FERRETTI, Pietro
Nacque ad Ancona il 15 luglio 1790 dal conte Oliverotto e da Flavia Mancinforte Sperelli. Penultimo di sette fratelli, malgrado appartenesse ad una famiglia di antica nobiltà ebbe un'infanzia assai tormentata e presto bruscamente privata della presenza dei genitori. Nel 1799, infatti, il padre, spaventato dalla eventualità di un'invasione francese dello Stato pontificio, fuggì ad Ancona portando con sé la moglie e i tre figli minori e fece sosta a Parma: di qui, collocati il F. e il fratello minore Gabriele nel collegio "S. Caterina", si diresse alla volta di Verona in cerca di un rifugio più sicuro. Il F. restò in collegio per due anni e mezzo, un'esperienza che, oltre a dargli una prima istruzione, lo temprò e lo costrinse ad una precoce maturazione, favorita dalle doti di spirito pratico e di innato buon senso di cui, nonostante la giovane età, si rivelò ben presto fornito. Furono queste qualità a consentirgli, per quanto appena adolescente, di seguire passo passo la crescita del fratello - di lui minore di cinque anni - e di superare anche le malattie cui lo predisponeva una certa gracilità del suo fisico. Compiuti i primi studi, i due ragazzi furono trasferiti nel collegio "Tolomei" di Siena tenuto dagli scolopi e vi rimasero per otto anni, fino al maggio 1809, allorché poterono far ritorno nella città natale trovandovi il nuovo regime del Regno italico ed un padre che, malgrado i timori di un decennio prima, aveva saputo trarre qualche profitto materiale dalla vendita dei beni nazionali e aveva dato tre figli alle armate napoleoniche.
Alla scuola degli scolopi il F. si era specializzato nello studio dell'architettura civile, segnalandosi come elemento assai promettente. Sua idea di partenza era quella di offrire alla Comunità le cognizioni così accumulate: nel clima di forte impulso alla presenza dei laici nella pubblica amministrazione aperto dalla temporanea caduta della dominazione papale, queste inclinazioni furono subito assecondate con la nomina a membro della congregazione di Carità del Dipartimento del Metauro (1809) e con l'attribuzione di specifiche competenze nei settori chiave dell'assistenza ospedaliera e dell'infanzia abbandonata. E qui la sua sensibilità ai problemi sociali, manifestatasi in particolare modo nella direzione del lazzaretto di Ancona, si accompagnò sin dall'inizio all'esigenza di adottare misure non meramente caritative ma suscettibili di procurare vantaggi duraturi alla collettività e di cominciare ad imprimere il marchio della razionalità e dell'efficienza sulla pubblica amministrazione: tale almeno era il significato dei provvedimento con cui il F. andava contro l'usanza antica di assegnare agli esposti un lavoro nella marina mercantile senza tener conto delle loro caratteristiche fisiche e dell'inclinazione naturale, requisiti per lui fondamentali per ogni tipo di scelta. Con questa mentalità prima o poi il F. sarebbe stato indotto a misurarsi con l'economia e con i suoi aspetti in una regione come quella marchigiana ed in una città come Ancona che erano tra le più dinamiche di tutto lo Stato pontificio. Senonché a troncare ogni sperimentazione giunse il ristabilimento del regime papale, le cui autorità. a lungo incerte se epurare o utilizzare la burocrazia formatasi sotto i Francesi, oscillarono tra una soluzione e l'altra anche con il F., al quale prima tolsero la direzione del lazzaretto per poi impiegarlo nell'organizzazione di un cordone sanitario ponendolo a capo della commissione incaricata di prevenire la propagazione della epidemia di colera scoppiata nel frattempo nel Meridione.
Nominato alla fine del 1817 direttore di Polizia a Ravenna, il F. si decise ad accettare l'incarico solo per le pressioni dei parenti, e appena poté (cioè nel giro di tre-quattro mesi) se ne sbarazzò, con il pretesto di una malattia agli occhi; era un impiego per il quale non si sentiva portato e che lo costringeva a porre rimedio con misure repressive a situazioni di disagio che non riteneva prodotte tanto da una congenita inclinazione a delinquere dei Romagnoli quanto dal malgoverno cui essi erano sottoposti. Con tutto ciò, fino a quando non si fu dimesso, riuscì ad ottenere il rispetto della legge senza dover nemmeno ricorrere a provvedimenti particolarmente vessatori.Dei problemi che affliggevano i popoli della regione adriatica dello Stato ecclesiastico gli interessavano maggiormente quelli collegati con la condizione economica. I lunghi viaggi che intraprese a partire dal 1819, portandolo a contatto di realtà economicamente più avanzate quali quelle della Francia, della Germania meridionale e della stessa Italia settentrionale, gli permettevano di intuire quanto le potenzialità di una città a vocazione commerciale come Ancona fossero compresse da una amministrazione corrotta o incapace come quella pontificia. Vedeva con chiarezza che a risentirne erano soprattutto i traffici marittimi, minacciati dai corsari da un lato, penalizzati dall'altro dalla mancanza di provvidenze e da un sistema protezionistico che frenava ogni spirito d'intrapresa.
Con una memoria sottoposta il 17 sett. 1822 al segretario di Stato E. Consalvi il F. affrontava a nome della cittadinanza entrambe le questioni proponendo il pagamento di una cifra forfettaria ai corsari "per ottenere il rispetto delle imbarcazioni e dei marinai e delle merci in esse trasportati" (Cecchi, L'amministrazione pontif. .., p. 278) e chiedendo l'adozione di misure (sgravi fiscali, miglioramento delle strutture) che favorissero la ripresa del porto di Ancona. Realistica com'era, la soluzione avanzata dal F. aveva il torto di rassegnarsi ad un'idea di Stato incapace di garantire la sicurezza dei sudditi e dei loro beni. Roma comunque replicò, cinque anni più tardi, con la soppressione della franchigia: per riaverla fu necessario che una deputazione di cui faceva parte anche il F. si recasse nella capitale e accondiscendesse al pagamento di un tributo annuo di 4.000 scudi.
L'insensibilità romana verso ogni prospettiva di sviluppo economico e la rapacità dell'amministrazione pontificia non potevano che produrre disaffezione in un cittadino pur temperato quale il F. era. Di fronte alla rivoluzione che nel 1831, prendendo le mosse dal Ducato di Modena, coinvolse Bologna e le Romagne, la sua prima reazione fu di una certa prudenza, quasi non volesse alimentare illusioni di sorta; poi prevalse la speranza che effettivamente si potesse inaugurare anche per Ancona e le Marche una stagione di libertà politica, e il F., data la propria adesione all'ordine instaurato dopo l'abbattimento del potere papale, il 18 febbraio fu chiamato a far parte del comitato di governo della città di Ancona assumendovi l'incarico di provvedere alla polizia, alla sanità e alla milizia. Lo stesso giorno partiva da Roma il cardinale A. Benvenuti, cui la segreteria di Stato aveva affidato, con i poteri di legato a latere, il compito di ricondurre alla sovranità pontificia le province ribelli: confermandosi l'elemento più risoluto di tutta la dirigenza anconetana, il F. lo fece arrestare e trasferire immediatamente a Bologna. D'altronde in quelle condizioni la difesa della rivoluzione e l'esigenza di coordinarla con le iniziative degli altri territori insorti non potevano che essere prioritarie. In ciò il F. fu indubbiamente tra i più solerti di un comitato che complessivamente fece il possibile per ripristinare la normalità organizzando magistratura, tribunali, guardia nazionale e volontari. Ma ormai incombeva la controffensiva austriaca invocata da Roma, e il F., che il 16 marzo era stato nominato anche prefetto di Macerata e Camerino, il 23 marzo riceveva dal governo delle Provincie unite, rifugiatosi proprio ad Ancona, il titolo di triumviro dotato di pieni poteri insieme col generale C. Zucchi e con T. Borgia. In questa veste poté solo trattare la capitolazione e poi darsi alla fuga. Conosceva talmente bene le restaurate autorità da guardarsi bene dall'accettare la loro offerta di imbarco su un legno pontificio: gli riuscì così di evitare la cattura in mare di cui sarebbero rimasti vittime gli altri capi della rivoluzione, non l'inclusione nell'elenco dei trentotto esclusi dalla sopravvenuta amnistia dell'aprile del 1831. L'esilio lo condusse a Marsiglia, dove già numerosa era l'emigrazione politica italiana. Considerato da tutti con rispetto per i suoi modi affabili quanto modesti, concordemente accettato come erogatore dei sussidi stanziati dal governo francese per gli esuli, il F. condusse anch'egli per qualche tempo un'esistenza assai misera. Per nulla condizionato dal titolo nobiliare che portava, si adattò a vivere degli espedienti più umili e per trovare un lavoro si recò a piedi fino a Ginevra; di qui, saputo che il governo pontificio avrebbe tollerato il suo rientro in patria, si rimise in viaggio con lo stesso sistema di locomozione ma una volta alla frontiera fu respinto. Senza abbattersi tornò allora a Marsiglia dove, all'epoca del suo primo arrivo, era stato attratto da una Società patriottica italiana che, presieduta nominalmente da F. S. Salfi, era diventata uno strumento del governo francese: nel 1832 questa linea dovette parere superata al F., il quale, conosciuto G. Mazzini, decise di affiliarsi alla Giovine Italia. Era, il suo, un vincolo associativo che, pur nascendo dall'insofferenza per le condizioni dell'Italia, poggiava più sulla solidarietà umana che su una reale comunanza di vedute: troppo lontana dallo spirito pragmatico del F. appariva infatti l'ideologia mazziniana, e fu per questo che, mentre la simpatia tra i due si protrasse nel tempo, la loro collaborazione si esaurì non appena il F., per risolvere i propri problemi quotidiani, trovò un posto di contabile in una casa di commercio i cui proprietari lo apprezzarono al punto da inviarlo, all'inizio del 1833, ad Alessandria d'Egitto per trattare l'acquisto di una partita di cotone. Soddisfatto l'incarico, invece di rientrare in Europa il F. accettò l'offerta fattagli dal governo egiziano di "dirigere un servizio sanitario di terra e di mare" (Michel, p. 59), e si sarebbe trattenuto ancora ad Alessandria se a fargli mutare idea non fossero intervenute una grave malattia agli occhi e la concessione nell'ottobre del 1833 di potersi stabilire a Napoli presso il fratello Gabriele, appena nominato nunzio pontificio nel Regno delle Due Sicilie.
Inizialmente la segreteria di Stato romana adottò la massima circospezione verso il F., proibendogli di risiedere in nunziatura e prescrivendogli di ridurre al minimo i contatti con il fratello; poi col passar del tempo i controlli si alleggerirono e, pur non cessando la sorveglianza, da Roma si chiuse un occhio sui suoi spostamenti che ora lo portavano a Fermo, dove Gabriele era stato posto a capo della diocesi, ora gli imponevano di attraversare il territorio pontificio per i suoi viaggi d'affari verso il Nord, in particolare a Genova e in Lombardia. A Napoli, infatti, il F. era entrato in società con Achille Di Lorenzo, figlio di un grosso banchiere del posto e fratello di quell'Enrichetta che sarebbe divenuta la compagna di C. Pisacane, nonché titolare di una fiorente casa di commercio con interessi in vari settori e con un raggio d'azione in tutto il Mediterraneo. La collaborazione tra i due durò tredici anni e, oltre a produrre a quanto sembra buoni risultati in campo economico-finanziario, obbligò il F. a viaggiare molto e ad allargare il giro delle sue relazioni entrando in contatto con gli ambienti più interessati ad uno sviluppo interno della penisola. Passata la simpatia per il mazzinianesimo, erano rimasti acuti nel F. il desiderio che lo Stato pontificio mutasse rotta e la certezza che il primo passo da compiere fosse la secolarizzazione delle cariche, unico mezzo per aprire la gestione dello Stato ad una borghesia ormai matura.
Tali idee parvero prossime a concretizzarsi con l'elezione al pontificato del cardinale G. M. Mastai Ferretti, suo lontano parente, il quale aprì l'era delle riforme con una amnistia della quale il F. si affrettò a fruire. Revocato il bando del 1831, al F. era consentito così di rimpatriare e seguire da vicino l'evoluzione interna del potere temporale. Ma le migliori prospettive gliele apriva la nomina a segretario di Stato del fratello Gabriele, il quale, assumendo la sua carica il 17 luglio 1847, poneva come sola condizione quella di averlo accanto come consigliere; e il F., coerente con il proprio passato, alla vigilia dell'assunzione delle proprie funzioni indicava tra i compiti più urgenti che attendevano il nuovo segretario quello di "togliere agli uomini del clero ciò che non possono espletare per destinarlo a' secolari, dai quali odiernamente riceve questo Stato quanto costituisce ogni risorsa dell'onor suo" (lettera del 17 luglio 1847 ad A. Di Lorenzo, in Museo centr. del Risorgimento).
Nel clima surriscaldato della seconda metà del 1847 il F. divenne, anche più del fratello (rispetto al quale, come avrebbe poi scritto G. Montanelli, "era un pezzo di governo, o, per dir meglio tutto il governo": Memorie, p. 293), il vero punto di riferimento delle speranze di tutto il liberalismo italiano (soprattutto di quello cattolico) per una effettiva affermazione della politica pontificia quale espressione e sintesi della volontà nazionale di affrancamento dall'egemonia austriaca: a lui si rivolgevano quanti chiedevano un intervento del papa che sanasse antichi e nuovi torti (fu così per T. Mamiani, anche lui esule del 1831, così per N. Tommaseo, in carcere a Venezia dal 18 genn. 1848); in lui vedevano un valido interlocutore coloro che a Roma, come A. Brunetti detto Ciceruacchio, o altrove in Italia, come V. Gioberti e il toscano N. Corsini, puntavano su una accelerazione del moto riformatore verso sbocchi costituzionali. Persino agli stranieri il F. appariva il solo capace di influire positivamente su Pio IX; e G. E. Minto, nel corso della sua missione italiana di fine 1847, sperava in un suo intervento per sdrammatizzare da un lato la questione irlandese, dall'altro per acquisire definitivamente il Papato allo schieramento liberale. Più in generale si può dire che l'obiettivo perseguito dal F. nell'ispirare la politica estera del fratello fu quella di isolare l'Austria sia dai suoi tradizionali alleati italiani sia a livello delle grandi potenze, agli occhi delle quali l'unica politica liberale accettabile doveva rifuggire da ogni estremismo rivoluzionario. Anche per questo il F., che i reazionari osteggiavano per i trascorsi del 1831 in ciò ricambiati da lui che consigliava di allontanare dalle cariche pubbliche gli elementi più legati all'epoca gregoriana, si affrettò a stringere rapporti con i maggiori esponenti del moderatismo italiano, M. d'Azeglio in primo luogo, tanto da essere presto annoverato tra i più caldi sostenitori del cosiddetto partito piemontese. Ma il 20 genn. 1848 l'uscita di scena del fratello bloccava ogni ulteriore iniziativa troncando a metà un lavoro già bene avviato.
Deluso. il F. tornò a Napoli, dove per qualche tempo si sforzò di influire sugli orientamenti del re cercando in tutti i modi di favorire un accordo con la Sicilia insorta. Gli premeva infatti che il Regno meridionale, ricevuta finalmente la costituzione, mantenesse la sua unità per meglio contribuire eventualmente allo sforzo bellico del Piemonte. A favorire tale prospettive giunse, a sorpresa, il 3 apr. 1848 la nomina del F. a ministro delle Finanze nel governo Troya: unico ministro non regnicolo - anche se in passato aveva ottenuto la naturalizzazione napoletana - il F. portava nel ministero l'interesse per quanto stava avvenendo in Lombardia; presto però capì che né le buone intenzioni né la grande abilità manovriera gli avrebbero permesso di venire a capo dell'ambiguità di Ferdinando II, che aveva il suo più solido punto d'appoggio nella grave crisi finanziaria del Regno. Il F. tentò con diversi mezzi (prestiti forzosi e divieti all'esportazione dei capitali) di riportare ordine e puntualità nel sistema fiscale, ma quando si accorse che il ministero si andava sfaldando (aveva corso anche qualche pericolo personale e rischiato di essere sequestrato da una folla di manifestanti che chiedevano lavoro) il 10 maggio 1848 rese inderogabili le dimissioni presentate una settimana prima e poi sospese nell'attesa della designazione di un sostituto.
Lasciato il governo, il F. continuò comunque a partecipare ai lavori del Parlamento napoletano, al quale era stato eletto ad aprile, e fu tra i firmatari della celebre Protesta di P. S. Mancini per i fatti del 15 maggio; rieletto il 15 giugno, si schierò all'opposizione e vi restò fino alla chiusura delle Camere. Rientrò allora negli affari, ma di ritorno dal primo viaggio all'estero si vide sbarrare le frontiere del Regno. Si stabilì allora a Firenze, dove visse gli ultimi anni di vita nella vana attesa di un provvedimento che gli consentisse di tornare a Napoli e dove si legò d'amicizia con il marchese G. Capponi, che apprezzava molto la semplicità dei suoi modi ma che forse non approvava quel suo tratto popolaresco che lo spingeva addirittura a "far conversazione nelle botteghe" (Tommaseo-Capponi, III, p. 193). Proprio pensando a lui il Tommaseo avrebbe invece pronunziato la sua apologia dei "cittadini delle piccole città italiane, più originali, e non meno patrizii, de' nati e cresciuti nelle città dominanti" (ibid., pp. 207 s.).
Morì a Firenze il 1ºapr. 1858.
Dei suoi conoscenti , M. Tabarrini come esecutore testamentario raccolse le carte e i documenti che aveva in casa e li consegnò al fratello di lui Cristoforo, mentre il Capponi si preoccupò di dare la notizia all'Azeglio e di chiedergli uno scritto commemorativo: nell'articolo, pubblicato sulla Gazzetta piemontese dal 20 e 28 maggio 1858, il ricordo commosso del defunto forniva il pretesto per una lunga e forse poco opportuna tirata contro il falso liberalismo.
Fonti e Bibl.: Le carte lasciate dal F. a Firenze finirono poi nell'archivio di famiglia, ora conservato dagli eredi a Castelfidardo. Otto lettere ad A. Di Lorenzo (1847) e un appunto autografo sulle dimissioni dal ministero Troya si possono consultare nel Museo centr. del Risorgimento di Roma, busta 825/37 e 39; notizie di prima mano sull'esilio napoletano si leggono in Arch. segr. Vaticano, Rubricelle, anno 1833, n. 8508; 1834, nn. 13793, 14552, 16006, 16016; 1838, nn. 3062, 4610, 4621, 4698, 4897; 1839, nn. 9761, 12821, 12999; 1844, n. 47085; 1846, nn. 57897, 59171, 59811, 61125; 1847, nn. 72687, 72857, 74468, 77190.
Numerose le raccolte di fonti e la memorialistica con riferimenti alle sue attività. Tra le maggiori si ricordano: N. Corsini, Fatti di Livorno... Lettera al conte P. F., Bastia 1847; G. Massari, Icasi di Napoli dal 29 genn. 1848 in poi. Lettere polit., Torino 1849, pp. 98, 113, 115, 139; L. C. Farini, Lo Stato romano dal 1815 al 1850, Firenze 1853, I, pp. 55, 202, 209; P. S. Leopardi, Narrazioni storiche con molti docc. ined. ..., Torino 1856, pp. 103, 109 s., 449; A. Carraresi, Lettere di G. Capponi e di altri a lui, II-IV,Firenze 1883-84, ad Indicem; L. C. Farini, Epistolario, a cura di L. Rava, I-II, Bologna 1911, ad Indicem; N. Tommaseo-G. Capponi, Carteggio ined. dal 1833 al 1874, a cura di I. Del Lungo - P. Prunas, II-III, Bologna 1914-20, ad Indicem; E. Di Carlo, La rivoluz. siciliana del '48 in una lettera di P. F. a M. d'Azeglio, in Rass. st. d. Risorgimento, XV (1928), pp. 420-424; R. Del Piano, Roma e la rivoluz. del 1831..., Imola 1931, p. 366; Lettere di illustri ital. a V. Gioberti, a cura di L. Madaro (Carteggi di V. Gioberti, V), Roma 1932, ad Indicem; V. Gioberti, Epistolario, a cura di G. Gentile - G. Balsamo-Crivelli, VII, Firenze 1934, pp. 143 s.; La diplomazia del Regno di Sardegna durante la prima guerra d'indip., III, Relazioni col Regno delle Due Sicilie, a cura di G. Quazza, Torino 1952, ad Indicem; L. Pasztor-P. Pirri, L'Arch. dei governi provvisori di Bologna e delle Provincie unite del 1831, Città del Vaticano 1956, ad Indicem; G. Montanelli, Memorie sull'Italia e specialm. sulla Toscana dal 1814 al 1850, Firenze 1963, ad Indicem; Gran Bretagna e Italia nei docc. della missione Minto, a cura di F. Curato, Roma 1970, ad Indicem; Ediz. naz. degli scritti di G. Mazzini, Indici, II, 1, ad vocem; Archivio triennale delle cose d'Italia, in Tutte le opere di C. Cattaneo, V, a cura di L. Ambrosoli, Milano 1974, ad Indicem.
Quanto alle biografie, il lungo necrologio di M. d'Azeglio, Studi sul carattere e sugli atti di P. F. è ora in Id., Scritti e discorsi politici, a cura di M. De Rubris, III, Firenze 1938, pp. 147-175; più dettagliato in quanto condotto sui ricordi inediti del F. è il lavoro di D. Spadoni, Ilconte P. F. da alcune note autobiografiche, in Il Risorg. italiano, I (1908), pp. 776-813; utile anche la voce P. F. in Diz. d. Risorgimento naz., II, sub voce.
Alcune vicende della vita politica del F. sono esaminate, oltre che in testi di carattere generale (principale C. Spellanzon, Storia del Risorg. e dell'Unità d'Italia, II,Milano 1934, pp. 404, 407, 466; III, ibid. 1936, pp. 167 s., 268, 342, 881), in studi specifici. Per la Restaurazione: R. Colapietra, La politica economica della Restaurazione romana, Roma 1976, p. LXXXI; D. Cecchi, L'amministrazione pontificia nella seconda Restaurazione (1814-1823), Roma 1978, ad Indicem. Per il 1831: C. Facchini, La capitolazione di Ancona nel 1831. Notizie e docc., Bologna 1884, pp. 12 s., 63, 65, 68; D. Spadoni, Fisionomia del moto del '31nelle Marche, in Le Marche nella rivoluz. del 1831, Macerata 1935, p. 25; F. Falaschi, La rivoluz. in Ancona, ibid., pp. 112 s., 118 s., 128, 130, 134, 138; P. Zama, La marcia su Roma del gen. Sercognani, Faenza 1976, ad Indicem; D. Cecchi, Provvedimenti di pubblica amministraz. nella provincia di Macerata nel febbraio-marzo 1831, in Atti del II Convegno interregionale di storia del Risorg. "Centocinquant'anni dopo: il 1831-32nello Stato pontif.", Viterbo 1973, pp. 46 s.; W. Angelini, Riflessioni sulla società anconitana degli anni 1830-32, ibid., pp. 67, 77, 81. Per l'esilio: E. Michel, Esuli ital. in Egitto (1815-1861), Pisa 1958, ad Indicem; S. Mastellone, Mazzini e la "Giovine Italia" (1831-1834), Pisa 1960, ad Indicem. Per la collaborazione romana col fratello Gabriele: G. Spada, Storia della rivoluz. di Roma e della restauraz. del governo pontif., I,Firenze 1868, pp. 258 s., 266, 277, 289, 297 s., 384, 406 s.; R. Quazza, Pio IX e M. d'Azeglio nelle vicende romane del 1847, II, Modena 1954, ad Indicem. Sulla partecipazione al governo Troya: G. Paladino, Il 15maggio 1848in Napoli, Milano-Roma-Napoli 1920, pp. 80, 93 ss.; A. Allocati, Napoli dal 1848al 1860, in Storia diNapoli, IX, Napoli 1972, p. 152. Per gli acquisti dei beni nazionali compiuti dal padre in epoca francese: D. Fioretti, Persistenza e mutamento dal periodo giacobino all'Unità, in Le Marche, a cura di S. Anselmi, Torino 1987, p. 71.