MANCINI, Pasquale Stanislao
Nacque il 17 marzo 1817 a Castel Baronia, in provincia di Avellino, da Francesco Saverio e da Maria Grazia Riola. Di famiglia benestante, devota e politicamente conformista, ebbe nella madre, donna di non comune cultura e sensibilità, la prima istitutrice attenta a coltivarne l'intelligenza manifestatasi vivace sin dall'infanzia. I primi studi li compì nel seminario di Ariano Irpino donde, a quindici anni, passò al liceo del Salvatore di Napoli, seguito stavolta da vicino da uno zio materno, l'avvocato Giambattista Riola, spirito libero quanto aperto al promettente clima culturale inaugurato da Ferdinando II all'esordio del suo regno. Con la sua guida il M., oltre ad avvicinarsi al diritto, poté sviluppare gli interessi che ne riflettevano le molte curiosità, così nel campo del giornalismo come in quello della poesia, delle arti e della musica.
Mentre infatti frequentava i corsi di giurisprudenza nell'ateneo napoletano conseguendovi il diploma in legge nel 1835, il M. si sbizzarriva in versioni di testi sacri (Saggio di una versione poetica di Giobbe, Napoli 1838) e traduceva le poesie di P.J. Béranger, ovvero nel 1837 dettava quei versi augurali per le nozze del re con Maria Teresa d'Austria che in tempi diversi, molti anni dopo, V. Imbriani e F. Crispi avrebbero fatto oggetto di un'acre polemica politica. Era peraltro il comune gusto per la poesia che cementava nel 1840 il matrimonio del M. con Laura Beatrice Oliva, da lui conosciuta nel 1836 e portata all'altare malgrado l'opposizione della famiglia. Intanto aveva già dato alle stampe i versi delle Impressioni di un viaggio campestre (ibid. 1836) e composto le poesie che saranno edite solo dopo la sua morte (Incerti voli. Nuove poesie del giovanetto Pasquale Stanislao Mancini, e Senza amore, entrambi ibid. 1904).
L'esercizio dell'avvocatura, già da lui avviato nel 1835 e seguito intorno al 1840 dall'insegnamento privato del diritto, gli fu prodigo di successi professionali; e tuttavia, pur qualificandolo nel tempo come il più brillante tra i legali dell'ultima generazione, non lo assorbì tanto da impedirgli di assumere nel 1838 la proprietà e la direzione di un periodico di divulgazione, Le Ore solitarie, fondato nel 1835 da A. Izzo.
Inizialmente quindicinale, dal 1842, mutata la testata in Giornale di scienze morali, legislative ed economiche, apparve con una cadenza che voleva essere semestrale ma che non sempre rispettò tale periodicità. In gran parte compilata dal M. con interventi occasionali di altri intellettuali (in particolare P. Galluppi, A. Scialoja, M. De Augustinis, K. Mittermaier), la rivista affiancava alla larga trattazione di temi giuridici e amministrativi sezioni informative sui vari aspetti della cultura napoletana, sulla filosofia, e sull'attività accademica italiana e straniera, riflettendo su quest'ultimo punto il fascino irresistibile esercitato sul M. dall'aggregazione ad accademie di ogni genere, dalla Gioenia di Catania alla Valentiniana di Napoli, dalla Pontaniana di Napoli all'Ateneo di Brescia, ai Georgofili di Firenze, ai Fisiocratici di Siena.
Poi, dal 1844 al 1847 il periodico, trasformatosi in Biblioteca di scienze morali, legislative ed economiche, venne adattandosi ancora di più allo spirito specialistico diffuso in Italia dai congressi degli scienziati che spesso (nel 1845 a Napoli così come nel 1846 a Genova) ebbero proprio il M. tra i partecipanti più in vista: la scelta degli argomenti verteva ormai quasi interamente sui vari rami del sapere giuridico, ma cominciava ad affacciarsi qua e là una prospettiva non più solo regionale ma italiana, che lasciava percepire come il clima d'accordo in cui i congressi erano nati stesse evolvendo verso qualcosa di più organico. Almeno era questo il sottofondo dell'attività organizzativa e degli interventi del M., solertissimo nel dedicarsi a materie (la statistica, l'istruzione, l'agricoltura, l'economia, le misure assistenziali) attraverso le quali era più facile portare il discorso oltre i confini del Regno meridionale.
Il M. seppe tra l'altro fare in modo che questa attività di compilatore, ancorché frenetica, non gli precludesse la collaborazione - certo più saltuaria - alle molte riviste e strenne fiorite a Napoli negli anni '40, la stagione più prolifica vissuta dal giornalismo meridionale prima del 1848: di qui una lunga e varia serie di articoli, probabilmente destinati non solo all'esibizione della propria mirabolante versatilità ma anche a stabilire contatti con quei giuristi e quegli intellettuali d'Italia e d'Europa che prima lo avevano conosciuto solo attraverso la sua saggistica, una saggistica capace di spaziare dalle questioni giuridiche del momento (Intorno alla proprietà letteraria e ad un opuscolo di Raffaele Carbone. Ragionamento, Napoli 1841) all'economia (Intorno alla libertà dell'industria ed a' privilegi. Considerazioni, s.l. 1842) per toccare infine argomenti più strettamente connessi con la vita civile e con i problemi della società (Sul colera e delle cagioni che han preservato finora le provincie del Principato Ulteriore dal colera, Napoli 1836; Nuove idee sulle elettricità applicate all'invenzione di un paratremuoto [1837], s.l. 1884; Intorno alla libertà dell'industria e ai privilegi, Bologna 1842; Dell'utilità di ordinare i nuovi asili di mendicità nel Regno di Napoli sotto forma di colonie agricole. Discorso, s.l. 1843). A dare al M. la maggiore notorietà fu tuttavia la corrispondenza intercorsa con T. Mamiani Della Rovere (Intorno alla filosofia del diritto e singolarmente intorno alle origini del diritto di punire: lettere di Terenzio Mamiani e Pasquale Stanislao Mancini, Napoli 1841, con due edizioni coeve; poi Firenze 1844 e ancora Napoli 1863).
Oggetto dello scambio di vedute era un classico problema giusfilosofico e il M., ribattendo le tesi di Mamiani con una petizione di principio capace di mediare tra morale e utilità, "assumeva una posizione sincretica tra monismo e pluralismo che avrebbe sempre conservato differenziandosi dall'idealismo storicistico degli hegeliani" (M.L. Cicalese, M. e gli hegeliani napoletani nell'esilio torinese, in P.S. M.: l'uomo, lo studioso, il politico, pp. 80 s.). Si toccava qui, tra l'altro, un punto centrale delle discussioni fra i riformatori del tempo, quello della ratio della norma penale, della funzione della pena e della necessità di una sua umanizzazione.
Il M. lo riprese entrando in relazione con il torinese C.I. Petitti di Roreto e pubblicando a chiarimento delle proprie idee prima un opuscolo Della riforma delle carceri e di un'opera del conte Petitti di Torino intorno alla polemica penitenziaria (Napoli 1843), poi il testo di un rapporto all'Accademia Pontaniana edito nel 1844 col titolo Di una recente opera del principe ereditario, oggi re di Svezia, intorno alle pene e alle prigioni.
Secondo il M. il legislatore non era libero di scegliere i comportamenti da definire come crimini, ma doveva ispirarsi al criterio dell'extrema ratio per il quale potevano essere qualificati come illeciti penali solo gli atti di forza che comportavano un danno socialmente rilevante, mentre dovevano essere esclusi quelli da cui derivava un danno alle mere relazioni interindividuali. Per quanto, poi, riguarda la natura e la funzione della pena, egli sosteneva che la stessa doveva limitarsi a incidere sulla libertà personale e sul patrimonio del reo senza annullarne la personalità, doveva essere proporzionata alla colpa e doveva proporsi la correzione e il reinserimento del reo nella società. In questa ottica il M. assegnava allo Stato un compito di prevenzione, fatto essenzialmente di educazione, avviamento al lavoro, eliminazione della miseria come fattore criminogeno, e propugnava un sistema carcerario fondato sia sul lavoro comune dei reclusi per favorirne la riabilitazione sociale, sia su periodi di isolamento degli stessi, necessari a sollecitarli a una riflessione sulle loro colpe.
Viaggi, congressi e relazioni personali (spiccano quelle con V. Cousin e A. de Tocqueville) portarono dunque il M. a comprendere nel proprio giro d 'orizzonte i personaggi e le realtà statuali italiane più vocati al liberalismo. Un'accelerazione in tal senso si ebbe dopo l'elezione di Pio IX, e non perché il M. avesse aderito al giobertismo - la sua formazione culturale, largamente debitrice verso la tradizione giurisdizionalista e giannoniana lo induceva anzi a formulare un giudizio fortemente negativo circa il ruolo storico della Chiesa nella storia italiana -, ma perché il nuovo papa aveva aperto uno spiraglio alla discussione indirizzandola verso sbocchi più chiaramente politici. Gli intellettuali cui si sentiva più vicino erano i piemontesi F. Sclopis, C. Balbo e M. d'Azeglio, ma anche il più avanzato L. Valerio; di riflesso, l'orizzonte borbonico gli appariva ormai angusto e sordo alle spinte innovatrici.
La politica in prima persona, cui il M. si era evidentemente avvicinato, lo coinvolse pienamente nel 1848; il suo banco di prova fu il giornalismo, a cui si accostò fondando nel febbraio del 1848 prima il trisettimanale Riscatto italiano, avente come obiettivo il sostegno della costituzione, e poi, cessato questo, La Libertà italiana; quindi, dopo l'elezione alla Camera nel distretto di Ariano Irpino, come deputato, fermo nella rivendicazione dei diritti della rappresentanza e nella difesa dell'istituto parlamentare. Ne fece fede la Protesta da lui stesa di getto mentre erano in corso i fatti del 15 maggio e le truppe intimavano ai deputati di lasciare l'aula: la reazione vi era qualificata come "atto di cieco ed incorreggibile dispotismo" cedendo al quale non ci si esimeva però dal "prendere quelle deliberazioni che sono reclamate dai diritti dei popoli, dalla gravità della situazione, e dai princìpi della conculcata umanità e dignità nazionale" (cit. da A. Villani, P.S. M. meridionalista d'Europa, in P.S. M.: l'uomo, lo studioso, il politico, p. 29).
L'attività successiva del M. fu fortemente condizionata dai limiti imposti alla produzione legislativa dalla stretta conservatrice; non mancò qualche suo progetto di legge, ma lo slancio creativo di inizio '48 era ormai venuto meno.
Mancata ogni possibilità d'intesa con la Monarchia, al M. come ai suoi colleghi non restava che la difensiva contro le persecuzioni volte a sopprimere i residui spazi di libertà. Tentò di replicare alla forza con l'arma del diritto e si espose difendendo senza successo alcuni organi di stampa (L'Indipendente, L'Eco della Libertà) considerati troppo ostili al regime. Oramai ci si poteva impuntare più sulla salvaguardia dell'ordinamento costituzionale che sul suo sviluppo: che è il senso dell'intervento con cui nella seduta del 1( ag. 1848 il M. affermò che la guardia nazionale più che a mantenere l'ordine interno dovesse "servire a tutela delle garantie costituzionali" (C. Lodolini Tupputi, Il Parlamento napoletano del 1848-1849: storia dell'istituto e inventario dell'archivio, Roma 1992, p. 133); in questa temperie il suo progetto di legge per l'abolizione della pena di morte non fu nemmeno discusso.
Chiusa definitivamente la Camera, si misero in moto le corti speciali. Il M. si trovò in prima linea quando si trattò di difendere alcuni colleghi deputati colpiti da imputazione per i fatti del 15 maggio: che rischiasse anche lui lo dimostrarono presto il suo coinvolgimento personale nel processo e poi la condanna a 25 anni di carcere in contumacia.
Frattanto il 27 sett. 1849 si era imbarcato sulla nave francese "Ariel" con l'intenzione di espatriare in Francia, lasciando a Napoli la moglie e cinque figli. Una volta a Genova, decise di rimanere nel Regno di Sardegna e Petitti e Sclopis lo convinsero a stabilirsi a Torino, ove giunse il 5 ottobre. Pochi mesi dopo ebbe notizia che il 5 dic. 1849 era stato privato della cattedra di diritto naturale alla quale l'ateneo napoletano lo aveva chiamato due anni prima come sostituto.
Dall'esilio torinese il M. si tolse la soddisfazione di contribuire alla demolizione dell'immagine dei Borboni di Napoli pubblicando le Relazioni di magistrati e pubblicisti italiani sopra le quistioni legali e costituzionali della causa per gli avvenimenti del 15 maggio 1848 a Napoli (in Atti e documenti del processo di lesa maestà per gli avvenimenti del 15 maggio 1848 in Napoli, Torino 1851, pp. 179-247).
A Torino, dove trovò un gruppo di altri esuli (R. Conforti, G. Pisanelli, V. Lanza tra gli altri), si rivelò provvidenziale la rete di conoscenze che aveva coltivato negli anni precedenti. Vero è che presto alcune di queste amicizie vennero a mancare (e il M. sentì molto nel 1850 la perdita di Petitti, cui dedicò una serie di articoli che uscirono ne Il Risorgimento, e poi furono raccolti nell'opuscolo Notizia della vita e degli studi di Carlo Ilarione Petitti, Torino 1850, e infine servirono da introduzione all'edizione postuma da lui curata di un manoscritto del Petitti, Del giuoco del lotto, ibid. 1853); ma quelle che gli rimasero gli resero più facile l'inserimento nell'ambiente subalpino. Così non ebbe problemi a ottenere immediatamente l'autorizzazione all'esercizio dell'avvocatura, e tramite C. Balbo suscitò l'interesse di d'Azeglio, da poco chiamato alla presidenza del Consiglio, con un suo "Progetto per la creazione di una scuola diplomatica" che si proponeva di fornire alla carriera degli Esteri una nuova classe dirigente, che non fosse solo di provenienza aristocratica. Per il momento non se ne fece nulla, ma ciò non scosse la certezza proclamata dal M. sin dal suo arrivo, quando aveva scritto a L. Valerio che i Piemontesi avevano "una grande missione e una grande responsabilità insieme" (L. Valerio, Carteggio, IV, a cura di A. Varengo, Torino 2003, p. 362) e che da loro dipendeva il futuro dell'Italia. Intuiva che il Regno sardo aveva intrapreso un cammino di riforme che lo statuto avrebbe consentito di percorrere fino in fondo se si fosse riusciti a dare una base giuridica alle aspirazioni non municipali ma nazionali dello Stato uscito sconfitto dalle vicende belliche del 1848-49. La sua storia personale dimostrò che non si sbagliava: infatti, dopo un lungo dibattito in entrambi i rami del Parlamento, il governo sardo, con regio decreto 14 nov. 1850, gli assegnò una cattedra di diritto pubblico esterno e internazionale nell'Università di Torino, ossia qualcosa di ben più significativo dell'insegnamento di scienza consolare e diplomatica cui, memore del progetto sottopostogli pochi mesi prima, aveva pensato inizialmente d'Azeglio.
Il 22 genn. 1851 il M. introdusse il proprio corso universitario con una prolusione dal titolo Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti (Torino 1851; poi inserita dal M. in Diritto internazionale. Prelezioni con un saggio sul Machiavelli, Napoli 1873, e più volte riedita da vari curatori: Roma 1920, con pref. di F. Ruffini; Roma 1944, a cura di F. Lopez de Oñate; Napoli 1988 in anastatica; Torino 2000, a cura di E. Jayme; tra le traduzioni ricordiamo quella in lingua spagnola Sobre la nacionalidad, Madrid 1985).
Al di là dei riferimenti a G.B. Vico, al di là della discendenza dalla Rivoluzione francese, al di là dei prelievi da Gioberti, onestamente confessati, non era arduo percepire in certe sue frasi ("la nazionalità non è che la esplicazione collettiva della libertà"; "è il sentimento che ella acquista di sé medesima", rispettivamente pp. 39 e 41 dell'ed. del 1851) il sentore della predicazione mazziniana - pur senza che G. Mazzini fosse mai citato, e anzi con chiara incompatibilità politica - soprattutto là dove ai fattori giusnaturalistici della nazionalità, di per sé non sufficienti, il M. aggiungeva quelli spirituali, in particolare quelli della coscienza. E però, il merito maggiore del M. non consisteva nel promuovere ideologicamente le nazioni a soggetti di diritto internazionale ma nel dare una coerente veste giuridica a un concetto che avrebbe scosso e poi regolato la storia d'Europa nei decenni avvenire: sicché in piena prima guerra mondiale F. Ruffini, pensando alla sistemazione postbellica, poteva ben vedere nella dottrina giuridica della nazionalità del M. "il solo articolo di esportazione scientifica, che la nostra letteratura del diritto pubblico abbia prodotto" nel corso dell'Ottocento (F. Ruffini, Nel primo centenario della nascita di P.S. M., in Nuova Antologia, 16 marzo 1917, p. XI).
Forse c'è un nesso tra la riflessione manciniana e la quasi coeva sua determinazione di tornare alle sorgenti del giurisdizionalismo; o forse agiva su di lui l'impressione lasciatagli dagli eventi del 1849 e soprattutto dall'accordo illiberale tra Papato e dinastia borbonica: certo è che di lì a poco il giurista riprendeva alcuni scritti di N. Machiavelli (il Principe e i Discorsi) e li ripubblicava in un'edizione torinese del 1852 (Machiavelli e la sua dottrina politica) cui premetteva una lunga prefazione; e nello stesso anno, rintracciati nella Biblioteca reale cinque manoscritti inediti di P. Giannone, li trascriveva e li dava alle stampe in due volumi dal titolo Opere inedite di Pietro Giannone( rivedute e ordinate con l'aggiunta di una vita dell'autore (Torino): titolo inesatto, dal momento che, distratto il curatore da altri impegni, i due volumi apparvero solo nel 1859, per giunta senza l'annunziata biografia di Giannone e con non lievi "carenze filologiche e storico-critiche" (M. Agrimi, M. e le opere inedite di Pietro Giannone, in P.S. M.: l'uomo, lo studioso, il politico, p. 255). È tuttavia indubbio l'influsso che Giannone esercitò sul pensiero del M., sui suoi atteggiamenti in materia di rapporti tra Stato e Chiesa e, in genere, sulla cultura italiana del tempo.
Insieme con l'insegnamento e il lavoro intellettuale (comprendente anche una riedizione del Saggio storico di V. Cuoco: cfr. in proposito E. Morelli, Tre profili. Benedetto XIV, P.S. M., Pietro Roselli, Roma 1955, pp. 49-93), il M. doveva intanto portare avanti l'attività professionale, sia quella forense sia quella di studio. L'avvocato di fama cui si attribuivano guadagni favolosi non si risparmiava né lesinava la sua scienza, che già gli aveva procurato nel 1850 l'inserimento a opera del guardasigilli G. Siccardi in una commissione creata per rivedere le leggi civili e criminali e, poco dopo, l'elezione a membro della Commissione per la statistica giudiziaria. Tra tante occupazioni, un'attenzione particolare dedicò allo studio della legislazione e la diffusione della sua conoscenza, al servizio della quale poteva mettere l'esperienza di lavoro sua e dei suoi amici. Fu dunque in collaborazione con G. Pisanelli e con A. Scialoja, che lo aveva raggiunto a Torino sul finire del 1852, che il M. portò a termine, d'intesa con l'editore Pomba e con l'ausilio di alcuni giuristi piemontesi, la fatica del Commentario del Codice di procedura civile per gli Stati sardi, con la comparazione degli altri codici italiani e delle principali legislazioni straniere, I-VIII, Torino 1855-57 (nuova ed. ibid. 1873).
In filigrana, si avvertiva la piena sintonia ideale raggiunta con la classe dirigente del periodo cavouriano in materia di allargamento della libertà e di adesione al liberismo, una sintonia espressa anche in forma di adesione alle tante iniziative culturali e filantropiche del tempo, con una speciale sensibilità per quelle riguardanti l'emigrazione meridionale della quale egli era l'esponente di maggior prestigio, anche sotto il profilo economico; del resto, un decreto del 2 giugno 1851, concedendogli la cittadinanza sarda, gli aveva fornito il prerequisito per esercitare la professione legale sia in tribunale sia in Cassazione ma era servito a integrarlo anche psicologicamente nel sistema piemontese.
Nel novembre 1850 era stato incaricato dal ministro di Grazia e Giustizia G. Siccardi di preparare insieme con M. Pescatore il disegno di legge sull'introduzione del matrimonio civile.
L'articolato, presentato in 126 articoli nel giugno 1851, partendo dal principio che il matrimonio è un contratto in tutto soggetto alla legge civile, la quale stabilisce i requisiti di chi lo contrae, il campo di validità e gli effetti giuridici che ne derivano, affermava in linea di principio che tale regolamentazione lasciava "intatti i doveri che la religione impone, e protegge a un tempo l'osservanza dei medesimi e la libertà delle coscienze" (art. 1). Nella sostanza il disegno di legge intendeva sancire l'obbligatorietà del matrimonio civile, vietando la sola celebrazione di quello religioso; concedeva tuttavia alla Chiesa alcuni privilegi: il divieto del matrimonio per i chierici che avessero ricevuto gli ordini maggiori e per i religiosi regolari che avessero pronunciato il voto di celibato perpetuo. Inoltre vietava ai cattolici il matrimonio con individui di altre confessioni religiose.
Il disegno di legge, giudicato eccessivamente avanzato in senso laico, incontrò qualche perplessità già nel nuovo guardasigilli (dal luglio 1851) G. De Foresta, che introdusse qualche modifica. Nel 1852 il nuovo ministro F. Galvagno decise di abbandonarlo e di farne predisporre un altro radicalmente diverso; ma la questione della regolamentazione civile del matrimonio si trascinò a lungo per l'opposizione della Chiesa piemontese e le cautele del re Vittorio Emanuele II.
Più proficua fu la collaborazione del M. con U. Rattazzi nella preparazione della legge sulla soppressione delle corporazioni ecclesiastiche, promulgata nel 1855 nel Regno sardo.
In tutto questo turbinio di impegni e rapporti, la politica attiva sembrò non interessarlo particolarmente, almeno all'inizio, forse perché era il terreno sul quale, lui così incline a coltivare amicizie d'ogni genere, non avrebbe sopportato il clima di accesa polarizzazione che spesso turbava i rapporti tra gli esuli e che certo avrebbe tolto credibilità al ruolo di guida morale che tutti gli riconoscevano. Malgrado alcuni lo dicessero vicino al murattismo, il M. non ritenne opportuno schierarsi e continuò a fare del salotto della moglie il luogo in cui tutti potevano incontrarsi e discutere di programmi e progetti in modo più o meno acceso ma senza che egli prendesse posizione, probabilmente ritenendo già sufficiente ciò che aveva scritto nel saggio sulla nazionalità.
Giurisdizionalismo e principio di nazionalità collocavano comunque il M. a sinistra dello schieramento parlamentare di cui era divenuto membro dopo l'elezione dell'aprile 1860 alla VII legislatura nel collegio di Sassari (per le elezioni successive, dalla VIII alla X ancora nel collegio di Sassari; dall'XI alla XIII nel collegio di Ariano Irpino e dalla XIV alla XVI, fino alla morte, in quello di Avellino II). Tale suo orientamento non implicava nessun irrigidimento ideologico né lo poneva in antitesi con la Destra cavouriana; con Cavour, anzi, collaborò nella fase dell'unificazione legislativa.
Ormai considerato a Torino il giurista più esperto nelle questioni dell'organizzazione statale e nei problemi di diritto internazionale, il M. nel periodo delle annessioni dei Ducati dell'Italia centrale, delle Legazioni e della Toscana fu inviato da Cavour a Bologna e a Firenze per studiare i problemi legislativi: egli presentò sull'argomento quattro relazioni, che furono alla base della decisione del governo di estendere la legislazione sarda all'Emilia e alle Marche e di lasciare in vigore in Toscana i codici preesistenti in attesa di una nuova codificazione che armonizzasse le condizioni legislative di tutto il Regno.
Uno dei problemi più ardui che si poneva per il nuovo Stato unitario era appunto quello dell'unificazione legislativa. Alla vigilia dello scoppio della seconda guerra di indipendenza, il 25 apr. 1859, la legge 3345 aveva affidato al governo sardo pieni poteri legislativi per provvedere a una nuova fase di codificazione, che si concluse rapidamente con l'approvazione e pubblicazione il 20 nov. 1859 di tre nuovi codici: penale, di procedura penale e di procedura civile. Rimanevano, invece, invariati il codice civile del 1837 e il codice di commercio del 1842, in attesa di una riforma più approfondita rinviata al futuro. Il risultato non fu brillante. La frettolosità e superficialità con cui si era proceduto alla nuova codificazione, trascurando del tutto l'attenzione agli istituti giuridici presenti nelle province di nuova acquisizione, e il fatto che i testi non fossero frutto di una discussione parlamentare resero i nuovi codici privi di autorevolezza.
Nell'ex Regno delle Due Sicilie, dopo la liberazione, la situazione si presentò subito molto complessa. A Napoli il 9 nov. 1860 assunse il potere come luogotenente generale per il Mezzogiorno continentale L.C. Farini che varò il Consiglio di luogotenenza, in cui entrò anche il M., già tornato a Napoli, come consigliere senza portafoglio. Questi, di fronte alla politica di Farini, troppo sbilanciata a favore degli autonomisti, il 27 novembre rassegnò le dimissioni e, insieme con il ministro di Grazia e Giustizia G.B. Cassinis inviato a Napoli da Cavour, informò quest'ultimo della situazione pericolosa che si stava creando. Cavour sollecitò in dicembre Farini ad assumere iniziative rapide per l'unificazione legislativa e amministrativa del Mezzogiorno.
Il M. aveva inviato a Cavour un Memorandum (pubblicato da A. Scirocco, Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell'unificazione (1860-61), Milano 1963, pp. 350-364), in cui faceva un resoconto degli errori commessi e di come riorganizzare la luogotenenza: ma soprattutto consigliava la rapida unificazione legislativa.
Questo documento fu assunto come base per il licenziamento di Farini e per l'organizzazione della nuova luogotenenza affidata al principe Eugenio di Savoia Carignano. Nel nuovo Consiglio, presieduto da Liborio Romano e creato il 16 genn. 1861, il M. ebbe il ruolo di consigliere con la responsabilità degli Affari ecclesiastici e, il 6 febbraio, la presidenza della Commissione per gli studi legislativi istituita dal luogotenente Eugenio di Savoia Carignano per decidere le modifiche da apportare alle normative giuridiche esistenti. Le decisioni, che presero forma in una serie di decreti emanati il 17 febbraio, estendevano alle province meridionali, con alcune modifiche atte ad armonizzarli con le consuetudini e aspetti dottrinali della scienza giuridica meridionale, i codici penale e di procedura penale, e la legge sull'ordinamento giudiziario del Regno sardo, ma lasciava in vigore i codici civile, di procedura civile e di commercio napoletani.
Il compito più gravoso del M. fu in particolare la modifica della legislazione ecclesiastica delle province meridionali, per renderla compatibile con lo statuto. A tale fine egli elaborò alcuni decreti, emanati anch'essi il 17 febbraio, che, tra l'altro, dichiaravano decaduto il concordato del 1818, sopprimevano le commissioni diocesane con il ripristino del Regio Economato per l'amministrazione dei benefici vacanti, affidavano all'autorità civile la nomina degli amministratori delle opere pie laicali ed estendevano al Mezzogiorno la legge sarda del 29 maggio 1855 che prevedeva la soppressione della maggior parte degli ordini religiosi incamerandone i beni. Questi provvedimenti diretti a eliminare privilegi inaccettabili caddero tuttavia in un momento poco opportuno, nuocendo all'azione diplomatica di Cavour, il quale proprio in quei giorni cercava di aprire trattative con il papa. Inoltre, se l'alto clero meridionale era rimasto legato alla dinastia borbonica e sarebbe stato in ogni caso ostile al nuovo governo, il basso clero, per la maggior parte su posizioni liberaleggianti, era turbato da leggi giudicate anticlericali e tali da incidere negativamente sulle sue condizioni di vita: solo la soppressione degli ordini religiosi riguardò circa 20.000 frati e monache, mettendo in difficoltà molte famiglie.
Il M. si muoveva chiaramente nel solco della tradizione giurisdizionalista del Settecento napoletano: i suoi punti di riferimento erano le teorie gallicane di Pierre de Marca, gli scritti giurisdizionalisti di Pietro Giannone, il diritto ecclesiastico di Z.B. van Espen.
Il 12 marzo 1861 Romano si dimise dopo aspri contrasti con il M. e S. Spaventa, e Cavour decise la soppressione del Consiglio di luogotenenza affidando i ministeri napoletani a semplici direttori: il M. fu uno di questi con il titolo di segretario generale per le provincie napoletane del ministero di Grazia e Giustizia del Regno d'Italia. Si dimise da questo incarico l'8 giugno, subito dopo la morte di Cavour, per dissensi sorti con il ministro G.B. Cassinis, il quale aveva disposto alcuni trasferimenti nella magistratura napoletana di più alto grado senza avere consultato né il M., né il luogotenente generale. Il M. rientrò perciò a Torino.
In seguito la delicata posizione del Sud nel nuovo Regno fu oggetto di numerosi suoi interventi parlamentari, spesso molto critici verso la Destra e i suoi governi, responsabili a suo dire di una politica sorda alle specificità del Mezzogiorno e al suo passato amministrativo e giuridico, non tutto da rifiutare. In un intervento alla Camera del 7 dic. 1861, pur dichiarando che "la responsabilità di quei terribili decreti del 17 febbraio [(] ricade in massima parte su di me", affermava con una certa improntitudine che complessivamente vi era stata "una serie di atti talvolta legislativi, talvolta governativi ed amministrativi" che avevano leso "interessi che potevano meritare rispetto", prima che fossero nuovi interessi e quindi consenso a favore del nuovo Stato: questa era la causa principale del disagio e del malcontento diffusi nel Mezzogiorno. Ancora molti anni dopo manifestò la stessa opinione in un banchetto organizzato a Napoli in suo onore il 6 febbr. 1870 esprimendo il malumore generale verso il piemontesismo e il poco spazio lasciato dall'élite di governo al notabilato meridionale.
Il 3 marzo 1862 accettò di entrare nel governo con Rattazzi, che era il solo esponente della maggioranza con cui - per via della sua comprovata vicinanza alla Sinistra - potesse andare d'accordo; ottenne allora il dicastero dell'Istruzione da cui si affrettò a dimettersi il 31 marzo successivo per contrasti sulla linea politica del presidente del Consiglio, giudicata troppo acquiescente con la Francia. Nei giorni in cui ebbe l'incarico chiamò a insegnare all'Università di Torino G. Ferrari, come lui cultore di studi giannoniani.
Passato all'opposizione, il M. si occupò in Parlamento soprattutto di problemi giuridici. In particolare seguì e sollecitò la redazione del nuovo codice civile, le cui vicende si trascinarono fino al giugno del 1865, con la redazione di un testo radicalmente rinnovato rispetto a quello albertino del 1837.
Quando nel febbraio 1865 il guardasigilli G. Vacca affermò che l'introduzione in tutto il Regno di un unico codice di commercio era meno urgente, in quanto quelli allora in vigore nei diversi territori (il codice albertino del 1842 negli ex Stati sardi, in Emilia, in Umbria e nelle Marche, quello francese rimasto in vigore in Lombardia e in Toscana e quello napoletano del 1819) erano tutti ispirati al modello napoleonico, il M. criticò fortemente questa impostazione, sostenendo che l'unificazione legislativa in materia di commercio era di vitale importanza per il nuovo Stato: "il commercio è cosmopolita, e cresce in prosperità in ragione dell'ampiezza dei territori aperti alla sua libera azione; e quindi la legislazione che lo regola debbe necessariamente essere nazionale, e non provinciale e locale. La varietà delle leggi commerciali nel seno d'uno solo e medesimo popolo genera inevitabilmente nell'ordine dei rapporti giuridici una serie di ostacoli artificiali e di molesti impacci a quella libertà del commercio nazionale ed a quella uguaglianza di condizione legale, cui hanno diritto tutte le classi e tutti gl'individui che esercitano la mercatura e l'industria presso ciascuna nazione" (Atti parlamentari, Camera dei deputati, Discussioni, VIII legislatura, II, 15 febbr. 1865): particolarmente deleterie secondo lui erano le difformità normative relative alla costituzione delle società anonime, alle lettere di cambio e ai fallimenti. Egli presentò, quindi, un emendamento teso ad aggiungere al nuovo codice civile il codice di commercio sardo del 1842. La proposta del M. fu approvata e, apportate alcune modifiche di carattere tecnico e alcune aggiunte, il codice di commercio fu promulgato il 25 giugno 1865 dalla legge 2364 che stabiliva l'unificazione legislativa in tutto il Regno. Si trattava di un rimedio necessario, ma altamente precario: il codice di commercio del 1842 era nato vecchio (in gran parte riproduceva il codice napoleonico del 1807) e apparve subito insufficiente di fronte all'impetuosa crescita degli scambi commerciali interni ed esteri, ma si dovette attendere il 1882 perché fosse drasticamente riformato.
In quegli anni il M. si mostrò sempre pronto a dare battaglia al governo - con discorsi, interrogazioni e interpellanze - sul brigantaggio (1862) come sull'imposta del registro e del bollo (1863), sull'amministrazione finanziaria come sull'abolizione della pena di morte, questione che nel 1865 lo ebbe a protagonista in veste di presentatore di un progetto di legge, approvato alla Camera ma bocciato in Senato; e poi alcune clamorose apparizioni in tribunale, per difendere - tra tanti altri - C. Lobbia nel processo per la Regia cointeressata dei tabacchi, e l'ammiraglio C. Pellion di Persano per le conseguenze della sconfitta di Lissa.
Un altro tema su cui il M. intervenne autorevolmente in Parlamento fu quello dell'ordinamento giudiziario. Da posizioni liberaldemocratiche polemizzò più volte con il governo a proposito dell'eccessivo controllo disciplinare concesso all'Esecutivo sull'azione del pubblico ministero previsto dalla legge 13 nov. 1859, n. 3781, estesa con poche modifiche a tutto il territorio nazionale nel dicembre 1865 (r.d. 14 dic. 1865, n. 2641). Nel marzo 1874, durante la discussione per la riforma della composizione delle corti di assise, si oppose decisamente e con successo al tentativo di abolire le giurie popolari.
In primo piano restava però la Questione romana (cui dedicava i saggi di un volume Sulle relazioni della Chiesa con lo Stato in Italia e sulla Questione romana, Firenze 1867): nel febbraio 1867 un suo ordine del giorno provocò le dimissioni del governo Ricasoli, messo in minoranza nel suo tentativo di arrivare, anche attraverso misure contro la libertà di stampa e di manifestazione, a una conciliazione con la Chiesa; peraltro la replica ministeriale, manifestatasi nella forma di un boicottaggio della candidatura del M. alle elezioni del marzo 1867, cozzò contro la volontà dell'elettorato di ben quattro collegi che gli confermarono la deputazione. Con queste premesse, alla vigilia del 20 sett. 1870 egli non poteva che incalzare, seppure con qualche irruenza, il governo Lanza, e stigmatizzarne la timidezza con cui affrontava la crisi finale del potere temporale evitando di denunziare la Convenzione di settembre.
Dopo Porta Pia egli partecipò da protagonista alla discussione sul disegno di legge delle guarentigie (Garanzie della indipendenza del Sommo Pontefice e del libero esercizio dell'autorità spirituale della Santa Sede) presentato dal governo Lanza il 9 dic. 1870.
Il progetto fu sottoposto all'esame di un comitato privato della Camera (una commissione allargata), che dopo averlo in linea di massima approvato ne decise l'approfondimento affidandolo a una giunta di 7 membri di cui fece parte il M., ma monopolizzata da R. Bonghi che aveva l'incarico di relatore. Questi decise di modificare ampiamente il testo, mantenendo una via di compromesso tra il disegno del governo, che mirava a concedere al pontefice la più ampia sovranità e indipendenza attuando il principio cavouriano della libertà della Chiesa, e la posizione della Sinistra contraria a questa visione e favorevole a incisive forme di controllo della vita ecclesiastica. Il M., affermando che si trattava di un vero e proprio controprogetto rispetto a quello approvato quasi all'unanimità dal comitato privato, abbandonò i lavori della giunta a metà di gennaio del 1871: in particolare egli si opponeva a che l'inviolabilità della persona del papa venisse estesa anche ai cardinali (anche se, come fu corretto dopo le sue dimissioni, tale prerogativa era limitata al solo caso di sede vacante dopo la morte del papa). Il M. presentò un proprio progetto in 24 articoli, che non fu preso in considerazione. Quando il disegno di legge del governo fu presentato alla Camera egli intervenne più volte, contestando vari punti del provvedimento, a cominciare dal riconoscimento della sovranità al papa. Pur riuscendo a far approvare vari suoi emendamenti, il M. si dichiarò sostanzialmente contrario al provvedimento che fu definitivamente approvato il 2 maggio 1871.
In seguito le posizioni anticlericali del M. trovarono alimento nella campagna della stampa di opposizione contro la politica ecclesiastica del governo Minghetti, per l'asilo concesso in territorio italiano a molti prelati tedeschi avversi al Kulturkampf di O. Bismarck. Uomo di punta della Sinistra in questa battaglia in Parlamento fu il M., con un'interpellanza presentata il 3 maggio 1875, una vera e propria requisitoria contro il governo.
Egli affermò che, mentre in Germania si combatteva una lotta per la civiltà e per uno Stato laico, in Italia il governo non attuava neppure quelle parti della legge delle guarentigie che salvaguardavano i principî liberali: aveva abbandonato alla Chiesa la collazione dei benefici minori su cui lo Stato aveva diritto di nomina e proposta (art. 15), ignorava quanto era disposto dall'articolo 16 che prevedeva per qualunque ecclesiastico investito la presentazione della richiesta per ottenere il placet e l'exequatur al procuratore generale del re del luogo in cui voleva esercitare il ministero; non era stato attuato quanto previsto dall'articolo 18, cioè un provvedimento legislativo per il riordinamento e l'amministrazione delle proprietà ecclesiastiche abbandonando in tal modo il basso clero in balia dei vescovi.
Nello spazio lasciatogli dall'attività parlamentare il M. compiva una nuova riflessione sulla nazionalità che diveniva oggetto di una prolusione pronunziata nel 1872 alla Sapienza di Roma, dove era stato chiamato a insegnare nella facoltà di giurisprudenza: in tale circostanza la sua tesi era stata che il principio di nazionalità era un principio d'ordine e che quindi l'Europa non avrebbe dovuto temere ulteriori sconvolgimenti; il passo successivo in tal senso fu la proposta rivolta al governo perché esso si adoperasse a far sì che i conflitti fra gli Stati fossero sottoposti a un arbitrato internazionale. La Camera la votò all'unanimità.
Nel settembre 1873 prese parte a Gand al congresso dei giuristi internazionalisti, nel quale fu decisa la creazione dell'Institut de droit international. Il M. ne divenne presidente e nella successiva sessione, svoltasi nel 1874 a Ginevra, presentò un'ampia relazione nella quale ricordò il proprio contributo alla definizione delle norme di diritto internazionale privato nel codice civile del 1865, in particolare dell'articolo 3, e indicò i principî a cui quel diritto doveva ispirarsi: nazionalità, territorialità e libertà delle parti. A suo parere due contraenti di nazionalità diversa dovevano essere liberi di scegliere quale delle due leggi nazionali dovesse regolare il negozio giuridico; ove tale scelta non fosse stata espressa si sarebbe applicata la legge dello Stato in cui il contratto era stato stipulato.
Caduta la Destra, il 25 marzo 1876 il M. entrò come guardasigilli nel I ministero Depretis. Le critiche spesso aspre da lui mosse in passato all'ingerenza dei governi della Destra in ambito giudiziario non gli impedirono di praticare a sua volta un comportamento simile. Uno dei primi provvedimenti da lui presi, il 22 maggio 1876, fu il trasferimento di una ventina di alti magistrati (per lo più pubblici ministeri), tra i quali spiccavano i nomi dei procuratori generali della Cassazione A. De Foresta, figlio dell'ex ministro, trasferito da Roma a Bologna, e l'ex ministro M. Pironti, da Napoli ad Ancona. Sembrò a molti una ritorsione nei confronti dei due magistrati, legati alla Destra, che erano stati protagonisti del losco processo imbastito nel 1869 contro il deputato della Sinistra C. Lobbia.
Il M. non solo respinse le insinuazioni ma, durante il periodo in cui fu ministro, non prese alcuna iniziativa per modificare la legge Rattazzi sull'ordinamento della magistratura, tanto criticata in passato, e utilizzata anche dai governi della Sinistra.
Particolarmente importante fu l'intervento del M. nella riforma del codice di commercio, in quanto quello introdotto nel 1865 era ormai palesemente inadeguato ai bisogni di un'economia segnata da un rapido aumento degli scambi mercantili. Nel 1876 il M. istituì una commissione per la redazione del progetto del nuovo codice. Questo fu trasmesso alle Camere l'anno successivo: opera del M. era la disciplina del fallimento ispirata al modello francese e limitata ai soli commercianti. Dopo vari rinvii il nuovo codice di commercio, promulgato nel 1882, fu definito "codice Mancini".
Per iniziativa del M. fu decisa il 6 dic. 1877 (legge n. 4166) l'abolizione della carcerazione per debiti.
Il suo attivismo si esplicò inoltre nel campo della legislazione ecclesiastica. Il 2 ott. 1876 il M. vietò ai procuratori generali del Regno di concedere il placet agli atti dei vescovi non riconosciuti dall'autorità civile; il 18 ott. 1876 inviò una circolare ai prefetti per invitarli a vigilare sulla istituzione o ricostituzione di associazioni religiose e, in particolare, a ostacolare nuove monacazioni o vestizioni di religiose; il 2 maggio 1877 presentò un progetto per l'abolizione delle decime sacramentali, compensate con una congrua di 800 lire annue ai parroci a carico dei Comuni e di 6000 lire ai vescovi a carico del Fondo per il culto (in questo caso il progetto, approvato in commissione, decadde per la fine della legislatura). Ma soprattutto l'azione del M. si esplicò nella presentazione nel gennaio 1877 della legge sugli abusi dei ministri dei culti, che riguardava qualsiasi ingerenza del clero in materia politica. Si trattava di una legge speciale, che colpiva anche la manifestazione di idee e quindi difficilmente compatibile con un regime liberale: approvata dalla Camera, fu respinta dal Senato il 7 maggio 1877 con l'obiezione che anche il clero doveva essere soggetto alla legge comune.
Conclusa l'8 marzo 1878 l'esperienza ministeriale, alla fine del 1879 si fece il suo nome per l'ambasciata di Parigi e nella primavera successiva per la presidenza della Camera. Il 31 maggio 1880 fu invece nominato presidente della Commissione dei quindici, incaricata di preparare la nuova legge elettorale poi varata nel 1882. Nel 1881 assunse la direzione dell'Enciclopedia giuridica italiana.
Il 29 maggio 1881 era tornato al governo, ancora con A. Depretis ma stavolta con la titolarità del ministero degli Esteri, che era stato rifiutato da D. Farini. Momento saliente della sua permanenza alla Consulta che durò fino al 18 giugno 1885 fu la stipulazione della Triplice Alleanza.
In gioco c'era l'ipotesi di uno spostamento dell'asse della politica estera italiana verso gli Imperi centrali, con le prevedibili reazioni di un'opinione pubblica per la quale ancora valeva il motivo dell'inimicizia storica con l'Austria e che avvertiva molto meno il pericolo della politica vaticana della Francia che invece preoccupava il Mancini. Avvalendosi dell'appoggio del segretario generale del suo ministero, A. Blanc, e superando lo scarso entusiasmo di Depretis, il M. riuscì a condurre in porto l'operazione grazie all'appoggio del re, degli ambienti di corte e di alcuni esponenti della Destra, tutti diversamente interessati a che si concludesse un'alleanza che portasse l'Italia fuori dall'isolamento, servisse a stabilizzare la situazione interna (anche se non era questa la preoccupazione del M., per il quale era anzi da respingere ogni eventuale ingerenza degli alleati nella politica interna) e offrisse all'Italia la garanzia territoriale contro una possibile - ma non probabile - aggressione francese. Si giunse così, il 20 maggio 1882, alla firma del trattato a Vienna, con l'inclusione in un'appendice della clausola voluta dal M.: che l'alleanza, di natura difensiva, non potesse avere efficacia contro l'Inghilterra. Per la frettolosità con cui era stato preparato il testo, il patto non dava garanzie all'Italia sulla politica coloniale e sui compensi da riconoscerle in caso di espansione delle altre Potenze contraenti.
Certo, comunque, di avere ottenuto una salvaguardia, il M. diede subito il via alla politica coloniale, a ciò motivato anche dal fatto di vedere in essa l'inizio di uno spostamento dell'interesse nazionale verso il Mezzogiorno. Prima portò a compimento nel luglio del 1882 l'acquisto da parte della compagnia Rubattino della baia d'Assab, giustificandolo, di fronte a chi lo ricordava come teorico del diritto delle genti, con la legittimità che hanno i popoli civili di esercitare anche fuori del territorio nazionale "una missione di pacifico incivilimento" (cit. da R. Battaglia, La prima guerra d'Africa, Torino 1958, p. 147); quindi oppose un rifiuto alla proposta britannica di intervenire insieme in Egitto (e stavolta ripescò la sua dottrina della nazionalità) e contrastò le aspirazioni francesi sul Marocco; infine, all'inizio del 1885, prese l'iniziativa della spedizione a Massaua, sostenendo in Parlamento che nel Mar Rosso c'era la "chiave" del Mediterraneo, ma non riuscendo a chiarire, malgrado la verbosità della sua replica, i termini e l'utilità d'un impegno così gravoso. Ciò lo espose in Parlamento agli attacchi non solo degli anticolonialisti ma anche di chi, come F. Crispi, non era a priori contrario ai progetti espansionistici, e fu questo il preludio della sua caduta che ebbe luogo il 29 giugno 1885.
Il M. morì a Napoli il 26 dic. 1888, nella villa di Capodimonte messagli a disposizione da Umberto I. Era rimasto vedovo nel 1869.
Fonti e Bibl.: L'archivio personale del M. è depositato a Roma presso il Museo centrale del Risorgimento (sulle Carte Mancini, si vedano gli articoli di E. Morelli, in Rass. stor. del Risorgimento, XXVIII [1941], pp. 100-103; LXVIII [1981], pp. 461-465; LXX [1983], pp. 321-326, 464-469). Della vastissima bibliografia sul M. si ricordano L. Frugiuele, La Sinistra e i cattolici: P.S. M. giurisdizionalista anticlericale, Milano 1985; L'episcopato napoletano e M., a cura di V. Caruso - S. Salvatore - B.M. Frascolla, Bari 1988; E. Jayme, P.S. M.: il diritto internazionale privato tra Risorgimento e attività forense, Padova 1988; E. Morelli, P.S. M., in Il Parlamento italiano, V, La Sinistra al potere(: 1877-1887, Milano 1989, pp. 555-570; P.S. M.: l'uomo, lo studioso, il politico. Atti del Convegno, Ariano Irpino( 1988, Napoli 1991; Y. Nishitani, M. und die Parteiautonomie im internationalen Privatrecht, Heidelberg 2000; A. Padoa Schioppa, Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna 2003, ad indicem. Per ulteriori indicazioni sugli scritti del M., sulle fonti e gli studi relativi alla sua vita e alla sua attività, si rinvia alla Bibliografia dell'età del Risorgimento in onore di A.M. Ghisalberti, Firenze 1971-74, ad ind.; 1970-2001, ibid. 2003-05, ad indicem.