PERFORMANCE.
– Performance e re-enactment. Ripresentare l’opera: tradire la performance o salvaguardare la memoria? Bibliografia
Performance e re-enactment. – La p., è noto, si basa su azioni concepite hic et nunc che acquisiscono un senso specifico poiché agite in un determinato tempo e in un determinato luogo, reagendo a particolari condizioni socioemozionali, formali, politiche, culturali e temporali legate a esigenze – imprescindibili – di site specific. Una forma di espressione che nasce volutamente effimera, segnata da una natura ancipite, da una doppia esistenza, da due tempi e due spazi: le coordinate spaziotemporali che appartengono all’azione nel momento del suo svolgersi live e quelle attivate in seguito dalla memoria degli spettatori. A queste coordinate spaziotemporali, si aggiunge il materiale documentario e visivo, affiancato alle tracce residuali dell’azione, che possono reiterarla, riattivandola metaforicamente in un altro luogo e in un altro spazio. Da questo specifico punto di vista, la p. esprime istanze diverse, non necessariamente concorrenti né complementari, che nel loro complesso offrono al medium stesso nuove possibilità critiche ed esperienziali.
Esiste indubbiamente una differenza importante tra una p. agita live con il pubblico e la sua documentazione. Azione e documentazione, oltre a essere fruite su supporti diversi, si riferiscono soprattutto a diverse tipologie di esperienza: l’una diretta, l’altra mediata. È altrettanto vero che, nonostante azione e documentazione si differenzino ‘sostanzialmente’ l’una dall’altra, esse sono allo stesso tempo consustanziali. Due diverse esperienze dello stesso fenomeno, legate da una sorta di mutua reciprocità: la p. dopo ‘l’evento’ esiste solo attraverso la documentazione, mentre ogni riproduzione/ripetizione, sia come re-enactment sia come mera documentazione, è in un certo senso un evento performativo a sé. Il termine re-enactment (der. di to re-enact «riprodurre» una scena) nell’ambito delle pratiche performative si riferisce infatti a una ‘rimessa in scena’ di una p. già agita in passato ed è utilizzato come sinonimo di re-performance, per indicare una strategia specifica di appropriazione, che implica a sua volta un’interpretazione e una ricontestualizzazione di una p., in un altro spazio e in un altro tempo, non necessariamente a opera dello stesso artista che ha concepito l’azione originale.
Radicalizzando quanto detto, si potrebbe affermare che persino una singola immagine può assumere un carattere performativo, soprattutto se è l’unica depositaria della memoria di un’azione. È questo il caso di numerose p. agite tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Affrontando la non facile questione da una prospettiva storica, è evidente che la p. può rivelare la propria intrinseca performatività, solo attraverso rievocazioni e documentazioni di vario tipo, di per sé irriducibilmente legate alla conseguente possibilità di una sua riproduzione/ripetizione. Philip Auslander propone due categorie distinte per documentare la p.: «il documentario» e «il teatrale». La prima è basata sul modo tradizionale di concepire il rapporto tra p. e registrazione e presuppone una visione documentaria. La seconda si riferisce a p. «messe in scena solo per essere fotografate o filmate e che non hanno avuto un’esistenza significativa come eventi autonomi presentati al pubblico». In questo caso, «Lo spazio del documento (sia esso visivo o audiovisivo) è il solo spazio in cui si manifesta la performance» (The performativity of performance documentation, «PAJ. A journal of performance and art», 2006, 84, p. 2).
Ripresentare l’opera: tradire la performance o salvaguardare la memoria?. – Con queste premesse è facile immaginare i motivi per cui il concetto di re-enactment sollevi interrogativi importanti circa l’ontologia stessa della p.: investe le sue caratteristiche fondanti e questioni metodologiche legate a tecniche, sviluppo, paternità, conservazione; non da ultimo al valore e all’utilizzo della documentazione storica della performance. In questo senso, può essere interpretato come un atto di difesa del medium stesso. Secondo molti, il re-enactment è contraddetto dalla possibilità di accettarne una ‘rievocazione’ intenzionalmente distaccata dalle fonti, anche per motivi legati all’esigenza di una nuova messinscena. Peggy Phelan, per es., disegna un’ontologia della non riproducibilità della p., di riferimento per gran parte della critica americana: «La sola vita della performance è nel presente. La performance non può essere salvata, registrata, documentata, altrimenti partecipa alla circolarità della rappresentazione delle rapresentazioni», caratterizzandosi, essenzialmente, come «un’esperienza di valore che non lascia alcuna traccia visibile dopo» (The ontology of performance. Representation without reproduction, in Unmarked. The politics of performance, 1996, p. 146).
Sebbene il termine re-enactment sia entrato solo di recente nel dibattito critico-curatoriale, l’attitudine a ripresentare p. già agite, quindi passate, risale in realtà agli alfieri delle poetiche performative, prima ancora che fossero storicizzate (alcuni esempi: Joseph Beuys, Valie Export, Gina Pane, Michel Journiac, Joan Jonas, ORLAN, Ion Grigorescu, Yoko Ono). Analogamente gli artisti Fluxus: Alison Knowles, Jackson Mac Low, Dick Higgins, Nam June Paik, Benjamin Patterson e Philip Corner, hanno più volte organizzato, nel tempo, re-enactments di loro azioni. Emblematica la posizione di Allan Kaprow, i cui happening santificano i termini di un’arte partecipativa e ‘protorelazionale’, in origine considerati dall’artista «eventi che, presi semplicemente, accadono [...] e scompaiono per sempre una volta che un nuovo evento prende il loro posto» (Allan Kaprow. Art as life, ed. E. Meyer-Hermann, A. Perchuk, S. Rosenthal, 2008, p. 26). Nel 1988, per la prima volta, lo stesso Kaprow ha autorizzato il re-enactment di 18 happenings in 6 parts (1959), accompagnato da precise istruzioni. E così per i re-enactments successivi di altri suoi lavori, contravvenendo a quanto affermato in precedenza, per avvenute preoccupazioni di natura documentaria e di trasmissione.
Un tentativo di tenere insieme realtà del passato, esigenze del presente e necessità di individuare nuove modalità di ripresentazione dell’opera, per salvaguardarne la memoria nel futuro, è sostenuto anche da Marina Abramović: «La performance può essere ripetuta, interpretata e fatta oggetto di esperienza da diverse generazioni di artisti e di pubblico» (The biography of biographies, 2004, p. 14). È questa una presa di posizione radicale che contraddice le stesse regole ‘puriste’ stabilite da Abramović al tempo del manifesto dell’Art vital: «Nessuna prova, nessuna ripetizione, nessuna fine predeterminata, niente ripetizioni» (The artist is present, 2010, p. 90). In seguito, come Kaprow, l’artista ha corretto il tiro: «le prime performance nei primi anni Settanta non erano nemmeno documentate perché la maggior parte di noi credeva che tutta la documentazione – video o foto – non potesse essere un sostituto dell’esperienza reale [...]. Più tardi il nostro atteggiamento è cambiato. Abbiamo sentito il bisogno di lasciare qualche traccia degli eventi a un pubblico più vasto» (7 easy pieces, 2007, pp. 9-11). Imprescindibile da questa strategia è sicuramente Seven easy pieces, agito al Guggenheim di New York nel 2005: un personalissimo compendio per exempla della storia della performance. Sette ‘pezzi facili’ presentati in sette giorni.
Abramović li ha rieseguiti e allo stesso tempo li ha interpretati, riproponendoli in una lunghezza standardizzata di sette ore, a prescindere dalla durata delle p. originali. Abramović ha reso omaggio ai grandi protagonisti della p. vivificandone la memoria: ha visualizzato le istruzioni originariamente fornite solo per iscritto in Body pressure (1974) da Bruce Nauman; ha risemantizzato al femminile la masturbazione prolungata di Seedbed (1972) di Vito Acconci; si è prestata alle istanze femministe di Action pants: genital panic (1969) di Valie Export; ha rilanciato l’estetica martirologica di Gina Pane in uno spossante The conditioning, first action to self portrait(s) (1973); è stata filologica nell’omaggio a Beuys di How to explain pictures to a dead hare (1965). Superbo l’omaggio a se stessa con la riproposizione di Lips of Thomas (1975), prima di concludere, l’ultimo giorno, con Entering the other side, l’unico pezzo realizzato ex novo dall’artista, a chiusura della serie. Con Seven easy pieces soprattutto, Abramović ha dettato in qualche modo le regole sul re-enactment: «Chiedere il permesso all’artista. Pagare il copyright all’artista. Agire una nuova interpretazione della performance. Esporre i materiali originali: fotografie, video, relitti. Esporre una nuova interpretazione della performance» (7 easy pieces, 2007, p. 11).
Innumerevoli i re-enactment attualizzati da artisti di generazioni successive, ispiratisi a celebri modelli, talvolta citati in maniera letterale, altre volte radicalmente modificati (alcuni esempi: Ron Athey, Yoshua Okón, Iain Forsyth e Jane Pollard, Mario Garcia Torres, Jonathan Monk, John Bock, Tania Bruguera, Trisha Donnelly, Ingar Dragset & Michael Elmgreen, Catherine Sullivan, João Onofre, Cildo Meireles, Allora & Calzadilla, Ed Atkins, Dominique Gonzalez-Foerster, Alexandra Pirici e Manuel Pelmuş). In questo modo, il re-enactment emerge dal gioco combinatorio di citazione e revisione/sovversione, cortocircuita epoche e forme di espressioni culturali differenti, dialettizza presente e passato, problematizzando sulle idee di traduzione, memoria e accessibilità dell’azione.
D’altronde, oltre la sua riproposizione ‘raffreddata’ nella documentazione, la sopravvivenza della p. è spesso anche al centro del dibattito critico e si pone come urgenza della curatela contemporanea.
Si vedano, a titolo esemplificativo, mostre come A little bit of history repente (a cura di Jens Hoffmann, Berlino, Kunst-Werke, 2001); Life, once more (a cura di Sven Lütticken, Rotterdam, Witte de With, 2005); Re-enactments (a cura di John Zeppetelli, Montréal, DHC/ART Foundation, 2008); il progetto in progress 11 rooms, organizzato la prima volta nell’ambito del Manchester International Festival e riproposto ogni anno, maggiorato di una stanza – a oggi 14 (a cura di Klaus Biesenbach e Hans Ulrich Obrist, Manchester, Essen, Sydney, Basilea, 2011-14). Il programma di re-performance dedicato a Vettor Pisani (a cura di Eugenio Viola, Napoli, Museo MADRE, Museo d’Arte contemporanea DonnaREgina, 2013-14), è stato il primo, in Italia, dedicato esclusivamente a quest’interessante sviluppo delle pratiche performative; e concepito come progetto parallelo per un’ulteriore indagine, nell’ambito della retrospettiva legata al lavoro dell’artista, per esplorarne la complessità dell’opera, attraverso una prospettiva fenomenologica inedita.
Il re-enactment risponde, dunque, alla necessità di diverse generazioni di pubblico, di assistere a un evento per la prima volta e attivare così una relazione empatica con le azioni di riferimento, riattualizzate attraverso la riproposizione. Il re-enactment si pone dialetticamente rispetto alle azioni originali, offrendo la possibilità di esperire, formalmente e contestualmente, nuove associazioni di pensiero e nuovi significati, nella consapevolezza che non si può assicurare un ritorno autentico a un determinato evento, in cui il tempo rimane comunque elemento fondamentale e costitutivo dell’azione. Il re-enactment mira dunque a creare un cortocircuito corporeo tra evento passato e presente, a sua volta passibile di potenziali infinite ricostruzioni che dichiarano il debito al modello di partenza; e se ne assume la responsabilità storica e morale, ne accetta la sfida e i rischi della sua attualizzazione risemantizzata nel presente, in cui l’atto performativo diventa presentazione dell’hic et nunc in un movimento reale e determinato dalla sua unicità performativa.
Bibliografia: A. Lepecki, Redoing 18 happenings in 6 parts, in Allan Kaprow. 18 happenings in 6 parts, hrsg. B. Rosen, M. Unterdörfer, catalogo della mostra, Monaco, Haus der Kunst, 2006,München 2006, pp. 45-50; R. Blackson, Once more... with feeling. Reenactment in contemporary art and culture, «Art Journal», Spring 2007, 66, 1, pp. 28-40; J. Santone, Marina Abramović’s Seven easy pieces. Critical documentation strategies for preserving art’s history, «Leonardo», 2008, 41, 2, pp. 147-52; E. Viola, The performance is present, in Marina Abramović. The Abramović method, 1° vol., Italian works, a cura di D. Sileo, E. Viola, Milano 2012, pp. 34-51; Perform, repeat, record. Live art in history, ed. A. Jones, A. Heathfield, Bristol 2012 (in partic. A. Jones, The now and the has been. Paradoxes of live art in history, pp. 11-25; A. Heathfield, Then again, pp. 27-35; R. Schneider, Performance remains, pp. 137-50); L. Meloni, Arte guarda arte. Pratiche della citazione nell’arte contemporanea, Milano 2013; E. Viola, Performance e Re-performance: il caso Marina Abramović, in Web performance today. Representation, reproduction, repetition, a cura di H. Egger, A. Triccoli, Cinisello Balsamo 2014, pp. 29-31; E. Viola, The body as an archive. Performance vs re-enactment and re-performance, in Karol Radziszewski. The prince and queens. The body as an archive, ed. E. Viola, Toruń, Centre of contemporary art, 2014-15, Toruń 2015, pp. 26-37.