CARNESECCHI, Pietro
Nacque a Firenze il 24 dic. 1508, da Andrea e da Ginevra Tani.
Entrambi, prima della loro unione, erano vedovi con figli: vedovo di Caterina Capponi Andrea, vedova di Giovan Battista Dovizi, fratello del cardinale Bibbiena, Ginevra. Il casato era antico: fin dalla seconda metà del Trecento, esponenti dei Carnesecchi avevano coperto magistrature cittadine e accumulato notevoli fortune con l'esercizio della mercatura. A metà del Quattrocento hanno già stemma gentilizio e sepoltura di famiglia in S. Maria del Fiore. Tradizione di famiglia erano anche le simpatie politiche di parte medicea. Andrea Carnesecchi fu un protetto di Giulio de' Medici, il futuro Clemente VII, e funzionario della corte di Cosimo I. Protezione dei Medici e parentela con i Dovizi avranno un peso determinante nella rapida carriera curiale del Carnesecchi.
Probabilmente nel 1518, all'età di dieci anni, il C. fu mandato a Roma. Avviato ancora giovanissimo alla carriera ecclesiastica, a Roma fu accolto come "scholarus et clericus" in casa del cardinale Bibbiena. Retta e animata, tanto in assenza quanto dopo la morte del prelato, dal protonotario apostolico Angelo Dovizi, fratello di parte materna del C., la corte del Bibbiena era l'ambiente più propizio tanto a una buona educazione umanistica del giovinetto quanto a prospettive di un suo futuro avviamento alla carriera di Curia. Niente si sa dei suoi maestri e dei suoi studi, né, più in generale, si hanno notizie precise sui nove anni di questo suo primo soggiorno romano. L'elevazione al Pontificato di Giulio de' Medici (novembre 1523) gli offrì ampie possibilità di una precoce sistemazione in Curia. Nella primavera del 1527 il sacco di Roma lo costrinse a far ritorno a Firenze. Ma agli inizi del 1529 è già di nuovo alla corte pontificia. Nel giro di pochi anni i sempre più prestigiosi titoli e incarichi di Curia si alternano senza interruzione a concessioni di benefici ecclesiastici. Al titolo di monsignore s'aggiunsero prima le funzioni di cameriere segreto e poi la carica di protonotario. Il 25 ott. 1533 gli è conferito il canonicato della cattedrale fiorentina con la facoltà di portare il nome dei Medici; nel marzo del 1534 è nominato governatore di Tivoli: cariche e titoli cui s'accompagnano benefici in Italia (abbazia di S. Pietro in Eboli; abbazia di S. Maria di Gavello, nella diocesi di Adria) e pensioni e prebende in Francia e in Spagna. Seguì la corte pontificia a Bologna in occasione dell'incoronazione di Carlo V e a Marsiglia in occasione delle nozze di Caterina de' Medici con Enrico d'Orléans. Aspirò senza successo al vescovato di Tortosa, nonostante l'appoggio di Clemente VII e del potente ministro di Carlo V, Nicolas Perrenot de Granvelle. Agli inizi del 1534 Clemente VII progettava d'assegnare al C. il disputatissimo possesso del vescovato di Treviso. Nel frattempo (settembre del 1533) era succeduto a Giacomo Salviati nella carica di segretario pontificio, e in queste funzioni tenne la corrispondenza con Girolamo Aleandro e con Pier Paolo Vergerio, nunzi rispettivamente a Venezia e in Germania.
La destrezza dimostrata, nonostante la giovane età, nel maneggio degli affari di Curia è testimoniata tanto dalle lettere che il C. scrisse al Vergerio quanto dai riconoscimenti di cui è intessuta la corrispondenza d'un diplomatico consumatissimo qual era l'Aleandro. Favori di Clemente VII e abilità diplomatica accrebbero rapidamente l'autorità e l'influenza del C.: nel mondo curiale e negli ambienti diplomatici era diffusa (secondo le espressioni di Gioacchino Camerario) l'opinione che "papatum… magis a Petro Carnesecca regi quam a Clemente". Oltre che relazioni d'amicizia con letterati come Claudio Tolomei, Giovanni Mauro, Paolo Giovio, Giovanni Della Casa e il Bembo (per quest'ultimo, vedi Oxford, Bodleian Library, Mss. It. C 23, c. 34r) e con prelati come Giovanni Morone, Ercole Gonzaga e Iacopo Sadoleto, sono di questi anni di permanenza in Curia anche alcuni incontri con uomini le cui vicende religiose si intrecceranno in un modo o nell'altro con quelle del C.: il vescovo di Cava Giovanni Tommaso Sanfelice, il futuro vescovo di Bergamo Vittore Soranzo, il toscano Pietro Gelido, il napoletano Giovan Francesco Alois. Con Juan de Valdés, agente imperiale presso la corte pontificia dal 1531 al 1534, nell'ultimo processo il C. dichiarò d'avere avuto, in questo periodo, rapporti di semplice amicizia ("solo lo conoscevo per cortegiano modesto et ben creato, et come tale l'amavo assai": Estratto, p. 196). Nel 1534 seguì con attenzione l'intera predicazione quaresimale dell'Ochino, con il quale volle anche intrattenersi in colloqui privati. E intanto la fitta corrispondenza del Vergerio e dell'Aleandro era per il C. anche un osservatorio dal quale poteva misurare le diniensioni che la protesta religiosa aveva ormai assunto in Germania e l'ampiezza delle inquietudini religiose serpeggianti in Italia.
La morte di Clemente VII (settembre 1534) e il rovesciamento di indirizzi politici avvenuto in Curia con l'elezione di Paolo III Farnese interruppero la sua carriera ecclesiastica. Il suo distacco dal mondo curiale fu graduale, non senza incertezze sul nuovo assetto da dare alla propria esistenza. Fu fermo nel respingere offerte di mansioni che lo avrebbero tenuto ancora legato alla vita di corte, ma continuò ad aspirare al vescovato di Tortosa. È di questo periodo ("il primo anno di Papa Paulo terzo") il primo incontro con Vittoria Colonna, "per introductione… del cardinale Palmieri" (Estratto, p. 267). Lasciò cadere l'invito di ritirarsi nella quiete degli studi a Padova, rivoltogli dal Bembo (Oxford, Bodleian Library, Mss. It. C 23., c. 35r) e da Giovan Francesco Valerio, che gli additava come esempio il Flaminio. Nel settembre del 1535 il Valdés gli fece giungere da Napoli (in una lettera diretta a Ercole Gonzaga) lodi di Giulia Gonzaga. Nella stessa lettera c'è l'esplicita attesa del Valdés che il C. mantenga la sua decisione di abbandonare Roma e forse anche, implicito, il riferimento a una promessa di trasferirsi a Napoli (Montesinos, p. 4). Fu certamente a Napoli nei primi mesi del 1536, dove conobbe di persona la Gonzaga e dove, secondo una voce raccolta da Gioacchino Camerario, avrebbe incontrato Carlo V desideroso d'avere informazioni sulle trattative intercorse tra Clemente VII e Francesco I a Marsiglia. Il C. avrebbe opposto il suo dovere di rispettare il segreto d'ufficio.
Nell'estate del 1536 il C. si trasferì a Firenze "più che mai resoluto di attendere a la quiete et a li studi", come il 15 luglio dell'anno successivo scrisse al vescovo di Fano, Cosimo Gheri (Oxford, Bodleian Library, Mss. It. C 24, cc. 264r-265r). Nella stessa lettera il C. accenna vagamente a "novità", "alterazioni" e "accidenti" che per un momento gli suggerirono il proposito di lasciare Firenze; ma si dice incerto se trasferirsi a Padova, a Bologna o a Mantova. I tre anni trascorsi a Firenze prima di unirsi al sodalizio napoletano del Valdés furono, comunque, anni di tranquilla meditazione, di frequenti rapporti con la corte di Cosimo I e di relazioni col mondo letterario cittadino. Un sonetto (si tratta dell'unico scritto letterario del C. sinora a noi noto: cfr. Bruni, p. 13), in risposta ad altro di Benedetto Varchi, contiene accenti non convenzionali di riflessione religiosa. Il resto delle informazioni su questo periodo proviene dagli atti del processo. Nell'autunno del 1536 ospitò Reginald Pole e Gian Matteo Giberti in viaggio verso Roma, chiamativi da Paolo III per far parte della commissione da cui uscì il famoso Consilium de emendanda ecclesia.ColPole contrasse in quell'occasione un'amicizia "poi continuata con lui insino alla morte" (Estratto, p.208) e ben nota negli ambienti religiosi e umanistici (nel 1556 Bernardino Tomitano dedicherà al C. il suo Clonicus sive de Reginaldi Poli… laudibus, Venetiis, Aldus). La contemporanea presenza a Firenze dell'Ochino, che di nuovo il C. ascoltò e incontrò privatamente, fu occasione di un incontro, in casa del C., tra il cappuccino e il Giberti, al quale partecipò la marchesa di Camerino Caterina Cybo. Nel 1538 rivide ai Bagni di Lucca Vittoria Colonna, con la quale ebbe "occasione di pigliar ancor più stretta famigliarità" (Estratto, p.510).
Alla fine del 1539 il C. partì per Napoli, dove giunse (dopo una sosta a Roma) agli inizi del 1540. Nel corso dell'ultimo processo dichiarò di avere intrapreso questo viaggio "più per visitare detta Signora [Giulia Gonzaga] che per altro appresso alla dottrina del Valdés" (Estratto, p. 329). Questo anno di soggiorno a Napoli (ospite, del principe.di Sàlèmo, con periodiche visite alla sua abbazia di Eboli, dove fra l'altro avrebbe voluto ospite il Flaminio) fu comunque decisivo. La partecipazione al sodalizio del Valdés coincise con le ragioni stesse della sua permanenza a Napoli. Ritrovò in esso amici e conoscenze degli anni romani: l'Ochino, il Sanfelice, il Soranzo. Fra i nuovi incontri, notevolissimi quelli col Flaminio, con Pietro Martire Vermigli e con Galeazzo Caracciolo. L'ammirazione per la Gonzaga divenne relazione di fiducia senza riserve. L'amicizia che lo aveva legato al Valdés si mutò in piena consonanza di idee ("dove prima si poteva dire che fusse amicizia carnale, cominciò a Napoli alhora diventare spirituale": Estratto, p.196).
Agevolò questo accostamento del C. alla sostanza dell'insegnamento del Valdés la constatazione dell'autorità che lo spagnolo godeva presso il Flaminio e presso l'Ochino. Fu piena la sua accettazione della dottrina della giustificazione per fede "come quella nella quale reputava che consistesse la salute, et per consequente tutta la forza della religione christiana" (Estratto, p. 332). La sequenza di argomentazioni con cui i "preceptori" Valdés e Flaminio fecero cadere le sue ultime esitazioni è descritta dallo stesso C.: la dottrina della fede giustificante è fondata sulle Scritture ed è "accettata da tutti i principali dottori della Chiesa"; quelli tra i dottori che hanno esaltato il valore delle opere "lo facevano per contenere ditti populi in officio, dubitando che se fusse stata loro predicata la giustificazione per la fede solamente, non se fussero dati a vivere troppo largo et licentioso, facendosi beffe delle opere, conforme a quello che si vede che hanno fatto i populi d'Alemagna et delli altri luoghi dove è stato predicato liberamente tale articulo"; l'esiguità del numero di quanti nella Chiesa professano la dottrina della giustificazione per fede è conferma del detto di Elia secondo il quale "il populo di Dio alcuna volta (è) redutto a non esser più che sette milia persone"; la comune convinzione di teologi e di predicatori della necessità delle opere per la salvezza dipende in parte da imitazione della cautela degli antichi dottori, in parte dal fatto che essi hanno studiato "più presto la theologia scholastica, che la Scrittura et i Sancti Padri"; la condanna dei movimenti riformatori nati dalla protesta religiosa aperta da Lutero dipese dalla loro intenzione di distruggere il Papato e il loro distacco dalla comune fede cattolica non avvenne a causa della dottrina della fede giustificante da loro predicata, ma per le "illazioni et conclusioni che deducevano da tale principio in ruina et destruttione della Chiesa cattolica" (Estratto, pp. 333-335). A Napoli insieme con gli scritti del Valdés il C. fu tra i primissimi a poter leggere il Beneficio di Cristo di don Benedetto da Mantova, in una delle due revisioni del Flaminio e ancora manoscritto, e ne fece copia per amici.
Nel maggio del 1541 il C. partì da Napoli insieme con il Flaminio. Dopo una breve sosta a Roma (ospiti del cardinale Ercole Gonzaga), i due amici raggiunsero insieme Firenze, dove il Flaminio - che nel frattempo aveva differito, se non abbandonato, il proposito di trasferirsi a Verona presso il Giberti - si trattenne fino all'ottobre successivo come suo ospite. Furono cinque mesi di comune approfondimento degli insegnamenti del Valdés. Per suggerimento del Flaminio il C. lesse in quei mesi l'Institutio Christianae religionis di Calvino. Intrattennero comuni rapporti con Caterina Cybo, stabilitasi nel frattempo a Firenze, e insieme frequentarono ancora l'Ochino e il Vermigli. Risale probabilmente già a questo periodo fiorentino l'inizio della solidarietà religiosa dei due amici col tesoriere di Cosimo I de' Medici, Pier Francesco Ricci, il possessore dell'unico manoscritto a tutt'oggi noto del Beneficio di Cristo.A Firenze li raggiunse la notizia della morte del Valdés.
Nell'ottobre dello stesso anno, sempre in compagnia del Flaminio, il C. si trasferì a Viterbo su invito del cardinale Pole, da poco destinato alla legazione del Patrimonio di S. Pietro. Il clima religioso trovato alla corte del Pole non differiva molto da quello in cui il C. era vissuto durante l'anno di appartenenza al sodalizio napoletano del Valdés: molte le persone già incontrate a Roma e a Napoli (Donato Rullo, Apollonio Merenda, Alvise Priuli, il Soranzo); identico - sia pure con variabile misura di adesione, di deduzioni e di riserbo - il motivo centrale della loro meditazione, cioè la giustificazione per fede. In una lettera al Contarini, il Pole dichiara la sua predilezione per la conversazione col C., oltre che col Flaminio. Sono frequenti gli incontri e le conversazioni su problemi religiosi con Vittoria Colonna, ritiratasi anch'essa a Viterbo, e frequente è la corrispondenza con Giulia Gonzaga.
Più consapevolmente che a Napoli, a Viterbo il C. continuò, come per un naturale processo di approfondimento, a trarre conseguenze dalla dottrina della giustificazione per fede: l'assenza di determinazioni dottrinali in materia contribuiva a fare del seguito delle sue "filazioni" un'evoluzione senza fratture. Si può fondatamente congetturare che a Viterbo, sotto gli occhi e con la partecipazione del C., il Flaminio portò a termine tanto il lavoro, già cominciato a Firenze, di definitiva revisione del Beneficio di Cristo quanto la perduta Apologia di quest'ultimo contro gli attacchi di Ambrogio Catarino Politi (il testo dell'Apologia, rinvenuto dagli inquisitori fra le carte del C., sembra scritto in parte a Firenze, da Filippo Carnesecchi, in parte a Viterbo, dal famiglio del Pole Onorato Toffetti: Estratto, pp. 205-206). Preesistenti dubbi del C., già affiorati a Napoli, sul sacramento della penitenza e sul purgatorio, si mutarono in piena convinzione attraverso la lettura dei riformatori d'Oltralpe (Lutero Butzer). Col riserbo voluto dalla condotta imposta dal Pole, il C. comunicò di preferenza al Flaminio (forse anche al Priuli e al Soranzo: Estratto, pp. 326, 504) dubbi e deduzioni dalle comuni letture. Ma la loro concordanza di giudizio sui meriti (dottrina, eloquenza, sincerità) e sui demeriti (separazione dalla Chiesa) di Lutero, non impedì che fra i due amici si profilassero divergenze profonde. Il contrasto sull'eucaristia, che si manifesterà l'anno successivo, presuppone le conversazioni di Viterbo (Epistolae aliquot, p. G5r).
Alla fine di giugno del 1542, il C. fu raggiunto a Viterbo dalla notizia della morte del padre; ma differì di almeno un mese la partenza per Firenze (Oxford, Bodleian Library, Mss. It.C 25, c. 217rv). Il nuovo soggiorno fiorentino, durante il quale si mantenne in corrispondenza col Flaminio e ricevette una celebre lettera in cui l'umanista genovese Iacopo Bonfadio rievocava il Valdés e il loro comune soggiorno a Napoli, fu breve. Ristabilitosi da una malattia e assicurata la successione di altro suo congiunto (forse il fratello Paolo) alle funzioni di corte tenute dal padre, nella seconda metà di novembre il C. lasciò Firenze in compagnia di Pietro Gelido. Dopo una sosta a Bologna (dove tra gli altri visitò il filosofo aristotelico Ludovico Boccadiferro), giunse a Venezia fra il novembre e il dicembre. Motivi di salute sono la sola ragione nota (Estratto, p. 198)di questo trasferimento del C. a Venezia. Ma la prospettiva di una lunga permanenza risale a pochi giorni dall'arrivo: dopo due settimane di ospitalità offertagli da Donato Rullo, vi impiantò casa propria e dimora stabile.
Anche per questo primo triennio di soggiorno veneziano è caratteristico della biografia del C. il mantenimento di una trama vasta e varia di relazioni e di amicizie: amicizia col patriarca Giovanni Grimani; rapporti col nunzio Giovanni Della Casa; corrispondenza con gli amici bolognesi (ai quali inviò, nell'aprile del 1544, uno scritto inedito del Valdés e parole di felicitazione per la recente destinazione del Morone alla legazione di Bologna); relazioni col circolo veronese raccoltosi negli anni precedenti attorno al Giberti. Non v'è testimonianza che a Venezia il C. si sia in qualche modo interessato della stampa del Beneficio di Cristo; ma in un modo o nell'altro fanno capo al C. tutte le relazioni veneziane di quanti trovano nel libretto del monaco benedettino una soluzione al loro problema religioso: oltre ovviamente al Flaminio, Lattanzio Ragnone, Pier Paolo Vergerio, Baldassarre Altieri, Camillo Orsini, Pietrantonio da Capua, Guido Giannetti da Fano, Francesco Porto, Donato Rullo, Germano Minadois, molto probabilmente anche Antonio Brucioli. La sentenza di condanna addebita al C. "alloggio, ricetto, formento et danari a molti apostati et heretici, che per conto d'heresia se ne fuggivano in paesi d'heretici oltramontani" (Estratto, p. 554).Probabilmente allude anche a questa liberalità verso i bisognosi di soccorso la dedica al C. che Giandomenico Tarsia premise alla sua traduzione del De subventione pauperum di Ludovico Vives.
Da Venezia il C. continuò a corrispondere con il Flaminio. Ma le posizioni dei due amici si venivano ormai distanziando, come risulta da una lunga lettera del C. sull'eucaristia, non datata ma scritta in risposta ad altra del Flaminio del 1º genn. 1543. In essa - unico scritto del C. di carattere dottrinale, noto nella sola traduzione latina pubblicata nel 1571da Gioacchino Camerario - il C. confuta i tre argomenti addotti dall'amico contro "l'abominevol setta Zwingliana" e contro quanti e seguendo l'opinion di Lutero condannano d'idolatria la messa et d'impietà coloro che l'ascoltano" (Ireneo testimonia che la Chiesa primitiva ha creduto nella presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nell'eucaristia; essa ha sempre celebrato il sacrificio di Cristo sotto la specie del pane e del vino; tale forma di sacrificio fu istituita da Cristo e introdotta nella Chiesa dagli apostoli). L'accertamento della verità, sostiene il C., non si giova né di un indiscriminato richiamo alla tradizione ("praescriptio longi temporis") né delle dispute di troppo accesi contendenti. Certo è autorevole, in generale, la testimonianza di Ireneo: che tuttavia è resa malferma, da una parte, dalla poca attendibilità del testo corrente delle sue opere (traduzioni dal greco), dall'altra da scarsa considerazione dell'esatto significato delle sue espressioni e delle vere ragioni storiche delle sue affermazioni (polemica contro Marcione). Strano, esclama il C., che il Flaminio, "verborum significationis attentissimo inquisitori et proprietatis sermonis custodi", si lasci sfuggire che il significato originario dell'espressione "missam habere" deriva dal greco ἐκκλησιάζειν, equivalente a "populum congregare". Prima che in scrittori come Ireneo e Ignazio, la sanzione autorevole della verità del mistero eucaristico è nei Vangeli; ma né negli uni né negli altri è possibile trovare argomenti che giustifichino le posteriori deduzioni dommatiche e tanto meno la plurisecolare pratica di abusi. A torto si invoca l'autorità di Ireneo per sostenere quella sorta di mutamento naturale del pane e del vino, che ha dato e dà luogo alle controversie sulla "transustanziazione" e sulla "consustanziazione". La comparsa della sanzione ufficiale di questo supposto mutamento naturale del pane e del vino risale a tempi di decadenza (Gregorio I, Carlo Magno), mentre alle storture e alla pratica degli abusi ha dato luogo lo smarrimento del significato originario del rito eucaristico come sacrificio santificante della comunità. A torto il Flaminio condanna quanti sostengono un ritorno alla purezza originaria; a torto egli taccia di superbia umana uomini come Martin Butzer, sulla cui pietà e dottrina il C. ha informazioni ben diverse.
Agli inizi del 1546 un breve papale intimò al C. di presentarsi agli uffici romani dell'Inquisizione. Prendeva così avvio il primo dei tre processi da lui subiti. Seguito da unanimi attestazioni di innocenza (fra le altre quella del nunzio a Venezia G. Della Casa) e anche da incitameti a non ottemperare al mandato di comparizione, il C. lasciò subito Venezia. Fece una breve sosta a Ferrara e si fermò per due mesi a Firenze. è probabilmente di questo periodo di permanenza a Firenze un incontro che il C. ebbe a Pisa con amici delle sue stesse convinzioni religiose. In aprile partì per Roma, dove s'avvide subito che le prospettive del procedimento contro di lui erano assai più pericolose di quanto lasciassero sperare gli attivi interventi di Cosimo I de' Medici presso il cardinale Juan Alvárez de Toledo, commissario del S. Uffizio, presso il cardinale Giovanni Salviati e presso l'ambasciatore imperiale a Roma Juan de Vega. Alla rapida interruzione del processo valse tuttavia il congiunto interessamento del Pole e forse anche del cardinale Alessandro Farnese. Tutto il resto di questo primo procedimento inquisitorio rimane ancora poco chiaro: ignote le imputazioni, formulate sulla base degli interrogatori di alcuni inquisiti; incerti gli stessi termini giuridici della soluzione. Sull'interruzione del procedimento con soluzione extragiudiziale (assoluzione concessagli da Paolo III) gli atti dell'ultimo processo ("la tua causa non fu terminata giudicialmente": Estratto, p. 554) concordano con la testimonianza dell'ambasciatore fiorentino Giovan Battista Ridolfi ("senza cassar et annullar il procedimento"). Quanto alle accuse, la sentenza dell'ultimo processo fa riferimento soltanto alla confessione resa dal C. d'essersi dichiarato innocente simulando.
Dopo l'assoluzione extragiudiziale ottenuta da Paolo III, il C. si trattenne a Roma ancora per vari mesi. Si incontrò ancora con Camillo Orsini e rivide per l'ultima volta Vittoria Colonna, che gli confidò la sua soddisfazione per l'assenza del Pole da Trento al momento della votazione del decreto sulla giustificazione: circostanza della quale il C. chiese e ottenne conferma dal Priuli e dal Flaminio al loro ritorno a Roma da Trento. In un viaggio a Napoli visitò Giulia Gonzaga. Verso la fine del 1546, anziché accogliere un insistente invito di amici ferraresi, preferì seguire il Pole e il Flaminio a Bagnoregio.
Alla breve permanenza presso il Pole seguirono alcuni mesi di soggiorno a Firenze, dove L'11 ag. 1547 il C. fu ammesso all'Accademia Fiorentina. A metà settembre partì per la Francia, pare col solo scopo di riavere l'interrotta corresponsione delle rendite di un suo beneficio ecclesiastico. Dopo una breve sosta a Lione, giunse a Fontainebleau alla fine d'ottobre, munito d'una calorosa commendatizia di Cosimo I. Il favore subito accordatogli da Caterina de' Medici rese possibile una rapida soluzione della questione delle rendite ecclesiastiche. Ma l'offerta d'un prestigioso ufficio a corte finì col trattenere il C. in Francia per cinque anni. Fu un periodo di ritrovato gusto della vita di corte e dei negozi politici. Dimestichezza con Caterina e amicizia col gran cancelliere François Olivier gli consentirono di fornire a Cosimo I, direttamente o tramite il residente fiorentino in Francia, preziose informazioni politiche. Quanto alla sua attività religiosa, nell'ultimo processo il C. dichiarò che il soggiorno in Francia era stato "uno interregno del diavolo" (Estratto, p. 554). Ma sono molti gli indizi d'un persistente interesse ad approfondire le sue posizioni religiose già maturate in Italia: lettura di Melantone, lettura e diffusione di scritti del Valdés. Motivi di solidarietà religiosa probabilmente non furono estranei all'amicizia con l'Olivier. A Parigi si incontrò con l'esule Giovanni Morillo e col visionario piemontese Iacopo Brocardo (Arch. di Stato di Venezia, Sant'Ufficio dell'Inquisizione, Processi, b. 25, proc. Isabella Frattina, ff. 29r-30r, 43r, 44v). Il riferimento al suo nome nella dedica a Caterina de' Medici che L. P. Roselli premise alla traduzione dei Sermoni di Teodoreto vescovo di Ciro (Venezia 1551) è testimonianza di ininterrotta comunicazione del C. con gli amici lasciati a Venezia. Continuò a corrispondere con Giulia Gonzaga, col Priuli e col Flaminio, al quale propose di dedicare a Margherita di Valois una raccolta di carmi, di cui, morto il Flaminio, il C. curò la stampa presso Roberto Stefano. Durante il conclave seguito alla morte di Paolo III si valse delle sue aderenze a corte nel tentativo di guadagnare i cardinali francesi alla causa della elezione del Pole. Nel corso di una grave malattia fece cessione della sua abbazia di Eboli in favore del cardinale Morone. Nell'estate del 1552, per ragioni che rimangono ancora oscure, il C. lasciò la corte francese. Dopo una sosta di parecchi mesi a Lione, dove respinse l'incitamento di Lattanzio Ragnone a stabilirsi a Ginevra, nell'aprile dell'anno successivo partì per l'Italia.
Al rientro in Italia si stabilì a Padova. In frequenti viaggi a Venezia (ospite di amici, ma dal 1555 usufruendo più stabilmente dell'abitazione del vescovo di Feltre Filippo Maria Campeggi) riprese gli incontri con gli amici d'un tempo. Nell'assidua corrispondenza col Priuli seguì la missione del Pole in Inghilterra. Circospetta, ma sempre più fitta fu la corrispondenza con la Gonzaga, nella quale la viva attesa di una possibile elezione al pontificato del Morone o del Pole dovette ben presto cedere il posto alle inquietudini di fronte all'immediata e dura repressione intrapresa da Paolo IV. Il 6 nov. 15573 nel pieno delle preoccupazioni causate dalle notizie dell'imprigionamento del Morone e della chiamata a Roma del Pole, il C. ricevette a Venezia l'atto di convocazione a Roma. Si mostrò subito deciso a sottrarsi al giudizio degli inquisitori romani e si adoperò per ottenere prima il trasferimento del processo a Venezia, poi una dilazione di esso. Ma a nulla gli valse l'interessamento in questo senso di protettori e amici potenti (Cosimo de' Medici, Ferrante Gonzaga, i cardinali Carlo Carafa e Cristoforo Madruzzo: Oxford, Bodleian Library, Mss. It. C 24, cc. 86v, 91v). Il 24 marzo 1558 il C. fu dichiarato contumace. La dichiarazione, con la connessa sospensione dei benefici ecclesiastici, ebbe conseguenze immediate: abbandono di gran parte degli amici e difficoltà economiche, che il C. poté alleviare grazie ai prestiti della Gonzaga. Nel novembre del 1558 la morte del Pole accrebbe il peso di queste angustie, aggravate, subito dopo, dalla notizia che il prelato inglese aveva inserito nel suo testamento una dichiarazione di piena ortodossia cattolica che includeva il dovere di obbedienza al papa come vicario di Cristo. Dopo qualche esitazione, il C. condivise il giudizio della Gonzaga nel ritenere la dichiarazione del Pole "superflua, per non dire scandalosa" (Estratto, p. 294). Il 6 apr. 1559 il processo, il cui corso era stato rallentato per l'interessamento di Cosimo de' Medici, si concluse con la condanna capitale. La possibilità di una non lontana scomparsa di Paolo IV restava l'unica speranza del C., confortato in questa sua attesa anche da suggerimenti autorevoli (per esempio, del cardinale Madruzzo). Intanto si diceva sicuro di poter vivere a Venezia senza pericolo, "a dispetto del papa", come scriveva alla Gonzaga, e, come chiarirà più tardi, fondando la sua sicurezza "in parole private di gentilhuomini" (Estratto, pp. 322, 304).
Gli anni trascorsi a Venezia dopo il ritorno dalla Francia furono, come il C. ammetterà nel 1567, il periodo "del maggior fervore, o per dir meglio furore" (Bruni, p. 60). Gli atti superstiti dell'ultimo processo danno notizie di suoi rapporti, incontri, "conversazioni" con correligionari presenti o di passaggio per Venezia (il Gelido, il Rullo, il Soranzo, il Merenda, Fabrizio Brancuti, il Caracciolo, ecc.). Ma non mancano testimonianze più precise sulla partecipazione del C. alla coperta attività religiosa di alcuni "ridotti" veneziani. Insieme col Gelido il C. frequentò il circolo di nobili (Agostino Tiepolo, Carlo Corner, Marcantonio Canal, Pietro Calbo, Bernardino Loredan, ecc.) che si riunivano attorno ad Andrea da Ponte e ad Alvise Malipiero, tenevano rapporti con Ginevra, raccoglievano fondi per soccorrere esuli e compagni di fede. Da una testimonianza raccolta dagli inquisitori veneziani nel 1565 risulta che a questi "ridutti" e "academie" partecipavano "un Carnesechi et il Pero et che un di loro leggeva, una volta l'uno et una volta l'altro, cioè il Pero et il Carnesechi" (Arch. di Stato di Venezia, Sant'Ufficio dell'Inquisizione, Processi, b. 11, proc. Giovanni Andrea Ugoni, ff. 20v-21r). Nello stesso circolo era controverso il problema della fuga (ibid., ff. 19v-20v, 44r), che il C. dovette affrontare allorché si sentì attratto dalla descrizione che della vita religiosa di Ginevra gli fece Galeazzo Caracciolo, incontrato nell'estate del 1558 a Venezia. La prudenza e gli infingimenti ai quali lo costringeva la precarietà della sua situazione indussero il C. a riflessioni sulla diversità di comportamento di quanti si rifugiavano "in parte dove potesseno vivere secondo la loro coscienza", e di quanti invece, simulando e dissimulando, preferivano vivere "claudicando, come si dice, da tutte doe le parte" (Estratto, p.285). Ma la determinazione del C. di lasciare l'Italia si impigliò in una serie di "pretesti honorevoli" e in un attento calcolo delle convenienze. La propensione a partire - scriveva alla Gonzaga - "è tanto gagliarda et vehemente che ho talvolta paura del giuditio di Dio a resisterli" (Estratto, p. 289); ma la fuga - soggiungeva - avrebbe nuociuto alla causa del Morone e avrebbe aggravato la posizione processuale di amici come Bartolomeo Spadafora e Mario Galeota; avrebbe inoltre nuociuto al Priuli, che si diceva tenuto a considerare "come herede del respetto che in tal caso harrei dovuto" al Pole; la partenza l'avrebbe, sì, sottratto a una condizione in cui era costretto a vivere "come il lepore, in continua paura et sospetto", ma lo avrebbe privato dei parenti e degli amici; con la fuga, Isabella Briseña e il Caracciolo erano andati incontro a nuovi incomodi derivanti dal pericolo di guerra tra Ginevra e il duca di Savoia; in ogni caso, preferibili a Ginevra sarebbero state l'Inghilterra o la Francia, "per non preiudicarsi col successore del Papa"; e così via. Il C. attribuì al consiglio della Gonzaga un peso determinante sulla sua rinuncia alla fuga. In realtà, mentre incertezze e "rispetti umani" derivavano da una sua sostanziale estraneità al proposito di una rottura definitiva e brusca tale da spingerlo a Ginevra, dissimulazione e calcolo delle convenienze erano implicitamente giustificate da persistente attesa di possibili esiti riformatori del concilio ("quelle opinioni erronee che ho havuto, le ho havute con presupposito che si havessero a proponere et disputare nel concilio…": Estratto, p.340) e da attesa della fine di tutte le "controversie. - tra noi christiani circa le cose della fede": insomma, attese accompagnate "da speranze di tipo millenaristico" (Cantimori, p. 535).
Nell'agosto del 1559 la morte di Paolo IV aprì al C. la concreta possibilità della revisione del processo. Lasciò subito Venezia, diretto a Firenze per sollecitare l'intervento di Cosimo. Da Firenze seguì attentamente lo svolgimento del conclave, non senza la speranza dell'elezione del Morone (mitigata, questa volta, dalle riserve della Gonzaga). Nel gennaio del 1560, appresa l'elezione di Pio IV Medici e ottenuta, per intervento di Cosimo, la sospensione della sentenza, il C. partì per Roma. La sua speranza d'una rapida assoluzione si scontrò presto con la realtà delle lentezze procedurali e soprattutto con i forti contrasti che il suo caso suscitava fra i membri del S. Uffizio. Nel frattempo, insisteva presso il Morone per l'attuazione del progetto di pubblicazione delle opere del Pole da affidare, secondo il suggerimento della Gonzaga, a Girolamo Seripando. Il processo riprese solo in maggio e dopo un mese di minuziosi interrogatori il C. dovette attendere, dal formale ritiro loco carceris nel monastero di S. Marcello, l'esito d'un supplemento di inchiesta a Venezia e a Napoli. Per tutto il resto dell'anno le pressioni di Cosimo I si scontrarono con l'intransigenza del Ghislieri. Solo nel gennaio del 1561 un più diretto intervento di Cosimo presso Pio IV, in occasione della sua visita a Roma, e la soprintendenza sul processo affidata dal papa al Seripando rimisero in moto la procedura in una direzione favorevole al Carnesecchi. Dopo altri lunghi interrogatori, la sentenza di piena assoluzione, osteggiata fino all'ultimo dal Ghislieri, fu stilata in maggio e ratificata da Pio IV in luglio.
Dopo l'assoluzione il C. rimase a Roma per tutta l'estate, occupato dalle pratiche per la reintegrazione nel godimento dei benefici ecclesiastici. Nell'autunno partì per Napoli, dove fu ospite della Gonzaga. Con la Gonzaga riparlò del progetto della pubblicazione delle opere del Pole, interrotto dalla partenza del Seripando per il concilio. Nel settembre del 1562 lasciò Napoli. Si fermò a Roma un intero anno, fino all'autunno del 1563. Ogni diffidenza nei suoi confronti era ormai scomparsa. Si valse di appoggi in Curia per concludere l'acquisto dell'abbazia di Canalnuovo nel Polesine, che raggiunse nel novembre. Di là, dopo una sosta a Firenze, si trasferì a Venezia, dove riprese abitudini e relazioni dei due soggiorni precedenti. Questo nuovo soggiorno veneziano fu interrotto da frequenti viaggi a Firenze, dove si mantenne in stretti rapporti con Ludovico Beccadelli destinato al vescovato di Prato (Parma, Bibl. Palatina, 1027, fasc. 12; 1028, fasc. 9 Oxford, Bodleian Library, Mss. It. C 24, cc. 151v, 155v, 159r, 163v). Da Venezia si tenne in corrispondenza con quanti si erano rifugiati a Lione e a Ginevra, in particolare col Gelido, al quale mandò più volte aiuti in danaro. Richiese ed ebbe dalla Gonzaga gli scritti del Valdès per una loro conservazione più sicura, di quanto fosse possibile a Napoli, forse anche con l'intenzione di darli alle stampe (Estratto, p. 558).
Fra il dicembre del 1565 e il gennaio del 1566 il C. partì improvvisamente per Firenze. Non è da escludere che a tale subitanea decisione contribuisse anche l'inchiesta che gli inquisitori veneziani venivano svolgendo a carico del gruppo di gentiluomini del circolo di Andrea da Ponte, rifugiatosi intanto a Ginevra, e di Alvise Malipiero. Il C. vide comunque urgente la necessità di trasferirsi a Firenze, allorché il 7 genn. 1566 col nome di Pio V salì al pontificato Michele Ghislieri, il più intransigente oppositore alla sua precedente assoluzione. I suoi timori si dimostrarono subito fondati. Alla morte della Gonzaga (16 apr. 1566), il sequestro delle carte della nobildonna mise a disposizione degli inquisitori un ampio materiale in base al quale condurre l'indagine su tutta la trama del movimento valdesiano. In questa prospettiva si colloca l'immediata ripresa del processo del C., come il 19 giugno scrisse esplicitamente il cardinale Francisco Pacheco nel darne comunicazione a Cosimo de' Medici. L'esplicito avvertimento del Pacheco, secondo il quale i futuri rapporti con la Curia sarebbero dipesi dalla volontà di Cosimo di consegnare senza indugi il C., facilitò la speciale missione a Firenze del maestro del Sacro Palazzo Tommaso Manriquez. Il 26 giugno il C. venne consegnato al Manriquez. Pochi giorni dopo partiva per Roma, dove giunse fra il 3 e il 4 luglio.
Il processo (giudici i cardinali Francisco Pacheco, Scipione Rebiba, Gian Francesco Gambara, Bernardino Scotti) ebbe inizio pochi giorni dopo (il primo costituto cui si fa riferimento nell'Estratto è dell'8 luglio). La prima fase degli interrogatori riguardò le preventive ammissioni del C. su tutto il suo passato. Sforzo costante del C. fu di richiamare ai giudici la fluidità delle varie situazioni, la mancanza di precise definizioni e discriminanti dottrinali, il ruolo e l'influenza avuti da incontri e letture (…son cose, come ogni uno sa, che obrepunt a pocho a pocho nelli animi nostri": Estratto, p. 197). Ma gli interrogatori divennero ben presto incalzanti. Sulla base del materiale in possesso degli inquisitori, il C. fu chiamato a rispondere principalmente su tre punti: chi fossero gli "eletti" ai quali egli faceva riferimento nelle sue lettere alla Gonzaga; quali fossero i presupposti della sua intenzione di rifugiarsi a Ginevra; quali fossero i motivi della sua riprovazione della dichiarazione di fedeltà al papa nel testamento del Pole. Da quel momento, pur tra continui tentativi di sfumare e distinguere, le ammissioni compromettenti del C. si susseguirono senza sosta: "eletti" erano quanti "havevano la vera fede catholica, sì come tenevo che fusse quella che mi haveva insegnata il Valdés" (Estratto, p. 239); la dottrina cattolica che "universalmente si predicava", in quanto "fondata troppo in sulle opere", aveva fatto sì che "a poco a poco fosse ritornata quasi furtivamente a regnare la opinione di Pellagio" (ibid., p.338); aveva approvato in parte le dottrine professate a Ginevra (ibid., p. 292); il primato del papa era da intendersi "quo ad ordinem potius quam ad dominatum, intendendo per ordine la precellentia" (ibid., p.297). Le domande sulle dottrine da lui professate si intrecciarono fittamente (due volte si ricorse alla tortura) con le domande sulla condotta e sulle dottrine di tutti i suoi amici vivi e morti, in particolare la Gonzaga, il Pole, il Morone, il Seripando. Cosimo seguiva da Firenze attentamente l'andamento del processo e moltiplicava i suoi interventi presso il papa e presso il cardinale Pacheco. Nei primi mesi del 1567 l'intercettazione di alcuni messaggi fatti uscire segretamente dal carcere, nei quali il C. informava gli amici e complici dei possibili pericoli che l'andamento degli interrogatori poteva rappresentare anche per loro, aggravò la sua posizione. Il 21 aprile confermò tutto quanto aveva deposto nei precedenti costituti ("così circa le persone… come quello che ho deposto di mé medesimo": Estratto, p. 536).
Il processo subì una svolta in maggio, allorché il C. si rifiutò di sottoscrivere un elenco di trentaquattro "opinioni heretiche, temerarie et scandalose" desunte dagli interrogatori, considerandole o non rispondenti in tutto al senso delle sue deposizioni o "confessate contro la propria conscientia" oppure ammesse "per non esser reputato fitto et simulatamente converso" (Estratto, pp.567-568). La sua richiesta di una copia degli atti e la designazione di due avvocati con i quali concordare una linea di difesa furono considerate dai diplomatici fiorentini a Roma un gesto temerario. Lo stesso cardinale Pacheco fece sapere a Cosimo che la decisione del C. aggravava la sua posizione. Gli argomenti addotti a propria difesa si rivelarono troppo fragili, equivalenti a una vera e propria ritrattazione di tutto quanto aveva inizialmente ammesso: l'unica ammissione era d'aver creduto nella dottrina della giustificazione per fede, ma non oltre la data del relativo decreto tridentino di condanna; per il resto intendeva far valere le sue incertezze, i suoi dubbi, l'occasionalità delle sue credenze, la non rispondenza delle deposizioni e delle accuse allo stato reale della sua coscienza. Dopo la concessione di un mese di riflessione, ai primi di luglio, sottoposto - secondo un'informazione proveniente da un dispaccio del residente mediceo Francesco Babbi - a nuovo interrogatorio e alla tortura, il C. si confessò eretico. Pochi giorni dopo (8 luglio) inviò al tribunale un memoriale in cui ammetteva "d'aver in effetto assentito non solo a Valdés, ma ancora a Lutero circa l'articulo della giustificazione", nonché "alli altri articoli dependenti da quello" (certezza della grazia, non necessità della penitenza per la remissione dei peccati); dichiarava, infine, d'avere avuto dubbi sull'origine divina dei sacramenti e sul primato del papa e di "esser penduto dalla parte heretica più tosto che dalla cattolica" a proposito della confessione e della transustanziazione. Per tutto il resto si rimetteva agli atti del processo e si diceva disposto, se richiesto, a dare maggiori chiarimenti: una "sattisfattione maggiore" che il C. non diede mai (Estratto, p. 571). La confessione fu considerata insufficiente. Insoddisfacenti furono considerate anche le risposte date in altri interrogatori svoltisi durante le pause di un violento attacco di febbre malarica. L'ultimo interrogatorio di cui si ha notizia è del 6 agosto: in esso il C. respinse l'ultimo tentativo degli inquisitori di fargli avallare i sospetti che ancora gravavano sul Morone. L'udienza del 16 agosto fu dedicata alla lettura della sentenza, la cui pubblicazione avvenne solo il 21 settembre nella chiesa della Minerva, alla presenza di tutti i cardinali presenti a Roma (fu notata e commentata l'assenza del Morone, che si era allontanato da Roma pochi giorni prima). Dei diciotto condannati dei quali nello stesso giorno fu letta la sentenza, solo due, il C. e il frate minore conventuale Giulio Maresio, risultarono condannati alla degradazione, alla privazione dei benefici e al deferimento al braccio secolare. Cedendo alle insistenti pressioni di Cosimo de' Medici, Pio V differì di dieci giorni l'esecuzione della sentenza, in attesa d'un completo ravvedimento del C., cui sarebbe seguita la commutazione della pena di morte nel carcere perpetuo. Ma nell'ultima confessione che il C. scrisse per consiglio del frate che lo assisteva, il cappuccino pistoiese Geronimo Finucci, aggiunse solo pochi chiarimenti sul conto del Pole e sui suoi rapporti con Pietrantonio da Capua: nulla aggiungeva alla confessione dell'8 luglio, già ritenuta insufficiente, e nulla aggiungeva sulla condotta e sulle dottrine professate dal Morone, sul cui conto (secondo una voce colta e fatta propria dall'agente mediceo Francesco Babbi) gli inquisitori si attendevano dal C. dichiarazioni compromettenti. Il 27 settembre Pio V ordinò che il 1ºottobre, con lo scadere della dilazione concessa, la sentenza venisse eseguita mediante decapitazione e rogo. Per suggerimento del governatore di Roma, fu designata come luogo dell'esecuzione la piazza adiacente al ponte S. Angelo anziché Campo dei Fiori. Il 30 settembre il C. si confessò e si comunicò. All'alba del giorno successivo, in compagnia del Maresio e assistito dal Finucci, lasciò il carcere di Tor di Nona. Salì sul patibolo con dignità e decoro, "tutto attillato - come due giorni dopo scrisse a Cosimo de' Medici il suo agente Serristori - con la camicia bianca, con un par di guanti nuovi e una pezzuola bianca in mano". La decapitazione avvenne senza indugi. Più lenta fu, invece, l'azione del rogo a causa della pioggia.
Iconografia. Agli inizi del Novecento, le sembianze del C. sono state, concordemente e indipendentemente, riconosciute da C. Gamba (in Critica d'arte, VI [1909], pp.277-79) e da E. Schaefer (in Monatsh. für Kunstwissenschaft, IX [1909], pp. 405-412)in due ritratti di giovane in abito ecclesiastico, conservati a Firenze alla Galleria degli Uffizi (n. 1169)e alla Galleria Pitti (n. 184) e indiscriminatamente attribuiti dalla tradizione ad Andrea del Sarto. Mentre il Gamba attribuisce a Domenico Ubaldini detto il Puligo entrambi i dipinti, lo Schaefer mantiene ad Andrea del Sarto l'attribuzione di uno dei due, e precisamente di quello conservato alla Galleria Pitti. Fonte per l'identificazione della mano del Puligo in uno o in entrambi i ritratti è la testimonianza del Vasari, che da uno dei due dipinti ha tratto ispirazione nel ritrarre il C. in veste di chierico giovinetto nel dipinto della sala di Clemente VII nel fiorentino Palazzo Vecchio (G. Vasari, Opere, a cura di G. Milanesi, IV, Firenze 1879, p. 465).
Fonti e Bibl.: La fonte più importante resta l'Estratto del processo di P. C., edito da G. Manzoni, in Miscellanea di storia italiana, X (1870), pp. 187-573. In esso sono riportate, per intero oper brani, molte lettere del C. alla Gonzaga (vedi Opuscoli e lettere di riformatori ital. del Cinquecento, a cura di G. Paladino, I, Bari 1913, pp. 99-114; Lettere del Cinquecento a cura di G. G. Ferrero, Torino 1967, pp. 533-549). Lettere del C., oltre a quelle indicate in P. O. Kristeller, Iter Italicum, I, pp. 66, 67, 117, 175, 269, 277; II, pp. 39, 152, 160, 161, 553, siconservano in Archivio di Stato di Bologna, Archivio Malvezzi-Campeggi, s. 3, 11/535, cc.n.n. (indicaz. di A. Prosperi); Arch. di Stato di Firenze, Mediceo, f. 357, c. 771; f. 377, c. 148; f. 386, c. 793; f 391, c. 244; f. 467, c. 500; Carte del cardinale di Ravenna, b. 16, n. 81; Firenze, Biblioteca nazionale, Magl.VIII, 51, c. 258; Archivio di Stato di Modena, Letterati, ad nomen;Modena, Biblioteca Estense, Autografoteca Campori, ad nomen;Archivio Segreto Vaticano, Fondo Chigi, R. II, cc.267r-274v; Oxford, Bodleian Library, Mss. It.C24, cc. 264r-265r (indicazione di G. C. Morel); Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni scritte in diverse materie, III, Venezia 1564, pp. 10-11; Epistolae aliquot M. Antonii Flaminii, a cura di G. Camerario, Nurenberg 1571 (vedi J. G. Schelhorn, Amoenitates historiae eccles. et literariae, II, Francofurti et Lipsiae 1738, pp. 155-179); Lettere memorabili, Roma 1670, III, pp. 259-263; G. Della Casa, Opere, Milano 1806, II, pp. 254-255; Nuntiaturberichte aus Deutschland 1533-1559, I, a cura di W. Friedensburg, Gotha 1892, pp. 119-121, 130-131, 158-162, 176-183. Diverse e di vario valore e intendimenti sono le biografie complessive del C.: G. Bandi, P.C., storia fiorentina del sec. XVI, Firenze 1873 (biografia romanzata); L. Ruffet, P.C., un martyr de la Réforme en Italie, Toulouse 1876; L. Witte, P. C., ein Bild aus der italien. Martyrergeschichte, Halle 1883; A. Agostini, P. C. e il movimento valdesiano, Firenze 1899; S. Fera, P. C. gentiluomo fiorentino, Firenze 1908; A. Del Canto, P. C., Roma [1911]; O. Ortolani, Per la storia della vita religiosa ital. nel Cinquecento. P. C. Con estratti dagli atti del processo, Firenze 1963. Studi e fonti attinenti ai processi: G. Laderchi, Annales ecclesiastici ab anno 1566, XXII, Roma 1728, pp. 97, 98, 326; Legazioni di A. Serristori, ambasciatore di Cosimo I a Carlo V e in corte a Roma, a cura di L. Serristori - G. Canestrini, Firenze 1853, pp. 339-340, 426, 433, 435-439, 440-443, 454; F. 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