PIANIFICAZIONE FAMILIARE
Con la locuzione "pianificazione familiare", che traduce in modo letterale dizioni inglesi e francesi, s'intende la progettazione e le modalità di formazione delle famiglie nucleari, attraverso la fase dell'unione coniugale, la definizione del numero delle nascite, dei tempi e dei modi del loro distanziamento. Il significato corrente della dizione, tuttavia, si limita in genere alla pianificazione delle nascite, come progetto e attuazione, da parte di individui e di coppie, di comportamenti riproduttivi tesi a condurre a un numero definito di nascite e al voluto distanziamento tra di esse; il riferimento alle unioni coniugali è incluso limitatamente al loro collegamento con il comportamento riproduttivo e con i suoi esiti. Inoltre si tende a spostare l'attenzione sull'intervento pubblico che è potenzialmente capace d'influire in materia attraverso norme e programmi operativi, specificamente definiti o inclusi entro politiche familiari o demografiche o ancora di sostegno dei diritti individuali o di riequilibrio delle risorse. Nel seguito si cercherà di distinguere la pianificazione (o controllo) delle nascite operata da individui e coppie dall'azione politica pubblica intesa a interferire con i comportamenti individuali e di coppia, in senso natalista o anti-natalista (indirizzi e azioni di sostegno o scoraggiamento rispetto alla prolificazione), ricordando per altro che la compatibilità tra orientamenti pubblici e comportamenti individuali nel campo della riproduzione rappresenta un problema sociale e politico di grande rilevanza.
Andamento della fecondità e caratteri degli interventi di contenimento e sostegno. − La pianificazione dei concepimenti e delle nascite può risultare compatibile con qualunque livello di fecondità, sia elevata sia contenuta. Quando la fecondità è assai elevata − come nei paesi occidentali dell'inizio Ottocento e nel Terzo Mondo fino a una decina d'anni fa −, i concepimenti e le nascite si succedono lungo l'arco della vita fertile secondo ritmi scanditi prevalentemente da condizioni bio-fisiche e da consuetudini sociali (specie per quanto riguarda i rapporti sessuali); la cultura dominante è per lo più favorevole a nascite numerose, di cui è percepita la vantaggiosità complessiva, a livello sociale e da parte degli individui; l'impegno dei singoli nell'interferire sullo svolgimento del processo riproduttivo è quindi marginale. Viceversa, quando la fecondità si riduce − durante la cosiddetta ''transizione demografica'' e ancora più nell'attuale fase post-transizionale, tipica dei paesi sviluppati − assumono grande rilievo atteggiamenti e comportamenti individuali orientati a definire sia il numero (ridotto) dei figli sia i tempi dei concepimenti e delle nascite sia i metodi per controllarli; nel comportamento riproduttivo pesa in modo assai rilevante, in particolare, il numero di figli già avuti (nati e viventi). Nella prima delle due condizioni, la riproduzione si realizza secondo una fecondità naturale e non dipendente dall'ordine di nascita (o parità) dei figli; nella seconda situazione si realizza secondo una fecondità più o meno intensamente controllata, dipendente dall'ordine/parità dei figli avuti.
Mentre la pianificazione delle nascite può essere di per sé compatibile con regimi sia di alta sia di bassa fecondità, nell'uso corrente la s'intende riferita a progetti e comportamenti intesi a ridurre le nascite e a distanziare i concepimenti e le nascite, intervenendo volontariamente per modificare i ritmi e le condizioni di natura bio-fisica. Una tale accentuazione di significato può essere accolta, purché esplicitata convenzionalmente. Vanno invece respinte come indebiti giudizi di valore, nonché per le confusioni e gli errori cui hanno dato luogo, una concezione della pianificazione intrinsecamente orientata alla riduzione delle nascite, e un'equazione tra comportamento razionale e consapevole e comportamento riduttivo delle nascite. Certo una pianificazione riduttiva delle nascite presuppone ordinariamente comportamenti razionali e volontaristici; ma non meno razionali e consapevoli possono risultare i comportamenti intesi a mantenere elevata o ad aumentare la fecondità, come insegna l'esperienza dei paesi a regime prevalentemente rurale, con economia ad alta intensità di manodopera e in assenza di provvidenze di welfare state.
Assai remota e molto variabile da paese a paese è la storia dell'intervento del potere legislativo ed esecutivo per modificare la dinamica d'incremento e la struttura della popolazione: non solo nelle fasi acute di timore di sovrappopolamento, rispetto alle risorse disponibili, o di spopolamento o estinzione della popolazione, ma anche in relazione a obiettivi di politica generale (si pensi nell'antichità classica all'accettabilità di una popolazione stazionaria per la Grecia, ma non per Roma caratterizzata da una visione espansionista). Fisionomie contrapposte rivestono poi le esperienze dei paesi economicamente sviluppati e quelle del Terzo Mondo.
Il sostegno pubblico alla natalità, nei paesi occidentali, ha rappresentato una costante anche molto dopo che aveva avuto avvio una fase di calo delle nascite, in strati via via più larghi di popolazione, cioè a partire grosso modo dalla fine dell'Ottocento, quando l'esuberanza di popolazione rispetto alle risorse disponibili ancora trovava uno sbocco fisiologico nei movimenti migratori (si stima che in 130 anni, dall'inizio dell'Ottocento, siano espatriati circa 40 milioni di europei, mentre l'intera popolazione europea all'inizio del secolo 20° ammontava a poco più di 400 milioni di abitanti).
Si è quindi configurata una certa divergenza tra orientamenti pubblici e cultura dominante d'impronta pro-natalista da un lato, e pratica di crescente contenimento dei concepimenti e delle nascite da parte delle coppie dall'altro. Tuttavia, fino alla prima guerra mondiale, gli interventi politici in Europa sono stati di modesta entità rispetto ai fattori di trasformazione scientifica, tecnica, economica e sociale. Solo tra le due guerre, e specialmente dopo la grande crisi economica del 1929, si sono effettuati sforzi importanti e organici d'intervento pubblico a sostegno della fecondità: peraltro con qualche risultato non meramente congiunturale solo per la Germania e per la Francia. D'altra parte accanto a una cultura ufficiale che non legittimava il controllo dei concepimenti e delle nascite, pure in presenza di comportamenti individuali e familiari orientati al contenimento della prolificazione e alla ricerca dei modi operativi conseguenti, emergevano nuove istanze culturali ispirate alla salvaguardia dei diritti individuali e alla promozione di condizioni di uguaglianza socio-economica. La Svezia del secondo quarto del 20° secolo esemplifica bene l'evoluzione in questo settore: ricerca e dibattito sui comportamenti riproduttivi, sostegno della natalità, ma anche liberalità in campo contraccettivo e abortivo (con effetti, sotto questo profilo, di contenimento delle nascite).
Dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni Sessanta si verificano due successivi baby booms: il primo legato presumibilmente al superamento delle restrizioni riproduttive imposte dal periodo bellico; il secondo connesso con una fase di benessere economico, che ha consentito alle generazioni più anziane di aumentare il numero della prole e alle più giovani di anticipare l'inizio della vita coniugale e riproduttiva. Nonostante ciò si diffondeva l'idea della convenienza di un incremento zero della popolazione, in cui si combinano bassa mortalità e bassa fecondità, e si giudicavano non opportuni interventi pubblici a sostegno della fecondità. Così con la metà degli anni Sessanta riprende la tendenza al calo della fecondità, intorno a un livello di semplice sostituzione fra le generazioni (2,1 figli per donna). Vengono contemporaneamente introdotti nuovi metodi anticoncezionali (la pillola e la spirale intrauterina) e molti paesi consentono il ricorso all'aborto indotto e alla sterilizzazione: anche i servizi socio-sanitari pubblici si attrezzano in vario modo per far fronte alla domanda di metodi di controllo dei concepimenti e delle nascite. Alla domanda prevalente di riduzione delle nascite, se ne affianca una di controllo della sterilità. La posizione della donna muta profondamente sia dal punto di vista dell'occupazione extradomestica, sia nel contesto familiare; movimenti di opinione spingono fortemente in questa direzione.
Negli anni Ottanta in parecchi paesi dell'Europa occidentale il declino della fecondità sembra arrestarsi intorno a 1,5 figli per donna in termini congiunturali: ciò comporterebbe un regresso tendenziale della popolazione di un quarto circa ogni trent'anni; mentre per le generazioni che hanno completato il periodo riproduttivo il numero medio di figli è di circa 2 per donna. In qualche paese, alla fine degli anni Ottanta, sembra anzi realizzarsi un lieve recupero; in paesi come la Svezia, dopo decenni d'instabilità, si sta trovando un qualche equilibrio tra ruoli rinnovati di tipo coniugale, materno-paterno, professionale, e stili di vita, con l'ausilio di politiche egualitarie di sostegno delle condizioni della donna e di una ripresa del significato collettivo dell'esperienza parentale: ciò consentirebbe di ridare spazio alla figura del figlio. A livello politico comunque ci si comincia a porre il problema che il declino delle nascite comporta, accentuandolo oltre il desiderabile: l'invecchiamento della popolazione stessa e gli oneri relativi. Nei paesi dell'Est europeo, che pure hanno mantenuto caratteristiche peculiari di politica demografica, gli esiti quantitativi non sono molto dissimili anche se i livelli di fecondità restano mediamente più prossimi alla soglia di sostituzione tra le generazioni.
Programmi di pianificazione familiare nei paesi in via di sviluppo e sviluppati. − Assai recente, di quest'ultima metà del 20° secolo, è la storia del controllo riduttivo della fecondità, e degli interventi pubblici per favorirlo nei paesi in via di sviluppo. Di fronte al ritmo di crescita della popolazione (circa due-tre volte maggiore di quello sperimentato nei momenti di più rapido sviluppo dai paesi occidentali), dovuto a un contenimento della mortalità assai rapido, non controbilanciato da un declino spontaneo della fecondità, solo lentamente si è fatta strada l'idea dell'opportunità di favorire una riduzione dei concepimenti e delle nascite. Tale convinzione si diffonde presso la classe politica, ma è accolta con molta lentezza dalla popolazione, salvo il caso di alcuni paesi popolosi come Cina, Thailandia, Repubblica di Corea, o di altri minori come Hong Kong e Singapore, in cui la fecondità si colloca oggi intorno al livello di sostituzione. Nei paesi sub-sahariani e nei paesi arabi, con l'eccezione di Tunisia, Marocco e, forse, Egitto, i livelli di fecondità sono i più elevati e non accennano a diminuire anche se in questi ultimi anni si sta diffondendo un orientamento a favore di politiche di riduzione delle nascite, pure in relazione a gravi difficoltà nello sviluppo economico.
Cronologicamente i programmi di p. f. su larga scala, sostenuti direttamente dai governi di paesi in via di sviluppo, intesi a diffondere l'uso di metodi d'inibizione dei concepimenti, risalgono innanzitutto all'India (1951-52). Negli anni Cinquanta li avviarono anche Cina, Taiwan, Hong Kong, Singapore, Barbados; il maggiore sviluppo si realizzò negli anni Sessanta (paesi asiati-ci, nord-africani, latino-americani e caribici) e proseguì negli anni Settanta (Oceania, Caribi, Medio Oriente, Africa settentrionale). A metà degli anni Ottanta quasi l'80% della popolazione dei paesi in via di sviluppo viveva in un contesto in cui si adottavano politiche di sostegno della p. f. per ragioni demografiche (ossia per ridurre un incremento della popolazione ritenuto eccessivo); circa il 17% sperimentava forme di sostegno analoghe, ma per ragioni sanitarie e di rispetto di diritti individuali (in tali contesti le politiche sono usualmente meno appariscenti e incisive). Per lo più i programmi d'intervento si basano su risorse pubbliche (si stima che l'80% della popolazione che pratica metodi contraccettivi utilizzi il sistema pubblico, mentre il settore privato non appare in crescita, al contrario di quanto avviene nei paesi sviluppati).
I metodi di controllo dei concepimenti negli ultimi trent'anni sono enormemente cambiati, e sulle nuove tecniche si basano i programmi pubblici. Ai metodi ''maschili'' che risultavano dominanti, si sono aggiunti metodi ''femminili'' (spirale e metodi ormonali: pillola e iniettabili), nonché la sterilizzazione femminile e maschile. Anche l'aborto indotto è stato accolto in pochi paesi in via di sviluppo come metodo di controllo delle nascite (si tratta di un sistema più diffuso nei paesi sviluppati). L'approccio organizzativo di tali programmi è prevalentemente clinico (utilizzazione di cliniche, unità mobili, medici e personale paramedico: programmi di sensibilizzazione in occasione del parto, campagne per la sterilizzazione o per l'inserimento di spirali), cercando di mettere in contatto strutture sanitarie e utenti del servizio potenziali o effettivi. Per metodi anticoncezionali che non necessitano di controllo sanitario, a partire dagli anni Settanta, sono stati anche realizzati programmi di diffusione ''comunitari'' e sussidiati programmi commerciali di vendita.
L'adozione di politiche di p. f. è abbastanza spesso accompagnata da incentivi finanziari (specie per la sterilizzazione o per l'inserimento della spirale), oltre che dalla fornitura gratuita di strumenti anticoncezionali; incentivi sono anche previsti per quanti svolgono iniziative di diffusione comunitaria.
L'impegno politico nel settore della riproduzione ha registrato un momento di acceso e rilevante dibattito in occasione della Conferenza mondiale sulla popolazione indetta nel 1974 dalle Nazioni Unite, e della redazione del Piano di azione mondiale per la popolazione. La spinta di alcuni paesi sviluppati che sollecitavano un maggiore impegno nel settore da parte dei paesi in via di sviluppo venne interpretata negativamente, come legata agli interessi delle aree più ricche, e si ritenne più congruo procedere preliminarmente alla promozione di politiche per lo sviluppo economico-sociale. Il Piano d'azione mondiale cercò di esprimere al meglio posizioni conciliabili. In realtà, si è convenuto più chiaramente nella successiva Conferenza mondiale del 1984 che occorre operare sia distintamente sia congiuntamente sul versante della p. f. e su quello socio-economico per favorire il migliore sviluppo possibile. Molti problemi, anche di natura etica, restano tuttora aperti, volendo indurre nel rispetto delle libertà individuali comportamenti definiti in un settore in cui s'incrociano ruoli, aspettative, diritti-doveri fondamentali.
I risultati delle politiche di sostegno delle nascite in alcuni paesi occidentali e di quelle di contenimento nei paesi in via di sviluppo sono diversamente documentabili, specialmente per quanto riguarda l'individuazione dei fattori influenti. Una particolare branca della demografia cura la valutazione dell'efficienza e dell'efficacia delle politiche condotte dai vari governi.
Tra le maggiori difficoltà di analisi, a proposito degli effetti delle politiche pro-nataliste, che prevedono per lo più sussidi crescenti con l'ordine di nascita dei figli e periodi di congedo dal lavoro per la madre o per il padre, c'è il fatto che tali politiche hanno scopi molteplici, tra cui quello perequativo dal punto di vista della giustizia economico-sociale, e si sviluppano contestualmente ad altri interventi e ad altre normative che possono sortire effetti opposti (la loro contestualità non è ovviabile, dato che sulle esigenze di natura demografica prevalgono esigenze di rispetto dei diritti e di giustizia distributiva). Gli effetti dei programmi, specie laddove gli obiettivi sono specificamente demografici, sono più facilmente stimabili nei paesi in via di sviluppo, anche perché è predisposto usualmente fin dall'inizio dell'intervento un sistema di monitoraggio sia sullo sviluppo delle norme e degli aspetti amministrativi, organizzativi e finanziari, sia sull'accettazione, da parte della popolazione, delle metodiche proposte. Vengono impiegate anche misurazioni dei risultati di varia finezza e complessità come la standard couple-years of protection, che consente di stimare i tempi di protezione da concepimenti-nascite in relazione ai metodi usati, e le nascite evitate attraverso il loro uso, tenendo conto di particolari caratteristiche delle coppie e del loro comportamento. In complesso tuttavia occorre sottolineare che le valutazioni sugli effetti degli interventi sono, più che asseverative, orientate in ragione della loro plausibilità.
Oltre ai risultati provenienti dal monitoraggio dei programmi vengono ampiamente utilizzate rilevazioni di dati su campioni rappresentativi di popolazione, con l'intento di esplorare anche i fattori esplicativi dei comportamenti riproduttivi e le aspettative future. Oltre a indagini internazionali con obiettivi relativamente ristretti (dalla prima serie Knowledge, Attitude, Practice, alle recenti Contraceptive Prevalence Surveys e Demographic and Health Surveys, tutte indagini condotte presso paesi in via di sviluppo) vanno ricordate la World Fertility Survey (1974-84) che ha coinvolto 41 paesi in via di sviluppo e 20 paesi sviluppati, e la Family and Fertility Survey, promossa dalla Commissione Economica per l'Europa delle Nazioni Unite.
Da tutte le informazioni disponibili risultano stime della diffusione dei metodi contraccettivi sul piano mondiale (v. tab.). I livelli di contraccezione, nei paesi in fase di riduzione della fecondità, risultano fortemente correlati con essa, in modo inverso. Un aumento della contraccezione è spesso associato a miglioramenti nelle condizioni economiche e sociali (istruzione, condizione della donna) della popolazione, ma vi sono popolazioni in cui risultati notevoli si sono ottenuti pure in presenza di sistemi economico-sociali deboli. Probabilmente i fattori culturali sono più importanti di quelli economici nello spiegare i cambiamenti nel campo della fecondità (la disponibilità indù a seguire orientamenti ufficiali e le resistenze musulmane a una gestione politica della sfera della riproduzione potrebbero spiegare esiti diversi nei programmi in India e in Pakistan e Bangla Desh). Anche la tradizione istituzionale, assai povera nei paesi sub-sahariani, può giocare un ruolo esplicativo differenziale importante.
Nei paesi sviluppati, un eventuale sostegno della fecondità deve probabilmente fare i conti, più che con i costi diretti della prolificazione, con un necessario riequilibrio (culturalmente, economicamente, socialmente visibile) dei ruoli individuali entro le famiglie e nella società. In ogni caso il comportamento riproduttivo di una popolazione appare coerente con il ''patto tra generazioni'' esistente, ossia con le regole di trasferimento di affetti, beni e cultura accolte tra generazioni, che devono risultare convenienti alle generazioni che riproducono. I grandi cambiamenti di questi decenni mettono ovunque in discussione questi patti intergenerazionali: le politiche riguardanti la riproduzione devono collocarsi in questo quadro per avere un significato socialmente utile.
Bibl.: United Nations, Report of the World Population Conference, Bucharest, 19-30 August 1974, sales n. E.75.xiii.3 (1975); B. Colombo, Droits de l'homme, idéologies et politiques démographiques, in Union Internationale des Etudes Scientifiques sur la Population, Actes Conférence Internat. Population, 4, Città di Messico 1977; P. De Sandre, Etude critique des politiques démographiques en Europe, in Conseil de l'Europe, Incidences d'une population stationnaire ou décroissante en Europe, Liegi 1978 (trad. it., Milano 1982); United Nations, Manual IX. The methodology of measuring the impact of family planning programmes on fertility, sales n. E.78.xiii.8 (1979); W.B. Watson, Family planning programs: developing countries, in International Encyclopedia of Population, 1, Londra 1982; K.A. London e altri, Fertility and family planning surveys: an update, in Population Reports, series M, 8 (1983); J.C. Caldwell, Changing population rates, policies and attitudes in Africa, the Middle East and South Asia, in Population Bulletin U.N., 27 (1989); W.P. Mauldin, The effectiveness of family-planning programmes, ibid.; A. Mounier, La situation démographique de l'Europe, in Popolazione, società e politiche demografiche per l'Europa, Torino 1990.