramento della raccolta personale del conte Cesare Saluzzo di Monesiglio a metà Ottocento, in parte finirono presso l'attuale Biblioteca nazionale di Torino (mss. O.I.12-14), in parte nella biblioteca del duca Tomaso di Savoia-Genova, ora in Biblioteca reale di Torino (Fondo Saluzzo, 626); senza contare la copia probabilmente ottocentesca della sola Corografia, oggi nell'Accademia delle scienze di Torino (ms. 082). L'esemplare ottocentesco della Reale, incompleto e mancante della Corografia, comprende in un volume le vicende dal 1476 al 1553, mentre quello della Nazionale, in tre volumi (l'uno ottocentesco, gli altri anteriori), risulta alquanto danneggiato dall'incendio che divampò nel 1904. Quanto a un fascicoletto riguardante il passaggio delle Alpi presente nel fondo manoscritti della Biblioteca reale (Misc. militare, 143), si tratta di una reconnaissance dei passi alpini a opera di un ufficiale francese che aveva partecipato all'assedio di Casale del 1628, relazione trascritta integralmente dal G. nella sua Storia delle Alpi Marittime. Metodo e fonti cui attinse il G. si possono in gran parte ricostruire, poi, dai quinterni di appunti tuttora consultabili nell'Archivio di Stato di Torino (Corte, Biblioteca antica, J.A.X.13, f. 3; Paesi in generale, Provincia di Nizza, mm. 64-65).
Solo in apparenza frutto di un puro esercizio erudito, la geografia costituiva per il G. una disciplina di alto valore pedagogico, inclusa a tutti gli effetti nel programma per la "reale instruttione" del principe. Lo evidenzia bene il trattatello pedagogico (1673 circa) compreso nello Zibaldone di Pietro Gioffredo (oggi nell'Accademia delle scienze di Torino, ms. 0259), dove il metodo didattico, che fa esplicito riferimento all'educazione del delfino di Francia, si basa largamente sull'uso di tavole e di giochi geografico-storici. Se il G. collocava nella fisica non solo lo studio delle leggi di natura, ma anche quello dell'uomo, dei "sensi" e delle "facoltà dell'animo", nel campo dell'aritmetica e della geometria egli faceva rientrare in pieno l'architettura civile e militare (discipline al servizio dell'ars regnandi). Quanto alla geografia, "occhio dell'historia", insieme con la cronologia, avrebbe dovuto sostanzialmente "rendere ben informato il principe" sulla situazione europea. Pur ispirandosi in massima parte alla produzione scientifica d'Oltralpe, il G. ambiva a "penetrare al fondo le cose presenti" girando "lo sguardo nelle passate", a partire dalle vicende segnate dal passaggio in Italia dei Francesi di Carlo VIII, ma ben attento agli sviluppi "della sua Casa Reale e di tutti i suoi gloriosi progenitori". Per quanto risalisse a referenti umanistico-rinascimentali (come A. Possevino, per esempio, il quale, nella Bibliotheca selecta qua agitur de ratione studiorum composta a Roma nel 1593, aveva avuto il merito di considerare la geografia in funzione della filosofia morale), l'interpretazione che ne offriva il G. era dotata di una certa originalità, con un rimando alle "circonstanze del fatto" che costituiva non solo un distacco dall'Aristotele dell'Etica Nicomachea, ma anche una rivisitazione delle tesi bodiniane dei due occhi della storia. La geografia risultava, in altri termini, non tanto una descrizione fine a se stessa, bensì una rappresentazione di luoghi modificati dal tempo, luoghi in cui gli elementi ordinatori erano stati gli uomini: innanzitutto i re, i principi e i papi, ma non solo. Va detto che il G., pur vivendo il finire di un'epoca che, a seguito delle scoperte geografiche, aveva rivisto gran parte delle proprie nozioni cosmologiche, non rinnegò completamente la tradizione tolemaica: egli tentò, piuttosto, di stabilire una mediazione. Se la geografia tolemaica, come repertorio di luoghi localizzati per mezzo della latitudine e della longitudine, si presentava quanto mai utile nella pratica, essa doveva comunque essere integrata con testi quali i Parallela geographiae veteris et novae di Ph. Briet (Parisiis 1648-49) e il Monde entier avec toutes ses parties, états, empires, républiques et gouvernements di P. d'Avity (Paris 1625), ossia appunto due tra le più importanti opere che in quegli anni si volgevano a indagare lo spazio non in sé, ma per vedervi il riflesso dell'attività umana, e soprattutto l'azione storica in quanto tesa all'organizzazione politica.
Erano questi i nodi attorno ai quali fu costruita la Corografia, a precedere i ventisei libri di quella Storia delle Alpi Marittime cui il G. avrebbe legato la propria fama. Scegliendo di descrivere le Alpi Marittime, egli affrontava la delicata questione di aggiornare la denominazione di un'entità geografica che da secoli aveva perso una specifica funzione, essendo stata completamente superata la ripartizione provinciale d'età romana. Dedicare una corografia a tale unità regionale significava, in primo luogo, dimostrarne l'individualità. Sensibile alla teoria secentesca delle frontiere naturali, il G. impostava il problema della separazione costituita dalle Alpi e dagli Appennini (quest'ultima riguardante il delicato problema dei confini con la Repubblica di Genova), e tra Francia e Italia, parlando opportunamente di una sorta di centri di gravitazione mutevoli con il tempo. Implicitamente si giungeva così ad affermare che una catena montuosa non costituisce di per sé una barriera: la montagna entra a far parte di un'area o di un'altra a seconda dei rapporti di forza. E ciò suonava come la legittimazione, sul piano teorico, della politica territoriale dello Stato sabaudo, che rivendicava diritti sui due versanti delle Alpi da cui era attraversato. Mentre i primi tre capitoli costituiscono sicuramente la parte più problematica della Corografia, il resto dell'opera si adegua alla geografia "statistica" del tempo, trattando delle divisioni politiche ed ecclesiastiche, dei sistemi di governo, dei costumi, della religione, delle popolazioni alpine e infine delle risorse economiche. Il testo, peraltro, rimase inedito per un paio di secoli, sino all'epoca di Carlo Alberto, quando la Regia Deputazione di storia patria (da poco costituita) ne patrocinò, nel 1839, l'edizione, affidandola al Gazzera. Precedentemente Carlo Alberto aveva autorizzato personalmente, su richiesta di P. Balbo, la spedizione a Nizza di una delle due copie manoscritte conservate nell'Archivio di corte, affinché il conte Ilarione Spitalieri di Cessole (autore di una notizia storica dedicata al G.) potesse studiarla e confrontarla con alcuni documenti in suo possesso, prima che il Gazzera ponesse mano all'edizione.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Corte, Biblioteca antica, H.III.6-8; H.IV.26; J.A.VI.26: G. Vernazza, Vita di P. G. (copia eseguita nel 1823 dall'autografo dell'autore già posseduto da P. Balbo); J.A.X.12-13; Gioie e mobili, m. 2, f. 29; Paesi per provincia, Provincia di Nizza, m. 64, f. 12; Lettere particolari, "G", m. 32 (1681-84); Torino, Bibl. reale, Mss. Vernazza, Misc., 48.1: G. Vernazza, Vita di P. G. (copia di P. Balbo); G. Casalis, Diz. geografico portatile, II, Milano 1778, p. 116; Diz. storico geografico statistico, XI, Torino 1843, p. 823; L. Cibrario, Storia di Torino, II, Torino 1846, pp. 605 s., 623; D. Carutti, Storia di Vittorio Amedeo II, Firenze 1863, pp. 35, 58; G. Claretta, Sui principali storici piemontesi, Torino 1878, pp. 231-234, 252-255; A.I. Rance-Bourrey, Nicaea civitas (notes biographiques), in Nice historique, XIII (1911), pp. 377-388; E. Toselli, À la recherche d'un portrait authentique, ibid., XXIII (1920), pp. 13-18; M. Zucchi, I governatori dei principi reali di Savoia, illustrati nella loro sede con documenti inediti, in Miscellanea di storia italiana, s. 3, XXII (1933), p. 56; L. Tamburini, Le chiese di Torino dal Rinascimento al Barocco, Torino s.d. (ma 1969), p. 243; E. Mongiano, Una dinastia e la sua immagine: le genealogie sabaude tra il XVI ed il XVIII secolo, in I rami incisi dell'Archivio di corte: sovrani, battaglie, architetture, topografia, Torino 1981, p. 76; P. Sereno, Per una storia della "Corografia delle Alpi Marittime" di P. G., in La scoperta delle Marittime, Cuneo 1984, pp. 37-55; M.L. Doglio, Le relazioni come strumento letterario, in Theatrum Sabaudiae, a cura di L. Firpo, II, Torino 1984, pp. 23-36; G.P. Romagnani, Storiografia e politica culturale nel Piemonte di Carlo Alberto, Torino 1985, pp. 298-300; M.L. Doglio, Da Tesauro a Gioffredo. Principe e lettere alla corte di Carlo Emanuele II, in Da Carlo Emanuele a Vittorio Amedeo II, a cura di G. Ioli, Torino 1986, pp. 37-51; Id., Un inedito discorso accademico di P. G. sul principe e sulle lettere, in Studi piemontesi, XV (1986), pp. 457-467.