PIETRO di Oderisio
PIETRO di Oderisio. – Non si conosce la data di nascita di questo scultore romano, appartenente alla famiglia di marmorari degli Oderisi e attivo nella seconda metà del XIII secolo. Il suo nome è tramandato da una perduta iscrizione, registrata nel XVII secolo sul monumento funebre di papa Clemente IV (morto nel 1268) a Viterbo, già nella chiesa domenicana di S. Maria in Gradi e trasferito nel 1885 (D’Achille, 2000, p. 135) in S. Francesco alla Rocca: «Petrus Oderisii sepulchri fecit hoc opus» (ibid., p. 113). Identificato con il «Petrus Romanus civis», autore dell’arca di Edoardo il Confessore nell’abbazia di Westminster a Londra, e con l’enigmatico «socio Petro», collaboratore di Arnolfo di Cambio nel ciborio di S. Paolo fuori le Mura a Roma, si doveva a lui anche il distrutto monumento sepolcrale eretto in memoria del conte Ruggero d’Altavilla (morto nel 1101) nell’abbazia della Ss. Trinità a Mileto, come attestava un’iscrizione più volte trascritta: «Hanc sepulturam fecit Petrus Oderisius magister Romanus» (ibid., p. 120). Lo stato frammentario delle opere e la non piana interpretazione dei dati documentari che le riguardano rendono molto problematica la ricostruzione della fisionomia artistica di Pietro che, per la novità delle soluzioni adottate e per l’estensione geografica della sua attività, è apparso a molti studiosi come una delle principali personalità artistiche romane di fine Duecento.
Al monumento di Clemente IV è riconosciuta grande importanza nello sviluppo della tipologia sepolcrale d’età gotica in Italia per il precoce impiego di elementi di gusto transalpino come la struttura a baldacchino e la rappresentazione del defunto giacente, cui si affiancava la raffigurazione della salvezza eterna, esemplificata dalla perduta scena con la Commendatio animae, che compariva nella parete di fondo incorniciata dal baldacchino (D’Achille, 2000, pp. 131-135).
Commissionato dal camerario papale Pierre de Montbrun, la sua esecuzione s’intrecciò con le complesse vicende riguardanti la sepoltura del pontefice, sottratta dai canonici della cattedrale ai domenicani, cui spettava per volontà del defunto (ibid., pp. 123-128). Le datazioni proposte oscillano tra il 1270 e il 1276, anno della definitiva risoluzione della disputa in favore dei domenicani (ibid.).
Manomesso e quasi interamente ricostruito dopo i danni della seconda guerra mondiale, è costituito da un alto basamento ad archetti con decorazioni cosmatesche, su cui poggia il sarcofago di reimpiego, ora mostrato nella facies antica ma in origine visibile solo dal tergo rilavorato a mosaico. Nella statua del giacente, posta sul sarcofago, il ritratto realistico del defunto fu forse ricavato da una maschera funebre. Il monumento – alla cui base è addossata una più tarda figura di giacente, da identificare con un nipote del papa, forse Pierre Le Gros – è sormontato dall’arco trilobato del baldacchino a gattoni, sorretto da colonnine con motivi cosmateschi a spina di pesce.
Dalla chiesa di S. Maria in Gradi proviene anche la tomba del prefetto dell’Urbe Pietro di Vico (morto nel 1268), di struttura simile ma priva di giacente, concordemente attribuita a Pietro.
L’adozione di elementi transalpini è stata spiegata con le conoscenze acquisite dall’artista in Inghilterra, dove sarebbe giunto per l’esecuzione della citata arca di Edoardo il Confessore, parte di un programma di allestimento dell’area presbiteriale affidato a maestranze romane, che comprendeva anche il pavimento firmato da un “magister Odericus” e la tomba di re Enrico III (Monferini, 1969). Perplessità sono state però espresse sia in merito alla cronologia dell’arca, per la discordanza nelle fonti sulla data riferita nella perduta iscrizione, alternativamente letta come 1269 o 1279, sia sull’autografia dell’opera, non da tutti assegnata allo stesso autore della tomba di Clemente IV, con cui rivela solo generiche affinità (Binski, 1990; Gardner, 1992). Anche l’identificazione con il Pietro menzionato nell’iscrizione del ciborio di S. Paolo fuori le Mura, non è stata accolta unanimemente dalla critica. Si è ipotizzato che al «socio» di Arnolfo spetti la decorazione interna della volta, caratterizzata dalla presenza di tarsie in marmo bianco raffiguranti animali entro orbicoli (D’Achille, 2000, p. 171). L’estraneità di tale tecnica esecutiva alla tradizione romana ha fatto supporre che Pietro provenisse dalla Toscana, dove l’intarsio marmoreo era comunemente praticato sin dal XII secolo nella decorazione di pulpiti e altri arredi liturgici (Scungio, 2007).
Spettava invece con certezza a Pietro d’Oderisio il monumento di Ruggero d’Altavilla nell’abbazia della Ss. Trinità a Mileto, distrutto insieme alla chiesa nel terremoto del 1783 a eccezione del grande sarcofago di reimpiego, trasferito nel 1845 (D’Achille, 2000, p. 119) nel Museo archeologico nazionale di Napoli.
Collocato «inter duas marmoreas columnas» (ibid.), nel XVI secolo era appoggiato alla parete della navata meridionale della chiesa (Claussen, 1990, pp. 197-200). L’epigrafe con il nome dell’autore, più sopra riportata, figurava in due anelli concentrici inscritti in una croce.
Secondo Francesco Negri Arnoldi (1972, pp. 13-16), che attribuisce a Pietro anche la tomba dell’arcivescovo Filippo Minutolo (morto nel 1301) nel duomo di Napoli, la presenza dell’artista nel Regno avrebbe favorito la diffusione del linguaggio arnolfiano nel Mezzogiorno. Seppur ancora sfuggente, la figura di Pietro d’Oderisio sembra aver svolto un ruolo da protagonista tra i marmorari romani della seconda metà del Duecento, contribuendo alla trasformazione dell’opus Romanum in opus Francigenum (Claussen, 1990).
Fonti e Bibl.: Monferini, P. d’O. e il rinnovamento tomistico, in Momenti del marmo. Scritti per i duecento anni dell’Accademia di belle arti di Carrara, Roma 1969, pp. 39-63; F. Negri Arnoldi, P. d’O., Nicola da Monteforte e la scultura campana del primo Trecento, in Commentari, n.s., XXIII (1972), pp. 12-30; I. Herklotz, “Sepulcra” e “monumenta” del Medioevo. Studi sull’arte sepolcrale in Italia (Roma 1985), Napoli 20013, pp. 238-248; P.C. Claussen, Magistri doctissimi Romani. Die römischen Marmorkünstler des Mittelalters, Stuttgart 1987, pp. 174-205; Id., P. di O. und die Neuformulierung des italienischen Grabmals zwischen “Opus Romanum” und “Opus Francigenum”, in Skulptur und Grabmal des Spätmittelalters in Rom und Italien. Akten des Kongresses “Scultura e monumento sepolcrale del tardo Medioevo a Roma e in Italia”... Roma 1985, a cura di J. Garms - A.M. Romanini, Wien 1990, pp. 173-200; P. Binski, The Cosmati at Westminster and the English court style, in The art bullettin, LXXII (1990), pp. 6-34; J. Gardner, The tomb and the tiara. Curial tomb sculpture in Rome and Avignon in the later Middle Ages, Oxford 1992, pp. 46-50; A.M. D’Achille, Da P. d’O. ad Arnolfo di Cambio. Studi sulla scultura a Roma nel Duecento, Roma 2000, pp. 113-164, 169-171; E. Scungio, Il ciborio di San Paolo fuori le Mura: osservazioni sulla decorazione interna, in Arte medievale, n.s., VI (2007), 1, pp. 85-104.