Parmenide e Zenone
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Parmenide e Zenone hanno impresso una svolta alla filosofia, che già aveva mosso i suoi primi passi in direzione della ricerca della natura. Parmenide è considerato il primo pensatore metafisico, colui che ha individuato una sfera di realtà che si sottrae ai sensi, indagabile solo con la ragione. Zenone, suo allievo, è considerato l’inventore della dialettica, cioè di quel metodo confutatorio che consiste nel mostrare le conseguenze assurde o impossibili che derivano da una tesi, per provare eventualmente la verità dell’opposta.
Nel Parmenide (127A-B), Platone racconta di un viaggio di Parmenide e Zenone ad Atene, durante le Panatenee, in cui Zenone avrebbe letto davanti a un pubblico che comprendeva anche Socrate il suo libro sulle argomentazioni contro il molteplice. Parmenide aveva circa sessantacinque anni, Zenone quaranta. All’epoca, aggiunge Platone, Socrate era ancora molto giovane.
Il fatto che Platone sia così preciso circa le rispettive età ha indotto gli studiosi a prendere sul serio le informazioni contenute nel Parmenide. Socrate aveva un po’ più di settant’anni quando fu messo a morte, nel 399 a.C. Se riteniamo che l’affermazione di Platone riguardo alla notevole giovinezza di Socrate significhi che egli avesse una ventina d’anni all’epoca del viaggio dei due eleati, possiamo collocare la nascita di Parmenide intorno al 515 a.C., e quella di Zenone intorno al 490 a.C.
L’interpretazione tradizionale vuole che Parmenide di Elea sia il primo pensatore ad aver spezzato l’alleanza tra ragione e sensi, che aveva permesso ai physikoi quali Talete, Anassimandro, Anassimene e, in certa misura, Eraclito, di sviluppare le prime indagini sulla natura.
Secondo tale interpretazione, Parmenide è il primo filosofo ad aver svalutato il contributo dei sensi come strumenti di conoscenza, giudicandoli totalmente inaffidabili, a vantaggio della ragione. Egli sarebbe quindi il fondatore della metafisica, se con essa si intende la scoperta di una realtà oltre la realtà fisica, realtà eterna, immutabile e incorruttibile, raggiungibile solo con la ragione.
L’influenza di Parmenide è significativa non solo in filosofia, ma anche in politica: secondo Plutarco (Contro Colote, 1126A-B): “Parmenide ordinò la sua patria con leggi talmente eccellenti che i cittadini ogni anno fanno giurare ai magistrati di restare fedeli alle leggi di Parmenide”.
Parmenide ha scritto un poema in esametri, di cui rimangono parecchi frammenti, riportati principalmente da Sesto Empirico e da Simplicio, nei suoi commenti alla Fisica e al De caelo di Aristotele. Analizzando tali frammenti, possiamo dividere il poema in tre parti: (1) un proemio, riportato quasi integralmente da Sesto Empirico (Adversus mathematicos, VII, 111), che presenta il viaggio di Parmenide in termini allegorici (note le immagini delle cavalle che lo portano, che secondo Sesto Empirico rappresentano i sensi; o delle fanciulle che indicano la via, che sono per Sesto le sensazioni), eroici (il viaggio di Parmenide è stato paragonato a quello di Odisseo) e iniziatici. Alla fine del viaggio Parmenide arriva al cospetto della dea, che gli rivela tutto ciò che egli deve sapere; (2) una parte “metafisica”, altrimenti detta “la via dell’essere” (frammenti II, III, VI e VIII, 8-49 Diels-Kranz), che corrisponde alla dottrina filosofica di Parmenide; (3) una parte “fisica” (frammenti VIII, 50-61; IX; X; XI; XII; XIV-XIX Diels-Kranz), in cui Parmenide presenta una teoria della natura, innovativa rispetto a quella dei predecessori, malgrado il fatto che egli sembri sconfessare tale indagine, che chiama, secondo l’interpretazione tradizionale, la via “dell’opinione dei mortali”, inaffidabile perché basata sui sensi. Proprio a causa di questa incongruenza, e anche del fatto che risulta strano che Parmenide rompa in modo così drastico con la tradizione dei “fisici” cui appartiene, a partire dagli anni Settanta (Alexander P.D. Mourelatos, The Route of Parmenides, 2008) si è cercato di rivalutare anche il Parmenide physikos e di salvare questa via. Gli studiosi che fanno questo tentativo tendono a credere che Parmenide, pur non ritenendola vera, la consideri almeno plausibile; o a credere che la fisica non si identifichi, malgrado tutto, con la “via dell’opinione dei mortali”, ma piuttosto con la “via dell’essere”.
I frammenti II e VI presentano un’apparente contraddizione: il primo, infatti, sembra enunciare solo due vie, la via dell’essere e quella del non essere, il secondo, invece, sembra enunciarne tre: (1) la via dell’essere; (2) la via del non essere; (3) la via dei mortali, in cui essere e non essere si mescolano tra loro.
Di fatto, la via dei mortali si riconduce alla via del non essere, in quanto l’impossibilità di dire e pensare il non essere (frammenti II, 7-8, III e VI, 1-2; VIII, 8-9 Diels-Kranz) coinvolge rovinosamente anche quella della mescolanza tra essere e non essere.
Nel frammento II, 1-4, la dea rivela a Parmenide “quali sono le sole vie di ricerca concepibili: la prima via [che enuncia] che è, e che non può non essere / è il cammino della persuasione, infatti segue la verità; / l’altra [che enuncia] che non è, e che è necessario che non sia / e io ti dico che questo sentiero è del tutto inconoscibile / infatti non potresti conoscere ciò che non è (perché ciò non è fattibile) / né esprimerlo”.
I problemi di comprensione sono molti: (1) innanzitutto, quali sono i soggetti di “è” e di “non è”? (2) qual è il senso di “è” e conseguentemente di “non è”, visto che, come è noto, “essere” è un termine ambiguo che ha più significati? (3) che via è mai quella che dice “non è”, la sola concepibile, secondo la dea (insieme a quella che dice “che è”), ma di fatto totalmente impercorribile, data l’impensabilità e l’indicibilità del non ente?
Nell’interpretazione tradizionale, sostenuta dai frammenti VI, 1; VIII, 1-4; 32, si ritiene che il soggetto inespresso della via dell’essere sia “l’ente”, e che il soggetto inespresso della via del non essere sia “il non ente”. In questo modo, Parmenide affermerebbe: 1) l’ente è, e non può non essere; 2) il non ente non è, ed è necessario che non sia. Sebbene queste due vie non siano esclusive, in quanto l’impossibilità e la necessità non sono contraddittorie (contraddittori sono infatti il necessario e il non necessario, cioè il possibile), di fatto Parmenide sembra pensarle come tali, nel senso che se si segue una delle due, diviene impossibile seguire l’altra. Ma qual è il senso da dare a queste due vie? Secondo la spiegazione più comprensibile, che darebbe al verbo “essere” valore esistenziale, la prima via afferma che ciò che esiste, esiste e non può non esistere, mentre ciò che non esiste, non esiste, e non può esistere. Sottolineando poi che sta parlando di vie di ricerca, cioè di percorsi che non riguardano l’esperienza quotidiana, potremmo dire che per Parmenide la ricerca scientifica è possibile solo per oggetti che esistono e che necessariamente esistono (si pensi ad esempio agli oggetti matematici oppure ai concetti logici), mentre è impossibile per le cose che non esistono, a causa della loro impensabilità e indicibilità (si pensi alle chimere, o ai cavalli alati, o al quadrato rotondo). In questa condanna verrebbe coinvolta anche la via dei mortali, che sostengono che le cose ora esistono (per esempio, ad un tempo t1) e ora non esistono (per esempio, ad un tempo t2): si pensi ad alcuni insetti, che esistono in primavera e estate, ma che non esistono in autunno e in inverno. Verrebbero così relegate nel non essere, e quindi nell’impossibilità di una loro indagine scientifica, sia gli oggetti inesistenti, sia gli oggetti che non esistono eternamente (ma una domanda si pone a proposito dei non-esistenti: è davvero corretto affermare che non posso né pensarli né esprimerli? Forse Parmenide non vuol dire questo, ma semplicemente chiarire che essi non sono pensabili né esprimibili scientificamente).
Ammesso che Parmenide proponga una ricerca scientifica su ciò che esiste necessariamente ed eternamente, si pongono ora le seguenti questioni: (1) come identificare questo o questi esistenti? (2) quali sono le caratteristiche di questo o di questi esistenti? Alla prima questione non è possibile rispondere, perché Parmenide non dice nulla. Alla seconda invece sì, perché possediamo il frammento VIII, in cui Parmenide, con metodo deduttivo, dimostra che l’esistente, per il fatto di esistere, possiede determinate proprietà. In teoria, l’attribuzione di tali proprietà potrebbe permettere l’identificazione dell’esistente di cui Parmenide parla. Di fatto, il frammento VIII è talmente difficile e controverso, che su di esso gli interpreti si sono, e sono ancora, divisi. Si tratta di uno di quei luoghi disperati che dà luogo a diverse interpretazioni, fra le quali non è possibile privilegiarne alcuna.
Nei primi quattro versi del frammento VIII Parmenide afferma che “solo ancora resta il racconto della via: / che è. Su questa (via) vi sono segni / assai numerosi, che l’ente è ingenerato e imperituro, / intero di un solo genere e immobile e non privo di fine”. Qui viene dichiarata l’appartenenza di determinate proprietà all’esistente in quanto esistente. Tale appartenenza verrà dimostrata attraverso una serie di deduzioni: i versi 5-21 provano l’essere ingenerato e l’essere imperituro, i versi 22-25 l’essere intero, cioè un tutto unificato e continuo, i versi 26-33 l’essere di un solo genere e immobile, i versi 42-49 l’essere non privo di fine, cioè finito. Di fatto, però, le cose non sono così semplici. Infatti, la lista delle proprietà è problematica, così come le deduzioni. Le prime due proprietà, cioè l’essere ingenerato e l’essere imperituro, non sono oggetto di controversie, e neppure l’essere immobile, mentre le altre sono oggetto di annose dispute filosofiche e filologiche. Ma al di là di questo, ci si chiede di quale esistente è vero dimostrare queste proprietà? In effetti, l’aver stabilito che l’oggetto di ricerca è l’esistente sembrerebbe ampliare il campo d’indagine, fino ad inglobare molti esistenti (si pensi ai numeri, alle figure geometriche, ai concetti logici). Di fatto, però, i caratteri e le deduzioni presentate da Parmenide nel frammento VIII sembrano restringere il campo drasticamente.
La quasi unanimità degli studiosi, a partire dall’interpretazione di Aristotele, passando per la dossografia fino ad oggi, ritiene che Parmenide sia un monista, ovverosia che di fatto pensi che vi sia esattamente una cosa che esiste. Il problema su cui ci si è tradizionalmente soffermati riguarda il fatto che alcuni passi del frammento VIII sembrano dare a questo ente unico una connotazione decisamente spaziale, e quindi prospettare un ente fisico, da identificare con il tutto, o con la realtà o con la natura. Si pensi per esempio ai versi 22-25, in cui non si capisce se Parmenide pensi a un tutto spaziale o temporale; alla nozione di “limite” nei versi 26-31, che ancora farebbe pensare a limiti spaziali; e al celebre verso “simile a massa di ben rotonda sfera” (VIII, 42-43 Diels-Kranz). Contro questa interpretazione accreditata, e oramai, si può dire, secolare, è stata proposta negli anni Sessanta un’interpretazione estremamente interessante, ma soggetta a molte critiche, secondo cui ciò di cui Parmenide propone la ricerca è un soggetto formale che aspetta di essere “riempito” dai predicati del frammento VIII, a cominciare da quello dell’esistenza (G.E.L. Owen, Eleatic Question, “Classical Quarterly”, X, 1960, pp. 84-102). Nel caso si accolga quest’ultima interpretazione, si può proficuamente ampliare l’orizzonte di ricerca parmenidea agli enti oggetto di ricerca scientifica, e non limitarsi a un singolo ente che contraddice clamorosamente l’esperienza sensibile (in quanto ingenerabile, incorruttibile ed eterno), anche perché il monismo attribuito da Aristotele a Parmenide risulta quantomeno discutibile (si pensi all’uso dell’espressione to on, “l’ente”, che non si riferisce necessariamente a un solo ente. Si veda a questo proposito anche Jonathan Barnes, The Presocratic Philosophers, Routledge, 1982, per esempio alle pp. 203-204; 211, che mostra anche come le caratteristiche dell’esistente, tradizionalmente interpretate come fisiche, potrebbero non esserlo). In conclusione, possiamo quantomeno dire che in Parmenide si può individuare sia la proposta di una ricerca su di un ente, che si sottrae alle caratteristiche di cambiamento, nascita e morte (ma che potrebbe avere delle caratteristiche fisiche); sia una ricerca su più enti, anch’essi caratterizzati da attributi non sensibili (in cui le caratteristiche apparentemente fisiche possono di fatto essere lette come metafore poetiche).
Allievo e concittadino di Parmenide, Zenone, secondo Plutarco (Contro Colote, 1126D), partecipa a una congiura per rovesciare il tiranno Dimilo (ma altre fonti parlano di Nearco). Catturato e portato al cospetto del tiranno, forse messo sotto tortura per rivelare il nome degli altri congiurati, egli si tronca la lingua e la sputa in faccia al tiranno. Nel Parmenide, come abbiamo detto, Platone descrive una scena in cui Zenone legge agli astanti, tra cui Socrate, il suo libro. Alla fine della lettura, Socrate gli chiede di rileggere la prima ipotesi del suo primo argomento, e dopo la rilettura, gli chiede spiegazioni su come bisogna prendere ciò che Zenone ha detto, affermando: “se le cose che sono, sono molteplici, tu dici che esse debbono necessariamente essere simili e dissimili, ma questo è impossibile” (Platone, Parmenide, 127E).
Questo resoconto induce a pensare che gli argomenti presentati da Zenone nel libro fossero contro il molteplice e presentassero un andamento dicotomico. Ciò che sembra interessante è la spiegazione successiva di Socrate, secondo cui Zenone si presenterebbe in definitiva come difensore della tesi parmenidea che afferma che il tutto è Uno, salvo che Zenone la difenderebbe provando, con una serie di brillanti argomenti, la negazione della tesi opposta, ossia che il molteplice non esiste. L’aspetto ancor più interessante è che Zenone corregge Socrate, sostenendo che non è vero che con i suoi argomenti contro il molteplice egli dimostri la tesi parmenidea dell’Uno, piuttosto: “questo scritto…vuole dimostrare questo: che la tesi della molteplicità delle cose porta a conseguenze ancora più ridicole di quelle a cui porta la tesi dell’Uno” (Platone, Parmenide, 128C-D). Zenone, quindi, non sarebbe sostenitore di una tesi filosofica, piuttosto eserciterebbe un metodo dicotomico che consiste nel mostrare le conseguenze assurde di una tesi e anche della sua opposta. Per questo, forse, nella sua opera perduta Sofista (di cui ci dà notizia Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VIII 57), Aristotele sostenne che Zenone fu l’inventore della dialettica.
Contro l’idea che Zenone abbia concepito solo argomenti contro il molteplice in forma dicotomica abbiamo la testimonianza di Aristotele: egli riporta quattro argomenti di Zenone non sul molteplice ma sul movimento, che neppure sono presentati in forma dicotomica, anche se la loro struttura sembra essere quella della reductio ad impossibile (vedi infra, 121-123. Gli argomenti contro il movimento). Tuttavia, Aristotele riporta gli argomenti in modo troppo succinto per indovinarne l’articolazione completa.
Nel commento al Parmenide, Proclo dichiara che le argomentazioni di Zenone sono 40 (in Parm. 694, 23-25). Noi, a partire dalle fonti, possiamo individuarne sei, due riportate da Simplicio, citate nelle parole stesse di Zenone, e quattro riportate da Aristotele in forma molto condensata.
Nel suo commento alla Fisica (in Phys., ed. Diels, pp. 139, 5-19; 140, 27-141, 8) Simplicio riporta due antinomie, citando direttamente Zenone. Nella più articolata e interessante, chiamata “della dicotomia”, Zenone vuole dimostrare che se esistono molte cose, allora ognuna di esse è piccola e grande al tempo stesso – tanto piccola da non avere grandezza alcuna, tanto grande da essere infinita. Nel primo caso, nulla esisterebbe (e quindi neppure la molteplicità), poiché, secondo Zenone, ciò che non ha grandezza né spessore né massa non esiste. Poniamo allora che, se esiste una pluralità di cose, ciascuna debba avere grandezza e spessore. In questo caso, ci dice Zenone, ogni cosa sarà infinitamente grande.
Tale considerazione è la conclusione di un ragionamento che Zenone esprime in modo molto succinto e con un greco difficile da comprendere, e che probabilmente va inteso nella maniera seguente: (1) qualunque corpo (cioè tutto ciò che ha grandezza) comporta un numero illimitato di parti, a loro volta corpi, cioè dotati di grandezza e spessore; (2) la somma di un numero illimitato di parti di un corpo è essa stessa infinita; (3) la grandezza di un corpo è infinita. Siccome anche questa conseguenza, come quella della prima parte della dicotomia, è assurda, ne consegue che la molteplicità non esiste. Gli studiosi che hanno cercato di falsificare quest’ultimo argomento attaccano la premessa (2), affermando che la grandezza che Zenone sta qui descrivendo rientra nelle cosiddette serie convergenti (si pensi al frazionamento dell’unità: 1, 1/2, 1/4, 1/8 ecc.), cioè quelle serie infinite che hanno come risultato sempre una quantità finita. Di fatto, nulla nel testo di Zenone ci autorizza ad attribuirgli questo errore, ed è certamente possibile pensare a un corpo costituito da serie di parti non progressivamente frazionate.
Dei quattro argomenti contro il movimento menzionati da Aristotele (Fisica Z 9) riporteremo i due più famosi: quello detto “dello stadio” (di cui il famoso “Achille e la tartaruga” costituisce una versione più spettacolare) e quello “della freccia” (che pone gli stessi problemi concettuali del quarto, che potremmo descrivere come “l’argomento dei corpi allineati in movimento”).
Secondo il resoconto aristotelico del primo argomento, il movimento non esiste perché ciò che si muove deve giungere a metà del percorso prima di arrivare alla fine. Un’articolazione comprensibile vede un argomento con due premesse e una conclusione: (1) per giungere alla fine del suo percorso, un corridore dovrà compiere, una dopo l’altra, un’infinità di compiti distinti (dovrà cioè percorrere una serie infinita di punti secondo la sequenza 1/2, 1/4, 1/8 ecc.); (2) è impossibile compiere, uno dopo l’altro, un’infinità di compiti distinti; (3) il corridore non può arrivare alla fine del percorso, e quindi nulla si muove. Aristotele pensa di poter evitare la conclusione assurda attaccando (2), e sostenendo che un tempo finito di fatto è divisibile all’infinito, e che un corridore può percorrere una distanza divisibile all’infinito in un tempo divisibile all’infinito. Resta il problema di spiegare concettualmente in che modo il corridore lo può fare, e in generale di come rendere coerente il concetto di una serie infinita e al contempo compiuta.
Per quel che riguarda infine l’argomento della freccia, il resoconto di Aristotele, sempre molto succinto, afferma che la freccia in movimento è in riposo, e che questa conclusione deriva dall’ipotesi secondo cui il tempo è composto di “ora”, cioè di istanti presenti. Anche qui risulta necessario articolare l’argomento per renderlo comprensibile e valido: (1) una cosa che occupa una porzione di spazio esattamente della sua taglia è in riposo; (2) nell’istante presente, ciò che è in movimento occupa una porzione di spazio esattamente della sua taglia; (3) quindi: ciò che è in movimento è in riposo; (4) ora, ciò che è in movimento si muove sempre nell’istante presente; (5) quindi, ciò che è in movimento è sempre in riposo. Qual è il valore di questi argomenti? Quello di mostrare le difficoltà logiche di concetti di cui facciamo un uso aproblematico.