PATRIMONIO
(fr. patrimoine; sp. patrimonio; ted. Vermögen; ingl. patrimony).
Sommario. - Patrimonio privato: Diritto romano (p. 515); Diritto moderno (p. 516). - Patrimonio pubblico (p. 516). - Patrimonio nazionale (p. 517). - Patrimonium principis (p. 519). - Patrimonio ecclesiastico (p. 519). - Patrimonio sacro (p. 520).
Patrimonio privato.
Diritto romano. - Il concetto di patrimonio, quando sorse, non andava al di là delle vere res, cioè delle res corporales. A grado a grado, però, questo concetto si ampliò fino a ricomprendervi tutti i diritti garantiti a un subietto per fini economici; e così il concetto abbracciò, oltre la res corporalis, cioè la cosa che appartiene in proprietà, anche i iura in re, cioè le servitù; poi i diritti di godimento sulla cosa che i Romani non riassumevano fra le servitù, cioè l'usufrutto, l'uso, l'abitazione; infine, i diritti di credito. L'ampliamento del concetto di patrimonio è rappresentato dal parallelo ampliarsi del concetto di res, che originariamente indicava soltanto le cose nel senso materialistico del termine e più tardi indica, invece, cose (res corporales) e diritti (res incorporales; Gaio, Inst., II, 12-14).
Il graduale ampliarsi del concetto di patrimonio è ancora nettamente afferrabile in un testo ulpianeo (Dig., L, 16, de vero. sign., 49): in bonis autem nostris conputari sciendum est non solum quae dominii nostri sunt, sed et si bona fide a nobis possideantur... aeque bonis adnumerabitur etiam, si quid est in actionibus petitionibus persecutionibus: nam haec omnia in bonis esse videntur. Rientra nel patrimonio anzitutto la res, di cui si ha il dominium; poi la res posseduta in buona fede; infine ogni diritto perseguibile con azione reale o personale.
Il patrimonio è indicato dai temini bona, res; più raramente nel diritto classico e più frequentemente nel diritto giustinianeo dai termini patrimonium, facultates; nel diritto giustinianeo anche dal termine substantia. I debiti si deducono da quel complesso di rapporti giuridici che rappresentano la situazione patrimoniale di un subietto. Bona intelleguntur ea quae aere alieno supersunt: questa, o frasi analoghe, ripetono i giureconsulti romani. I quali non comprendono nei bona nemmeno i diritti di garanzia reale o personale, che sono mezzi di difesa dei beni, non beni essi stessi.
Nell'ultima epoca del diritto romano la nozione del patrimonio si altera, in quanto che, per il dilatarsi del concetto di successione a tal segno da ricomprendere in questo concetto qualsiasi acquisto a titolo derivativo, si giustificano alcune conseguenze della successione ereditaria non riconducendole più al concetto giuridico genuino della successio, che si è alterato, ma riconducendole al concetto della successione in una universitas: in un tutto che comprende crediti e debiti. Così il patrimonio ereditario non si può più intelligere deducto aere alieno, ma comprende precisamente anche l'aes alienum, cioè i debiti. Il concetto germanico del patrimonio costituito dal solo attivo è prettamente romano e il diritto germanico vi è solo pervenuto nel Medioevo per influenza del diritto romano; il concetto del patrimonio che comprende i debiti è, invece, come P. Bonfante ha dimostrato, un concetto bizantino elaboratosi relativamente al patrimonio ereditario. Naturalmente questo nuovo concetto era destinato nei tempi successivi a generalizzarsi e, infatti, si generalizzò applicandosi a qualunque patrimonio.
Diritto moderno. - Il patrimonio (in senso giuridico) è l'insieme dei rapporti giuridici di una persona aventi valore economico, cioè valutabili in denaro, e comprende tanto i rapporti giuridici attivi (diritti) quanto quelli passivi (debiti), o, come si dice più semplicemente, l'attivo e il passivo. Parlandosi di complesso di beni o cose, si ha riguardo piuttosto al patrimonio secondo il concetto economico; prendendo in considerazione gli elementi attivi in concreto, in quanto appartengono a un soggetto, si ha il patrimonio detto lordo; considerando invece il valore dei detti elementi con detrazione del passivo, si ha il patrimonio netto. Nel patrimonio giuridico rientrano tutti i diritti patrimoniali, diritti reali e crediti, diritti effettivi e condizionali (se pur trattisi di condizione sospensiva ancora pendente), diritti alienabili e diritti non facilmente alienabili o inalienabili (per es., beni dotali, diritti d'uso, pensioni alimentari); diritti sopra cose corporali e cose incorporali (per es., diritti di autore); e il valore economico, di cui va tenuto conto, può essere valore di scambio o valore di uso, e secondo alcuni anche valore consuntivo (per es., biglietti di teatro o per concerto).
Dal punto di vista giuridico, e in particolare nelle disposizioni del codice civile italiano, prescindendosi dalla natura dei singoli beni, non si fa distinzione tra patrimonio mobiliare e immobiliare, materiale e immateriale, ecc., venendo il patrimonio inteso in complesso ("universalità di beni", "tutte le proprie sostanze", "tutti i beni", articoli 759, 760, 809, 1948, ecc.). Il patrimonio, così inteso, non è che una parte, benché la più importante, della cerchia dell'attività giuridica o sfera giuridica di un soggetto: questo, trattandosi specialmente della persona fisica, ha altri rapporti o diritti non aventi valore economico: oltre ai diritti pubblici, i diritti di famiglia, i diritti sulla propria persona (diritto alla vita, all'integrità fisica, all'onore, al nome, ecc.), se pur dalla violazione di tali diritti possa derivare, per via del risarcimento dei danni, una ragione patrimoniale. Il patrimonio non può, d'altro canto, comprendere che rapporti giuridici concreti: perciò ne restano escluse le semplici aspettative o previsioni, la potenzialità lavorativa e il credito (benché questi ultimi servano all'acquisto di nuovi beni).
Il patrimonio è universalità di diritto, cioè unità ideale e astratta, esistente indipendentemente dal suo contenuto, in quanto il complesso dei rapporti giuridici sia ricollegato a un determinato scopo; la finzione, che così si viene ad avere, non può risultare che dalla legge. Non basta a determinare la detta universalità di diritto l'esistenza del cosiddetto pegno generico a favore dei creditori sul patrimonio del debitore, poiché, se, giusta l'art. 1949 cod. civ., "i beni del debitore sono la garantìa comune dei suoi creditori, e questi vi hanno tutti un uguale diritto quando fra essi non vi sono cause legittime di prelazione", non si tratta di una garanzia reale e tanto meno di un diritto sopra un intero patrimonio, tanto è vero che il debitore può alienare i suoi beni, e l'alienazione fa cessare la garanzia (salva, nel caso di frode, l'azione revocatoria o pauliana), potendo i creditori chirografarî agire sui singoli beni sino a che essi appartengono al debitore. Nel sistema giuridico italiano si ha un'universalità di diritto, da tutti ammessa, nell'eredità, cioè nel patrimonio di una persona defunta, in cui subentra l'erede.
Si è discusso se tale carattere di universalità di diritto ci sia in altri patrimonî, aventi un particolare scopo o una speciale condizione. Analogamente all'eredità, la detta universalità ci sarebbe nel patrimonio di una persona giuridica estinta, avendosi anche qui una devoluzione di patrimonio a titolo universale. Si ammette pure che il patrimonio di una persona vivente si possa considerare universalità di diritto nella procedura di fallimento, poiché il patrimonio del fallito, almeno di fatto, sarebbe distaccato dalla persona di lui, venendo sottoposto a un'amministrazione speciale, quella del curatore, nell'interesse dei creditori e per il soddisfacimento delle loro ragioni.
Bibl.: F. Bianchi, Corso di codice civile italiano, I, Torino 1895, numeri 2-5, p. 7 segg.; C. Fadda e P. E. Bensa, note alla traduz. ital. del Diritto delle Pandette del Windscheid, I, i, Roma 1921, n. 183, p. 865 segg.; N. Coviello, Manuale di diritto civile italiano, I, 3ª ed., Milano 1924, pag. 251 segg.
Patrimonio pubblico.
Il patrimonio pubblico è il complesso dei beni pubblici che appartengono a una persona giuridica pubblica. Quando si parla, però, di patrimonio pubblico senza ulteriore specificazione, s' intende il patrimonio pubblico dello stato; non solo perché questo è di gran lunga più importante di quello dei comuni e delle provincie, ma perché l'ordinamento giuridico relativo al patrimonio pubblico è stato costituito, si può dire, per i beni pubblici dello stato.
Non è considerato come bene costitutivo del patrimonio pubblico il denaro. Al patrimonio si attribuisce il carattere di bene fisso. Il denaro invece, che lo stato percepisce specie mediante imposte e tasse, è immediatamente destinato alle spese pubbliche; è un bene essenzialmente circolante e il regime giuridico del denaro pubblico è il regime giuridico delle entrate e delle spese pubbliche, il regime del bilancio dello stato. Perciò il denaro pubblico costituisce una particolare categoria di beni pubblici. Il patrimonio pubblico è costituito invece, dai beni in natura che sono di pertinenza dello stato.
Non tutti i beni in natura, che allo stato appartengono, fanno parte del patrimonio pubblico, ma solo i beni che sono pubblici. Lo stato possiede beni, i quali hanno soltanto la funzione di fornire sotto forma di prezzo di alienazione, di corrisposte per locazione, ecc., un reddito, che serve per la soddisfazione di bisogni pubblici. Questi beni si dicono posseduti a titolo di privata proprietà, sono retti dalle stesse norme che reggono i beni dei privati (salvo alcune particolari disposizioni relative specialmente all'alienazione di essi), non sono beni pubblici e non fanno parte del patrimonio pubblico.
Si può dire, quindi, che il patrimonio pubblico è il complesso dei beni pubblici in natura, che sono di pertinenza dello stato (o delle provincie o dei comuni). Se si dovesse seguire la distinzione, che il codice civile introduce nei beni dello stato, si dovrebbe conchiudere che il patrimonio pubblico coincide con il demanio, perché i beni che costituiscono il patrimonio pubblico non sarebbero che i beni demaniali. Il codice civile, infatti, distingue i beni dello stato in demanio pubblico e beni patrimoniali (art. 426); e i beni patrimoniali, per il codice, sono quelli che lo stato possiede a titolo di privata proprietà. Invece la legge per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello stato (decreto-legge 18 novembre 1923, n. 2440) e il regolamento 23 maggio 1924, n. 827, distinguono i beni dello stato in beni demaniali, beni patrimoniali indisponibili e beni patrimoniali disponibili (articoli 1 e 2 della legge). I beni disponibili sono i beni patrimoniali del codice. I beni patrimoniali indisponibili sono i beni, che per la loro destinazione o per espressa disposizione di legge, non possono essere alienati o comunque tolti dal patrimonio dello stato (art. 9 del regolamento). I beni demaniali e i beni patrimoniali indisponibili sono le due categorie nelle quali si distinguono i beni pubblici, ossia i beni che costituiscono il patrimonio pubblico. Questi beni sono pubblici non semplicemente perché sono di pertinenza di un ente pubblico, ma perché sono dall'ente destinati a finalità di natura pubblica, finalità che può essere o l'uso diretto e immediato del bene da parte dei singoli (beni di uso pubblico) o l'uso di essi da parte dell'ente stesso per l'esplicazione di attività pubblica.
I beni pubblici che formano il patrimonio pubblico, non essendo limitati ai beni demaniali, comprendono non solo immobili, ma anche beni mobili. Al patrimonio pubblico appartengono tutti i beni che formano le diverse categorie del demanio: demanio fluviale, demanio stradale, demanio marittimo, demanio militare e demanio speciale dei comuni. Oltre ai beni demaniali appartengono al patrimonio pubblico: a) gli edifici pubblici, cioè gl'immobili destinati come sede dei servizî pubblici e degli uffici dello stato o di altri enti pubblici. Fanno parte del patrimonio pubblico anche la mobilia dei pubblici uffici e i materiali per servizî pubblici; b) i beni che costituiscono il patrimonio artistico, storico, archeologico, paleontologico, le biblioteche e le raccolte scientifiche; le collezioni di mobili, insomma, destinate al godimento e alla cultura della collettività; c) il cosiddetto demanio forestale; le ferrovie (linee, impianti fissi e materiale rotabile); le aziende o industrie esercitate dallo stato non per scopi di reddito. Lo stato può avere un'industria, per es., per ottenere il materiale necessario per i servizî pubblici che esso esercita, o per produrre, mantenendo antiche tradizioni, oggetti di valore artistico (R. Calcografia di Roma). Questi impianti appartengono al patrimonio pubblico perché sono beni patrimoniali indisponibili; d) gl'immobili e mobili destinati alla gestione di un'industria monopolizzata; e) i beni che costituiscono la dotazione della corona (palazzi, mobilia e collezioni artistiche), attribuiti in godimento al re, i quali sono beni patrimoniali indisponibili dello stato; f) quanto alle miniere, in seguito al r. decr. 29 luglio 1927, n. 1443, che ha unificato la legislazione mineraria, il diritto riconosciuto allo stato è il diritto di concessione della ricerca e della coltivazione di una miniera, diritto di carattere reale sul sottosuolo di proprietà privata. Si discute se sia un diritto di natura demaniale o patrimoniale; siccome, però, dallo stato non può essere alienato ed è destinato a scopo pubblico, è certamente un diritto che ha natura di bene pubblico e, come tale, appartiene al patrimonio pubblico.
Qual'è la natura del diritto che spetta allo stato sui beni del patrimonio pubblico? V'è chi ritiene che sia un puro diritto di proprietà, che viene a essere, però, una proprietà potenziale per la destinazione del bene allo scopo pubblico. Altri ritiene che sia un diritto d'impero di natura essenzialmente pubblicistica. Si può osservare che nel rapporto entrano elementi del diritto d'impero ed elementi del diritto di proprietà; per cui il rapporto è da altri definito come una proprietà pubblica, cioè un rapporto reale regolato da norme diverse da quelle che valgono per la proprietà privata. Dal carattere che questi beni hanno d'essere destinati a uno scopo pubblico, deriva la loro inalienabilità mentre dura tale destinazione. Dalla destinazione al pubblico scopo si può dedurre anche la loro imprescrittibilità. Per altri, invece, sono inalienabili e imprescrittibili i soli beni demaniali, mentre i beni patrimoniali indisponibili, pur essendo inalienabili, sono prescrittibili. Per l'amministrazione dei beni appartenenti al patrimonio pubblico la ricordata legge 18 novembre 1923, n. 2440, sulla contabilità generale dello stato, dispone (articoli 1 e 2) che all'amministrazione degl'immobili provvede il Ministero delle finanze, a cura del quale si deve formare l'inventario di tutti i beni immobili di pertinenza dello stato, mentre ciascun ministero provvede all'amministrazione dei beni mobili assegnati a uso proprio o di seruizî da esso dipendenti, dei quali beni deve far compilare l'inventario.
V. anche le voci demanio e Proprietà: Proprietà pubblica.
Bibl.: S. Romano, Princ. di dir. amm. it., 3ª ed., Milano 1912, p. 458 segg.; G. Ingrosso, Il patrimonio dello stato, in Arch. giur. s. 4ª, XVIII (1929), p. 57 segg.; id., Il regime giuridico dei beni pubblici, in Riv. it. per le scienze giur., V (1930), p. 415 segg.; C. Vitta, Diritto amm., I, Torino 1933, p. 223 segg.; E. Guicciardi, Il demanio, Padova 1934, p. 115 segg.
Patrimonio nazionale.
Con questo termine si designa l'insieme dei patrimonî netti appartenenti agl'individui, alle persone giuridiche di diritto privato e agli enti pubblici che compongono una data nazione; il patrimonio nazionale si distingue pertanto dalla "ricchezza nazionale" dal "capitale nazionale" e "dalla potenza economica nazionale", termini tutti che spesso si usano in sua vece ma che hanno diverso significato. Ricchezza nazionale è infatti ogni sorta di beni economici esistenti in un dato momento in una nazione, considerati nella semplice loro relazione di stato, indipendentemente dai rapporti personali di proprietà e di possesso e da quelli di destinazione economica. Capitale nazionale è l'insieme dei beni prodotti che vengono destinati a nuove produzioni nella nazione. Potenza economica è l'insieme dei beni di cui possono disporre gl'individui di una stessa nazione, includendo tra essi beni anche la potenza non utilizzata di credito verso l'estero.
A seconda dei varî significati del vincolo di "appartenenza" si può poi comprendere nel termine "patrimonio nazionale" un numero maggiore o minore di beni. In primo luogo, per chi contempla l'appartenenza esclusivamente nei riguardi giuridico-economici, come condizione del diritto di proprietà, patrimonio e proprietà diventano termini correlativi; quindi dovrebbero essere considerati solo quei beni esterni sia materiali sia immateriali che sono suscettibili di essere trasferiti e scambiati e che perciò sono valutabili in moneta. Pertanto il patrimonio nazionale resterebbe composto dei patrimonî privati nell'accezione comune di questo termine data dalla ragioneria, e inoltre di quelli pubblici, comprendendo però in questi ultimi solo i beni aventi un valore economico di scambio certo o possibile (come sarebbero gli edifici pubblici, le ferrovie, i canali, gli acquedotti, il patrimonio artistico, le strade, le fortificazioni, le navi da guerra, le bonifiche), con quelle opportune cautele che sono necessarie a evitare un doppio calcolo della medesima ricchezza (in quanto, infatti, andrebbero in ogni caso tolti i debiti pubblici che sono il corrispettivo dei beni pubblici esistenti).
Secondo un'altra interpretazione, si può prescindere dal fatto che i beni abbiano o meno un valore di scambio certo o possibile, per guardare invece ad ogni bene che arreca un'utilità generica, qualunque perciò sia il vincolo di appartenenza e il modo con cui questo è sorto. In siffatto caso sarebbero comprese nei patrimonî privati anche le cosiddette "ricchezze personali", che sono rappresentate dalle facoltà personali e dalle qualità industriali della popolazioni (qualità di musico, professore, tecnico, ecc.), mentre in quelli pubblici figurerebbero anche quei beni che pur essendo liberi doni della natura sono in qualche modo o posseduti o amministrati dallo stato. Tali sarebbero, ad esempio, il lido del mare, i fiumi e perfino il clima, la forza dei venti, le piogge, il calore. A questi beni alcuni aggiungerebbero anche il valore del popolo; computo questo assai dubbio, giacché, se ha significato nelle economie schiaviste nelle quali si può calcolare il valore dello schiavo, esso non ne ha alcuno in quelle libere, dove il valore dell'uomo è preso in considerazione solo nei problemi dell'emigrazione e dell'assicurazione.
Una terza interpretazione infine del patrimonio nazionale, degna di essere ricordata, è quella per cui si comprendono in esso anche gli elementi non materiali di utilità, che possono essere posseduti soltanto da una nazione, come i prodotti letterarî, le invenzioni, l'eccellenza del sistema giudiziario, creditizio, amministrativo, e persino il tipo di ripartizione dei beni-capitale e dei redditi. Quale di queste tre interpretazioni sia la migliore è questione talvolta di semplice convenienza. Tuttavia la pratica ha consigliato e consiglia sempre più la prima, in quanto con meno arbitrio essa permette di valutare, in base al valore economico, gli elementi positivi e negativi del patrimonio nazionale.
L'entità del patrimonio nazionale è in funzione di due variabili: il numero dei beni e il loro valore. La prima dipende a sua volta dal lavoro annuale della nazione, ossia, come disse A. Smith, deriva tanto dall'abilità, dalla destrezza, e dal giudizio con cui il suo lavoro in generale è adoperato" quanto "dalla proporzione tra il numero di coloro che sono impiegati in un utile lavoro, e coloro che non lo sono. Qualunque sia il suolo, il clima, e l'estensione del territorio di una nazione, l'abbondanza o la scarsezza della sua annuale provvigione dipende immancabilmente, in quanto a quelle sue peculiari condizioni, da quelle due circostanze".
Il solo nuihiero dei beni esistenti in una nazione non è tuttavia sufficiente per giudicare dell'importanza del patrimonio nazionale; e infatti ora non v'è più chi non veda la strettissima relazione tra entità patrimoniale e valore dei beni. Se, ad es., i bisogni di una nazione, quanto a calorico, diminuissero improvvisamente, mentre la somma dei beni rimanesse costante, verrebbe anche a scemare il valore d'uso del carbone della corrente elettrica a uso di riscaldamento, dei vestiti pesanti, ecc.; e perciò, ove questi beni non potessero in nessun caso essere esportati, anche il loro valore di scambio scemerebbe; onde il patrimonio nazionale sarebbe in tal caso diminuito e non aumentato. Parimenti, eve aumentassero soltanto i bisogni di una nazione e restassero costanti i beni, oppure ove aumentassero questi bisogni con un saggio di acerescimento superiore a quello dei beni, il patrimonio nazionale risulterebbe aumentato.
L'entità del patrimonio di una nazione è dunque un dato relativo al numero dei beni esistenti e al loro valore (cioè ai bisogni). Questo fatto spiega perehé molto spesso non sia possibile confrontare il patrimonio di due nazioni, e anche perché possa facilmente accadere di valutare una nazione più o meno ricca di quel che essa non sia. Consideriamo, ad es., due nazioni aventi bisogni in tutto e per tutto identici. Se la somma dei beni componenti il patrimunio netto della prima supera la somma della seconda, si potrebbe giustamente dire che il patrimonio nazionale della prima è superiore; ma se i bisogni sono diversi, può avvenire che ciò che sarebbe parte del patrimonio per una non lo sia in fatto per l'altra, perché la mancanza dei bisogni di calorico, ad es., riduce a zero il valore d'uso degli oggetti che a questo fine sono destinati nella prima nazione. Affermare che una nazione ha una somma di beni superiore a quella di un'altra riesce perciò poco soddisfacente ove non si tenga conto dei bisogni da soddisfare. Vi sono poi paesi che abbondano di ricchezze gratuite e che tuttavia hanno patrimonî relativamente scarsi (es., il sole per l'Italia), e altri in cui ogni ricchezza si può dire onerosa e pertanto entra a far parte del patrimonio nazionale, sebbene il bisogno a cui si sopperisce sia quello medesimo che nei primi paesi viene soddisfatto gratuitamente. Analogamente va detto per i confronti nel tempo. "Può darsi - disse a questo proposito M. Pantaleoni - di trovare nell'inventario di una nazione, un secolo fa, una moltitudine di ricchezze che ora non si conoscono più e di trovare nell'inventario attuale della medesima una folla di ricchezze nuove. A epoche più brevi cotesta difficoltà assume la forma di modificazioni nella qualità di ricchezze, che hanno ancora lo stesso nome e conservano taluni caratteri originarî, in modo da appartenere ancora allo stesso genere, ma da costituire già diversa specie". Come regola generale, dunque, i raffronti si possono fare solo ove nel tempo i fabbisogni restino approssimativamente eguali e ove, pure, approssimativamente siano identici i fabbisogni delle diverse nazioni i cui patrimonî vengono nel medesimo momento raffrontati.
La valutazione dei beni compresi nel patrimonio nazionale si può fare seguendo varî metodi. Ma prima di parlarne occorre accennare ad alcunì altri criterî generali da tenere presenti nella valutazione. Anzitutto si possono trascurare nel calcolo i debiti e i crediti interni, dato che essi si compensano. Si devono invece calcolore l'avviamento e il valore del monopolio di un'impresa, giacché codesti valori, puramente individuali, hanno per contropartita il minor valore delle imprese rurali e del potere di acquisto dei compratori dei beni oggetto di monopolio. In secondo luogo, ove nei patrimoni privati non si conteggiassero i titoli pubblici interni posseduti dagl'individui, occorrerebbe valutare i rimanenti beni per l'utilità che avrebbero se non fossero gravati dall'imposta corrispondente agl'interessi dei debiti pubblici suddetti; ove invece questa parte della ricchezza privata venisse valutata per il suo valore corrente, occorrerebbe aggiungere i titoli pubblici. Un secondo criterio importante è quello discusso in particolare da C. Gini. Cioè per ottenere il patrimonio complessivo di un paese bisogna aggiungere al valore di scambio dei patrimonî privati il valore dei beni pubblici per quella parte soltanto la cui utilità non va a incrementare il valore dei patrimonî privati. Per es., il patrimonio militare accresce la sicurezza generale, e per conseguenza il valore dei patrimonî privati: quindi si dovrebbe, almeno in teoria, includere nel patrimonio pubblico solo quella parte che non s'accresce ai patrimonî privati.
Maggiori difficoltà vi sono per la stima dei beni pubblici inalienabili e per quelli che di regola non sono mai messi in vendita. Per questi beni evidentemente non si potrebbe che parlare di stime basate sul valore di uso, o su quello di costo, o su quello di riproduzione. Quanto alla moneta, in primo luogo si deve escludere dal calcolo la moneta creditizia e bancaria, che invece è compresa quando si calcolano soltanto i patrimonî privati. Quanto alla valuta metallica, se essa si trova tutta in circolazione, è ovvio che a lungo andare un ammontare doppio o triplo, o eguale a un terzo o alla metà di quello attuale, non modifica i beni della nazione; e perciò non se ne dovrebbe tener conto. Ma per brevi periodi può accadere il contrario, e cioè che il cambiamento del suo ammontare possa in verità accrescere o diminuire gli altri beni, e allora in questo caso occorrerebbe tenerne conto in qualche modo. Se invece la moneta è tesaurizzata, essa costituisce un bene che va computato nel patrimonio nazionale.
Un primo metodo di valutazione del patrimonio nazionale è quello dell'inventario, che si può applicare seguendo il criterio personale o reale; ossia calcolando e sommando i singoli patrimonî, ovvero calcolando e sommando i valori delle varie categorie di beni, indipendentemente dal loro vincolo di appartenenza. Questo metodo è applicabile però solo ove esistano censimenti patrimoniali tanto per le singole persone private quanto per le pubbliche. In Italia tali inventarî mancano a tutt'oggi, sebbene i recenti catasti agrarî e forestali e i censimenti industriali abbiano colmato più di una lacuna. Risultati attendibili furono ottenuti con il metodo dell'inventario per la Francia da P. Leroy-Beaulieu e da A. de Foville e poi da C. Colson e da V. Turquan; per la Germania (ricchezza nazionale) dallo Steinmann-Buecher; per la Svezia da P. Fahlbeck; e per gli Stati Uniti d'America dall'Ufficio americano del censimento.
Un altro metodo è quello della capitalizzazione dei redditi, che consiste nel moltiplicare, in base a diversi coefficienti di capitalizzazione, i varî tipi di redditi presi complessivamente e rilevati col criterio reale o personale già spiegato. Con questo metodo, tipicamente inglese, il Giffen determinò il patrimonio nazionale della Gran Bretagna e dei Dominions.
Terzo metodo è quello dell'intervallo devolutivo, che si può applicare alle trasmissioni a titolo sia oneroso (inter vivos) sia gratuito (mortis causa). Con questo metodo si deve:1. calcolare quanti beni vengono trasmessi a titolo oneroso (o gratuito) in un certo tempo, 2. calcolare il tempo (intervallo) medio tra due trasmissioni dello stesso bene (durata presso i singoli o durata della generazione); 3. moltiplicare il primo valore per l'intervallo suddetto. Questo metodo, che si deve soprattutto al De Foville, fu seguito particolarmente in Francia e per questo motivo è conosciuto come il metodo francese. In Italia il metodo dell'intervallo devolutivo trovò un largo stuolo di studiosi che lo fecero proprio (M. Pantaleoni, L. Bodio, L. Einaudi, R. Benini, F. S. Nitti, F. Coletti, C. Gini, ecc.) e vi fu anche migliorato nella tecnica.
Quarto metodo è il metodo dei moltiplicatori, che consiste nel determinare dapprima, con uno dei metodi visti in precedenza, il valore di certe categorie di beni e dividere quindi questo valore per il valore delle corrispondenti categorie dei beni trasmessi a titolo gratuito. Questi quozienti - tanti quante sono le categorie - costituiscono i moltiplicatori, cioè i valori i quali moltiplicati per l'ammontare dei beni trasmessi per successione, o a titolo gratuito, dànno il valore dei beni di un paese. A questo metodo ricorsero, in Italia, il Gini e il Benini.
Ultimo metodo degno di menzione è quello della proporzione tra patrimonî trasmessi a titolo oneroso (o gratuito) e patrimonio totale. Con esso, stabilito il rapporto tra i beni trasmessi in uno dei due modi suddetti e tutti i beni, in base ai dati dei primi si ottiene il valore dei secondi. Un tale metodo fu adottato da varî statistici inglesi, tra cui A. L. Bowley.
Tutti i metodi ora descritti presentano varî inconvenienti e, se non fosse l'impossibilità di trovarne di più adeguati, converrebbe scartarli come troppo incerti e approssimati. In generale essi lasciano in disparte, per un motivo o per un altro, varie categorie di beni che andrebbero invece computate. Si sono, è vero, stabiliti certi coefficienti di evasione e d'incertezza per misurare le frodi del contribuente e le omissioni derivanti da altre ragioni, ma nulla v'ha di più imprecisabile della loro entità e difficilmente in avvenire si potranno avere computi molto più esatti di quelli attuali. Il metodo più raccomandabile è quello diretto della valutazione con l'inventario in base al valore di scambio effettivo o presunto. Con esso infatti non si richiedono né le introspezioni presupposte dagli altri metodi per giudicare le utilità attribuite dai singoli agli oggetti del loro patrimonio, né la determinazione (in modo che non può che essere largamente arbitrario) dei varî saggi d'interesse effettivi necessarî per effettuare le capitalizzazioni. Occorre sempre nondimeno tenere presente che i valori di scambio (monetarî) misurano solo le utilità marginali e non quelle totali. Degno di nota è in ogni caso poi il suggerimento dato dall'economista inglese F. Edgeworth di correggere l'imperfezione propria delle misure monetarie ricorrendo ai numeri indici.
Resta infine da esaminare il patrimonio nazionale sotto l'aspetto della sua ripartizione territoriale. La varietà della morfologia territoriale, del clima e dell'organizzazione economica, e più ancora del tipo umano e dello status politico e sociale, spiega perché esistano in pressoché tutti i paesi marcatissime differenze regionali nell'ammontare del patrimonio. Questo studio fu fatto in Italia soprattutto dal Pantaleoni, dal Nitti e dal Gini (tutti tre impiegando il metodo indiretto e limitandosi a larghe suddivisioni territoriali), e poi da F. Savorgnan che si basò sul metodo dell'intervallo devolutivo. Per alcune regioni sono ancora da ricordare i calcoli di G. Zingali e di L. Franciosa. Di recente, a opera della scuola di scienze politiche dell'università di Padova, si sono iniziate rilevazioni dirette del patrimonio nazionale distinto per provincie.
Ecco alcuni dati sull'ammontare del patrimonio nazionale di alcuni fra i più importanti paesi: tali dati, come quelli della tabella seguente, devono essere interpretati tenendo conto delle variazioni monetarie:
Per l'Italia il calcolo del Pantaleoni faceva ascendere l'ammontare del patrimonio nazionale (ricchezza totale) nel 1884 a 48 miliardi di lire d'allora contro 55 miliardi di ricchezza privata. In seguito varî statistici eseguirono numerosi calcoli in diverse epoche come risulta dal seguente prospetto. Alcuni di questi calcoli sono largamente approssimativi.
Secondo il Mortara la cifra di 400 miliardi per il 1928 crescerebbe a 450 miliardi ove si tenesse conto esclusivamente dei patrimonî privati, la differenza stando a rappresentare il credito netto dei privati verso le aziende pubbliche. Secondo lo stesso Mortara il patrimonio nazionale italiano al 1928 risultava composto nel seguente modo:
Bibl.: M. Pantaleoni, Principii di economia pura, Firenze 1889; id., Dell'ammontare probabile della ricchezza privata in Italia dal 1872 al 1889, e Delle regioni d'Italia in ordine alla loro ricchezza, ecc., in Scritti varii di economia, s. 3ª, Roma 1910; G. Sensini, Le variazioni dello stato economico d'Italia, ivi 1904; F. S. Nitti, La ricchezza dell'Italia, Torino-Roma 1905; L. Princivalle, La ricchezza privata in Italia, Napoli 1909; C. Gini, L'ammontare e la composizione della ricchezza delle nazioni, Torino 1914; id., A Comparison of the Wealth and National Income of Several Nations, Roma 1925; K. Helfferich, Volksvermögen, ecc., in Weltpolitik und Weltwirtschaft, 1925; E. Rogowski, Das deutsche Volkseinkommen, Berlino 1926; G. Mortara, La ricchezza nazionale, ecc., in Movimento economico dell'Italia, Milano 1928; G. Ferrari, La ricchezza privata della provincia di Vicenza, Padova 1931; G. Pietra e G. Ferrari, Ricchezza e reddito delle nazioni, Milano 1933; G. Lasorsa, La ricchezza privata della provincia di Venezia, Padova 1934; A. Da Polzer, La ricchezza privata della provincia di Rovigo, ivi 1934. Per una più larga bibliografia, si vedano le indicazioni bibliografiche contenute nelle opere del Gini e del Ferrari, nonché quelle poste in appendice all'articolo di J. C. Stamp, Methods used in different countries for estimating national income, in Journal of the Royal Statistical Society, settembre 1934.
Patrimonium principis.
Massa di beni appartenenti alla corona, che nel corso dell'età imperiale romana si viene differenziando, in maniera non ancora del tutto chiarita, così dai veri e proprî beni dello stato come da quelli fiscali.
È certo, infatti, che il patrimonio è diverso dall'erario e dal fisco. L'avvento del principato fece sì che alla finanza statale, amministrata dalle superstiti magistrature repubblicane e avente come sua cassa lo aerarium populi Romani, si aggiungesse, con proprie entrate e uscite, la cassa dell'imperatore, fiscus Caesaris: come tutto lo svolgimento politico successivo condusse a rendere vieppiù figurativi e inefficaci gli organi e le funzioni ereditate dalla repubblica, così anche in materia finanziaria, per effetto di successive riforme di Claudio, di Vespasiano, di Adriano, di Settimio Severo, l'attività del fisco assorbì sempre più le competenze già spettanti all'erario, in modo da rimanere nella monarchia dioclezianeo-costantiniana unica vera cassa pubblica. Benché, conformemente a tutta la terminologia del nuovo diritto pubblico, il fisco sia sempre descritto come appartenente a Cesare, ciò vale solo nel senso in cui stato e principe s'identificano, cioè in quanto il concetto stesso di stato è per gli antichi inafferrabile appena si esca dall'organizzazione tipica della πόλις: ma nessuno ha mai dubitato della destinazione delle entrate e dei beni fiscali alle pubbliche spese.
Il patrimonio, invece, appartiene all'imperatore in un senso molto più intimo e personale. La sua origine è proprio conforme al diritto privato: come viene favorita (e per l'Egitto ne abbiamo prove sicure nei papiri del primo secolo dell'impero) la formazione di una grande proprietà fondiaria nelle mani delle famiglie abbienti delle varie provincie, così si creano vaste tenute appartenenti non già all'imperatore (il che avrebbe facilmente prodotto una confusione col fisco), bensì ai membri della famiglia imperiale, e soprattutto alle donne: vale quanto dire che su questi beni la successione si apriva secondo le norme del diritto privato, senza nessuna connessione con l'attribuzione del titolo d'imperator. Ma a partire da Vespasiano anche queste tenute, dette οὑσίαι e amministrate da particolari funzionarî (procuratores usiaci), sono intestate all'imperatore stesso e si trasmettono con la corona, come costituenti un appannaggio del principe in quanto tale: per il sec. II d. C., questo carattere di beni della corona è indubitato.
Molto più discusso è il rapporto che si stabilisce, soprattutto da Settimio Severo in poi, fra il patrimonium e la cosiddetta res privata. Secondo una dottrina che fu in voga alla fine del secolo XIX e che conta anche ora seguaci autorevoli, le parole res privata dovrebbero essere intese nel loro significato letterale; designerebbero cioè i veri e proprî beni privati, trasmissibili agli eredi legittimi e testamentarî, e perciò del tutto separati dai beni della corona. Secondo un'altra dottrina, ora prevalente, la relazione fra i due gruppi di beni è diversa: in realtà, res (o ratio) privata è una traduzione del greco ἵδιος λόγος, con la quale espressione già nell'Egitto tolemaico, modello tante volte imitato dall'amministrazione imperiale romana, si designava una speciale cassa, le cui entrate più importanti erano costituite da beni confiscati ai sudditi, mentre non sappiamo se l'erogazione andasse fatta per uno o altro fine particolare. Certo gl'imperatori hanno conservato questa cassa speciale, fino a chiamare il funzionario che in ciascuna provincia vi era preposto col nome latinizzato di idiologus, e certo, come un prezioso papiro della collezione di Berlino testimonia, le confische ne rimasero la principale fonte: se, come pare più probabile, il procuratore della res privata non è altro che il continuatore dell'opera dell'idiologo, la cassa affidatagli non può essere considerata altrimenti che come una sezione del fisco. Di fronte a questo, il patrimonium resta invece concettualmente autonomo, conservando la sua funzione di appannaggio della corona; sennonché l'uso di affidarne la tutela al procuratore della res privata, insieme con il livellamento che l'assolutismo porta fra tutte le istituzioni che in una o altra maniera fanno capo al principe, produce spesso confusioni fra i varî gruppi di beni.
Dei beni patrimoniali se ne trovano in ogni parte dell'impero (una diligente rassegna attraverso le fonti epigrafiche ne ha fatta il Lécrivain): essi vengono temporaneamente concessi in enfiteusi ai privati, anzi è proprio riguardo ad essi che l'istituto dell'enfiteusi è acculto nel diritto romano (v. enfiteusi).
Bibl.: O. Hirschfeld, Die kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Diokletian Berlino 1905; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, I, Lipsia 1885, pagina 505 segg.; Ch. Lécrivain, Patrimonium principis, in Daremberg e Saglio, Dict. des antiquités grecques et rom., IV, i, p. 350 segg.; W. Liebenam, Res privata, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I, col. 631 segg.; L. Mitteis, Zur Geschichte der Erbpacht im Altertum, in Abhandlungen sächs. Akad., XX (1901), p. 42 segg.; id., Römisches Privatrecht, I, Berlino 1908, p. 351 segg.; M. Rostovzev, Fiscus, in E. De Ruggiero, Dizionario epigr., III, Roma 1922, p. 96 segg., e in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VI, col. 2385 segg.; id., Storia econ. e soc. dell'Impero romano, trad. G. Sanna, Firenze 1933, pp. 337 segg.; F. E. Vassalli, Concetto e natura del fisco, in Studi senesi, XXV (1908), specialmente pagina 27 segg.; U. Wilcken, Grundzüge der Papyruskunde, I, Lipsia-Berlino 1921, pagina 154 segg.
Patrimonio ecclesiastico.
Patrimonio ecclesiastico in senso lato si può dire il complesso dei beni temporali destinati al conseguimento degli scopi della Chiesa; in senso stretto è il complesso dei beni appartenenti alla Chiesa o ai singoli enti ecclesiastici. Essenzialmente in questo secondo senso esso forma oggetto delle norme speciali, e del diritto canonico e di quello statuale, che mirano a disciplinarne l'esistenza e l'amministrazione; sono tuttavia innestate a tali norme, in entrambi i sistemi, disposizioni che considerano anche beni facenti parte del patrimonio ecclesiastico solo in lato senso e cioè appartenenti a privati o a persone giuridiche non ecclesiastiche.
Per la storia della costituzione e dello sviluppo del patrimonio ecclesiastico, v. ecclesiastici, beni.
La posizione giuridica di favore accordata dal tardo impero romano al patrimonio ecclesiastico, favore che seguitò e si andò allargando anche in seguito, nell'età barbarica, portò durante il Medioevo la potenza economica della Chiesa a grandissimo sviluppo, così da determinare forti reazioni delle autorità civili. Concorsero a determinare tale reazione, in varia misura e influenzandosi reciprocamente, esigenze economico-sociali e politiche e tendenze anticlericali ed ereticali: le quali trovarono anche espressione nelle discussioni intorno alla cosiddetta questione della "povertà evangelica" (v.). Le cosiddette leges de amortizando, con le quali i beni ecclesiastici si sottoponevano al diritto comune, quando non erano soggette a un regime speciale di sfavore, o addirittura si procedeva al loro incameramento, rappresentano una lunga serie di episodî della lotta contro la manomorta ecclesiastica, che in Italia culminò poi con le leggi eversive del sec. XIX (v. asse ecclesiastico; manomorta, ecc.).
Gli elementi che costituiscono il patrimonio ecclesiastico derivano da un doppio ordine di fonti: le contribuzioni spontanee, le imposte e tasse ecclesiastiche. Fra esse di gran lunga più importanti sono le prime; queste costituiscono una delle più salienti caratteristiche del regime patrimoniale della Chiesa avente a sua base, diversamente da quello che avviene negli stati, soprattutto le oblazioni o disposizioni a titolo gratuito dei fedeli.
Il Codex iuris canonici (c. 1513-1517) stabilisce che chiunque sia capace di disporre liberamente dei suoi beni secondo il diritto naturale ed ecclesiastico possa lasciarli ad pias causas sia per atto fra vivi sia per atto di ultima volontà; l'esecuzione delle volontà pie deve essere curata diligentissimamente, ed è affidata agli ordinarî che devono vigilare, anche a mezzo di visite, sul loro adempimento. Tale vigilanza si deve esplicare anche quando le disposizioni ad pias causas avvengano a mezzo di fiducie; perciò il chierico o religioso, che abbia ricevuto fiduciariamente i beni, è obbligato a informarne l'ordinario, il quale deve a sua volta esigere che i beni fiduciarî siano collocati al sicuro. La riduzione, la diminuzione e la commutazione delle ultime volontà, che non si deve fare se non per causa giusta e necessaria, è riservata alla Santa Sede, salvo che il disponente vi abbia espressamente autorizzato l'ordinario. Oltre le disposizioni a titolo gratuito dei fedeli, a cui si devono aggiungere le oblazioni fatte isolatamente o in occasione di questue o collette, rientrano nella categoria delle contribuzioni spontanee anche quelle eventuali degli stati a favore di istituti o di funzionarî ecclesiastici.
L'altra fonte del patrimonio ecclesiastico è rappresentata dalle imposte e tasse ecclesiastiche. Esse sono principalmente: le decime (v. decima: Le decime ecclesiastiche), la cui importanza è oggi pressoché minima, essendo la loro riscossione rimessa alle leggi e alle consuetudini locali (c. 1502); i cosiddetti diritti di stola, o tasse pagate dai fedeli (con esenzione dei poveri) per funzioni di culto e somministrazione di sacramenti (esclusi l'eucaristia, la confessione e l'estrema unzione), e le tasse dovute per servizî speciali (di cancelleria, giudiziarie, ecc.) ai varî uffici ecclesiastici.
Considerato nella sua sostanza, il patrimonio ecclesiastico è costituito dai fondi, dagli edifici e dalle cose tutte destinate al raggiungimento dei fini della Chiesa, e che si designano genericamente come bona ecclesiastica, o res ecclesiasticae in senso largo. Queste si suddistinguono poi in res sacrae, che sono quelle che servono immediatamente al culto divino (v. cosa sacra), e in res ecclesiasticae in senso stretto.
Le cose ecclesiastiche in senso stretto, che servono mediatamente, cioè, per la loro utilità patrimoniale, agli scopi della chiesa, sono tutte le cose non consacrate e non benedette, beni mobili e immobili, che formano la dotazione degli enti ecclesiastici: fra esse hanno notevole importanza quelle appartenenti ai benefici ecclesiastici (v. beneficio: Beneficio ecclesiastico; fondazione ecclesiastica).
Quanto al soggetto del patrimonio ecclesiastico - argomento in passato assai controverso, essendosi sostenuto volta a volta che proprietarî di esso siano Dio, singoli santi, i poveri, la chiesa universale, il papa, le comunità dei fedeli, i singoli istituti ecclesiasticì -, il diritto vigente ribadisce anzitutto il principio che la Chiesa universale e la Santa Sede hanno come diritto naturale (nativum ius) la capacità di acquistare, di possedere e amministrare, liberamente e indipendentemente dalla potestà civile, beni temporali per il perseguimento dei proprî fini (can. 1495, §1; cfr. la prop. 26 del Sillabo).
Riconosce poi anche il diritto di acquistare, possedere e amministrare a norma dei sacri canoni, alle singole chiese e agli altri istituti eretti in persona giuridica dall'autorità ecclesiastica (c. 1495, § 2), ai quali peraltro tale dominio appartiene sub suprema auctoritate Sedis Apostolicae (c. 1499), dichiarandosi inoltre il pontefice supremo amministratore e dispensatore dei beni ecclesiastici (c. 1518).
Praticamente l'amministrazione dei beni ecclesiastici dipende direttamente in ogni diocesi dall'ordinario, sia per la vigilanza, l'ispezione e il controllo sull'opera degli amministratori dei singoli enti, sia per l'alta direzione e organizzazione di tutto quanto si riferisca a tale amministrazione (can. 1519).
Le modalità dell'amministrazione della proprietà ecclesiastica, a cui talora partecipano anche elementi laici (v. fabbriceria), e le condizioni del suo possesso e degli atti di disposizione relativi, sono nei diversi paesi naturalmente subordinate alla situazione giuridica creata dalle legislazioni locali in materia di rapporti fra Stato e Chiesa in genere, e di istituti e beni culturali in particolare. In Italia, in seguito al concordato dell'11 febbraio 1929, nel quale si stabilisce che la gestione dei beni degli enti ecclesiastici ha luogo sotto la vigilanza dell'autorità ecclesiastica escluso ogni intervento dello Stato (art. 30), la Santa Sede ha emanato speciali norme (circolare 20 giugno 1929 della Congregazione del concilio) che organizzano particolareggiatamente le modalità di amministrazione dei beni ecclesiastici e l'esercizio del controllo su di essa.
Per il diritto dello stato, in Italia, v. ecclesiastici, beni.
Bibl.: Oltre ai commenti al libro III, p. VI, del Codex Iuris Canonici, e le trattazioni generali di diritto canonico ed ecclesiastico con l'ampia letteratura richiamata in esse, e specialmente in U. Stutz, Kirchenrecht, in Enziklopädie der Rechtwissenschaft, 7ª ed., di Holtzendorff e Kohler, Lipsia 1914, V, paragrafi 20, 34, 101-106, e in A. Galante, Man. di dir. eccles., 2ª ed., Milano 1923, p. 439 seg.; v. per la storia: M. Roberti, Le associazioni funerarie cristiane e la proprietà ecclesiastica nei primi tre secoli, in Studi per P. P. Zanzucchi, Milano 1927, p. 89 segg.; G. M. Monti, I collegia tenuiorum o la condizione giuridica della proprietà ecclesiastica nei primi tre secoli del Cristianesimo, in Studi in onore di S. Riccobono, III, Palermo 1933; per il sistema: E. Vromant, De bonis Ecclesiae temporalibus, Lovanio 1927; N. Hilling, Das Sachenrecht des Cod. iur. can., Friburgo in B. 1928; M. Pistocchi, De bonis Ecclesiae temporalibus, Torino 1932; R. Iacuzio, Commento della nuova legislazione ecclesiastica con prefazione di A. Rocco, ivi 1932.
Patrimonio sacro.
Nell'antica disciplina della Chiesa non si concepiva il conferimento dell'ordine sacro se non accompagnato da quello di un ufficio; ma nel Medioevo prevalse l'abuso, sempre deplorato e più volte condannato, di ecclesiastici che non avevano alcun ufficio (clerici vagi, acephali, absoluti). Il III Concilio lateranense del 1179 (c. 4, X, III, V) stabilì che se un vescovo ordinasse un diacono o un prete sine certo titulo, de quo necessaria vitae percipiat, dovesse somministrargli il necessario fino a che non ottenesse un ufficio, nisi talis forte ordinatus de sua vel paterna hereditate subsidium vitae possit habere. Da questa disposizione si arguì che fosse lecito ordinare, senza conferirgli un ufficio, colui che avesse proprî mezzi di sostentamento; tale interpretazione fu sancita da Innocenzo III nel 1208 (c. 23, X, III, V). Il concilio di Trento (sess. XXI de ref., c. 2; sess. XXIII de ref., c. 16) ribadì il principio generale che nessunco possa essere ordinato se non sia utile per la Chiesa, e fissò che, in caso di ordinazione in base al possesso di un patrimonio, questo non possa essere alienato sine licentia episcopi e solo allorché il chierico abbia assicurati altri mezzi di snstentamento. Il Cod. iur. can., al can. 979 ribadisce che per i chierici secolari il titolo canonico, requisito per il conferimento degli ordini maggiori, è il beneficio, o, in mancanza di questo, titulus patrimoni aut pensionis: tale titolo dev'essere et vere securus pro tota ordinati vita et vere sufficiens ad congruam eiusdem sustentationem. È questione controversa quali effetti abbia nel diritto dello stato la costituzione di un patrimonio per l'ordinando; in Italia, la legge al registro 30 dicembre 1923, n. 2269, all'alleg. A, art. 72, menziona la costituzione di patrimonio ecclesiastico; l'art. 1007 cod. civ. dice soggetto a collazione ciò che il defunto ha speso "per costituire al discendente il patrimonio ecclesiastico": la giurisprudenza è prevalentemente per la sottrazione di detto patrimonio all'esecuzione dei creditori; mentre tale soluzione incontra forti resistenze in dottrina.
Bibl.: C. Magni, Il "titulus patrimonii" e il Concordato, in Rivista diritto process. civ., 1932, II, p. 177.