FARNESE, Pietro
Figlio di Ranuccio di Pepo e fratello di Ranuccio (comandante della "taglia" dei Comuni guelfi di Toscana nella guerra contro Arezzo) e, secondo la tradizione storiografica non confortata da fonti documentarie, di Guido vescovo di Orvieto dal 1302 al 1328, è menzionato per la prima volta nel 1287: nel dicembre di quell'anno fu presente, nel castello di Ischia, nel Viterbese, all'atto con cui i rappresentanti dei Comuni della Lega guelfa di Toscana nominarono il fratello Ranuccio capitano della "taglia". Il 12 febbr. 1299 rinnovò il giuramento di fedeltà al Comune di Orvieto, per la parte a lui spettante dei castelli di Celle (un ottavo), Farnese (un sesto) e Ischia (un quarto) insieme col fratello Nicola e Pepuccio di Ranuccio di Nicola e Nino di Guercio, altri due esponenti della famiglia. Dopo quella data bisogna attendere il secondo decennio del sec. XIV per trovare altre notizie che lo riguardino.
In continuità con la tradizione della famiglia, il F. si distinse nel mestiere delle armi combattendo per Orvieto e per i Comuni guelfi negli anni in cui. con l'arrivo in Italia di Enrico VII, i sostenitori dell'Impero ripresero vigore. Per Orvieto ciò significò la fine del periodo di calma durante il quale la città aveva conosciuto una tregua fra guelfi e ghibellini e l'unità fra nobili e popolo: nello stesso anno in cui l'imperatore arrivò in Lombardia (1310), Orvieto entrò nella Lega guelfa di Perugia e rafforzò i legami con Firenze, dandole diversi capitani del Popolo ed inviandole in aiuto per la campagna contro Arezzo 150 uomini; a comandarli era il F., il quale, l'anno successivo, guidò la cavalleria orvietana contro Manfredi di Vico, capo dei ghibellini della provincia del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia.
Nel 1313 i ghibellini di Orvieto, sotto la guida dei Filippeschi, prendendo occasione dall'imminente passaggio delle truppe imperiali dirette a Roma e approfittando delle momentanee difficoltà del Comune, che doveva far fronte all'invasione del contado aldobrandesco da parte di Margherita Aldobrandeschi e di Gentile Orsini, prepararono una ribellione. Nel corso della battaglia, che ebbe inizio il 16 agosto, i Filippeschi e i loro seguaci, grazie anche all'aiuto di un forte esercito che raccoglieva tutti i ghibellini del Patrimonio, riuscirono ad impadronirsi di Orvieto, ma il sopraggiungere delle truppe inviate da Perugia in aiuto dei guelfi rovesciò le sorti del combattimento e il 20 agosto i Filippeschi furono definitivamente cacciati dalla città.
I Farnese erano accorsi in aiuto dei guelfi, ma il ruolo che ebbero nella circostanza non si limitò al sostegno militare: quando, dopo il 20 agosto, i guelfi vittoriosi vollero cambiare la costituzione del Comune creando nuove magistrature, una di queste, l'ufficio di rector et defensor civitatis, fu affidata proprio al Farnese. Sulle motivazioni della attribuzione al F. di questo incarico, che durò sino al dicembre 1313, e sull'attività svolta dal F. sappiamo ben poco, dal momento che, se si escludono brevi frammenti, mancano i fascicoli delle Riformagioni per il periodo dal luglio 1313 al settembre 134; possiamo, tuttavia, supporre che la nomina coronasse un tentativo dei Farnese - signori del contado, residenti nei loro castelli situati nella regione del lago di Bolsena - di inserirsi nella vita politica cittadina con un ruolo più importante di quello, tradizionalmente svolto, di uomini d'arme. Il fatto che Guido Farnese fosse all'epoca vescovo della città poteva favorire tale disegno e a confermare questa ipotesi potremmo ricordare che il 22 apr. 1313 Cecco, figlio di Pietro, presentò domanda alla magistratura dei Sette per ottenere la cittadinanza d'Orvieto, motivandola con la considerazione che aveva acquistato terreni "in castro Agliani" e case in Orvieto e dichiarando di voler essere considerato "populare et homo de populo" benché fosse nato nobile, visto che la condizione di popolare era necessaria per accedere alle cariche comunali.
Gli ulteriori sviluppi dell'"inurbamento" di Cecco non sono noti; egli compare, invece, nell'elenco dei baroni tenuti a pagare la tallia equorum del 1337, tassato per la metà di Celle a lui spettante (l'altra metà apparteneva allora agli eredi di Pone di Campiglia, esponente di una delle più importanti famiglie aristocratiche del territorio senese, quella dei Visconti); nel 1351, insieme col figlio Petruccio e altri Farnese, Cecco fu tra coloro che vennero richiamati in città ed assolti dal bando emanato in occasione delle sanguinose lotte di quell'anno tra "Malcorini" e "Beffati", le due fazioni nelle quali era divisa la famiglia dei Monaldeschi, lacerata da conflitti interni.
Terminato il mandato di rettore, il F. tornò a svolgere l'attività di uomo d'arme al servizio del Comune: nel 1315 lo troviamo impegnato, insieme con Monaldo Monaldeschi, nella difesa di Acquapendente assalita dai Filippeschi e altri ghibellini; nel 1317 guidò i cavalieri orvietani mandati a Firenze in aiuto di Roberto d'Angiò; nel 1320 gli fu affidato il comando della guerra condotta da Orvieto contro Corneto (od. Tarquinia) e Toscanella (od. Tuscania), che, insieme con Guiduccio di Bisenzio, avevano occupato le terre della Val di Lago e della Teverina. Che il ritorno al mestiere delle armi sia da collegare a una sconfitta politica e solo un'ipotesi, anche se dalle prese di posizione di taluni esponenti della famiglia sembra di poter dedurre che i Farnese non fossero disposti a sottomettersi completamente ai Monaldeschi, i capi del partito guelfo - veri vincitori della battaglia dell'agosto 1313 e di gran lunga i più ricchi e potenti della città - che Guido, il vescovo d'Orvieto, in una relazione sullo stato della provincia redatta allorché era rettore del Patrimonio, definì tiranni. Lo stesso F., del resto, stando alla testimonianza che viene da alcuni frammenti delle Riformagioni del 1313, ebbe modo di manifestare il suo disaccordo con Ermanno Monaldeschi, che di lì a pochi anni - nel 1334 - sarebbe divenuto signore di Orvieto. Dopo il 1320, comunque, non si hanno più notizie del F. che lasciò almeno tre figli maschi, il già ricordato Cecco, nonché Cola e Pietro.
La documentazione offre chiara testimonianza del fatto che era ormai in atto una svolta nella politica della famiglia. Pur continuando nella tradizionale strategia di fedeltà e di appoggio militare ad Orvieto, i Farnese, a partire dai primi anni del sec. XIV, appaiono sempre più impegnati nella difesa dei propri possessi e in una autonoma politica di conquiste territoriali, favoriti in ciò dalla situazione della provincia del Patrimonio nella quale, dopo la partenza della Curia pontificia da Roma, si erano scatenate le ambizioni espansionistiche dei signori locali e delle Comunità, con il conseguente insorgere di uno stato di guerra e di instabilità politica che si sarebbe protratto per buona parte dei secolo. Orvieto, del resto, sin dagli inizi del secolo cominciò a conoscere un lento, ma progressivo declino politico ed economico che l'avrebbe portata a perdere quasi tutti i vasti territori conquistati nelle lunghe guerre del Duecento. All'interno di questa situazione i Farnese, presentandosi come alleati della S. Sede e difensori dei suoi diritti, da un lato si trovarono esposti agli attacchi dei ghibellini - in primo luogo di Viterbo, dei di Vico e dei signori di Bisenzio e Montemarano, che desideravano impadronirsi delle loro terre - dall'altro, con una politica di lealtà alla Chiesa, riuscirono ad estendere il loro controllo su un numero sempre maggiore di castelli, ottenendo per alcuni la concessione temporanea in ricompensa dei servigi prestati, mentre altri li occuparono con la forza.
Di questa espansione dei Farnese le fonti non consentono una ricostruzione puntuale: tuttavia vediamo che nel secondo decennio del sec. XIV era già avviata. Nel 1315 Cola di Cellere, uno dei figli del F., fu assalito nel suo possesso di Canino dal vicario del Patrimonio, Bernardo di Coucy. L'episodio diede il via alla rivolta dei Comuni e dei signori guelfi (guidati da Orvieto che i Farnese chiamarono in loro soccorso) contro il vicario. Un elenco dei Farnese che vi presero.parte - riportato nella sentenza di condanna pronunciata contro i ribelli guelfi dal tribunale rettorale - offre un quadro attendibile, anche se incompleto, dei possessi farnesiani; vi troviamo Ranuccio e il fratello Offreduccio di Scarceta (un castello già appartenente al contado aldobrandesco passato, in seguito, agli Orsini di Pitigliano), i figli di Pepo, fratello del F., Nerio e Cola di Ranuccio di Ancarano, Iannes di Farnese, Pietro e Cola di Cellere, figli del F., Nino Guercii con i suoi figli, Pietro di Campiglia. Mentre per Campiglia la situazione non è chiara (non è più ricordato nei documenti relativi alla famiglia), Scarceta, Ancarano e Cellere, si aggiungevano ad Ischia e Farnese, che già da tempo erano sotto il controllo dei Farnese, e a Celle, di cui, come si è detto, Cecco, figlio del F. teneva la metà. Negli anni immediatamenti successivi i contrasti con Viterbo e i di Vico si moltiplicarono, tanto che nel 1321 Giovanni XXII scriveva al rettore del Patrimonio Guido Farnese, vescovo di Orvieto e fratello del F., esortandolo ad interessarsi per porre fine ad una guerra che aveva causato grandi mali alla provincia. Alcuni dei castelli contesi furono controllati dai Farnese solo per breve tempo (Canino ed Ancarano tornarono alla Chiesa, San Savino agli Orsini), ma altri se ne sarebbero aggiunti negli anni successivi.
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