parallelismo
. Figura retorica consistente nella disposizione simmetrica dei membri corrispondenti di un periodo, considerata dalla tradizione uno dei pregi della ‛ compositio ' (v.), perché contribuisce a rendere organico ed elegante il discorso (concinnitas è il termine antico, ma più vago e comprensivo, che designa questo procedimento stilistico).
Nella prosa medievale lo sviluppo dello stile segmentato, che continua l'uso già classico della giustapposizione di membri uguali (isocolon), è spesso accompagnato dalla ricerca del p., ma in concorrenza con quest'ultimo si sviluppa, sempre entro il genere dell'isocolon, l'uso del chiasmo (v.), che attribuisce piuttosto varietà che regolarità al periodo. Il p. si trova spesso, ovviamente, in concomitanza con la ripetizione, nelle sue varie specie, anafora (v.), conversio (v.), omoteleuto, e con schemi più complessi quali l'antitesi (v.), la perissologia e l'interpretatio.
In D. il p. diviene un elemento caratterizzante della sua prosa (v.), quando questa tende soprattutto a realizzare una struttura razionalmente compatta. Anzi nella prosa volgare si può seguire il maturarsi dell'arte dantesca, dalle prove più elementari della Vita Nuova, dove troviamo la successione, piuttosto monotona, quantunque artisticamente suggestiva, di periodi strutturalmente paralleli, introdotti dalla medesima locuzione (tipico il cap. XI: Dico che quando ella apparia... e chi allora m'avesse domandato... E quando ella fosse alquanto propinqua... E chi avesse voluto conoscere, §§ 1-2), alle prove più complesse del Convivio, dove il p. retorico è soprattutto in funzione della simmetria dei rapporti logici. Per questa via, infatti, D. si libera dai limiti di quella ricerca esteriore che caratterizzava il p. degli scrittori medievali e che potremo trovare ancora, se mai, nelle epistole.
In alcuni luoghi del Convivio il p. ha una funzione eminentemente oratoria, come in IV V 13 ss. (E chi dirà...? Chi dirà...? Chi dirà...? E non puose Iddio le mani...? Non puose Iddio le mani...?). Ma a un'esigenza di rigore scientifico obbedisce l'ordine simmetrico che D. dà al periodo, quando cura il p. delle proposizioni che indicano le cause, le prove e le conseguenze di quanto viene affermato nella proposizione principale.
Talora lo stesso metodo dialettico, cui D. aderiva, quello del ‛ provare e riprovare ', suggerisce il p. di proposizioni, di cui la seconda non è che una sovrabbondante esplicazione della prima, una ‛ perissologia ', nella quale si nega il contrario di quel che prima si afferma: E ciascuna parte, quant'ella più è presso ad esso, tanto più rattamente si muove; quanto più n'è remota e più presso al polo, più è tarda (II III 14). Una funzione esplicativa ha anche l'uso delle correlative (sì come... così, tanto... quanto) che sostengono membri paralleli che s'illuminano a vicenda.
L'organico legame del discorso dimostrativo viene inoltre realizzato attraverso la ripetizione simmetrica di altre formule, che derivano dalla prosa dottrinale latina: si veda l'esempio di IV V 11 (se consideriamo... noi trovare potremo... Se noi consideriamo... noi troveremo). Il p. è talora l'elemento fondamentale di complesse, organiche e armoniose costruzioni sintattiche, nelle quali la serie delle distinzioni e suddistinzioni perde la schematicità dell'elenco e acquista un notevole ritmo letterario. Giustamente è stato indicato (cfr. Segre, p. 270) fra i più significativi passi di questo genere quello nel quale D. espone i modi di acquisto delle ricchezze (IV XI 7).
Nella prosa latina assistiamo a una ricerca di p. in funzione esornativa nelle epistole, dove tuttavia il colore è affidato spesso all'inversione e al chiasmo, a quei modi, cioè, che danno varietà al discorso. Si può citare a mo' di esempio dolore confecit et rubore confudit (XI 23), perché il p. vi è sottolineato dal doppio omoteleuto, oppure questi casi in cui concorrono l'antitesi e la paronomasia: sciens et volens... nesciens atque nolens (VI 14), nunquam pietatis et aequitatis... semper impietatis et iniquitatis (XI 14).
Nella prosa latina delle opere dottrinali il p. assume invece una funzione eminentemente scolastica, e l'incontriamo nei luoghi dove il ragionamento stesso lo richiede. Così in VE I III 2 alla distinzione fra rationale signum et sensuale seguono due proposizioni causali indipendenti, precedute rispettivamente da altre due subordinate causali: quia, cum de ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit; cumque de una ratione in aliam nichil deferri possit... sensuale esse oportuit. E in I XVI 3 le diverse attività dell'uomo sono scandite da altrettante proposizioni parallele, in cui la ripetizione è in funzione della chiarezza didascalica: in quantum simpliciter ut homines agimus, virtutem habemus... in quantum ut homines cives agimus, habemus legem... in quantum ut homines latini agimus quaedam habemus simplicissima signa...
Analogamente nella Monarchia alcuni sillogismi sono strutturati sulla base del p. dei termini, come ad es. homo potest videre et audire, ergo oculus potest videre et audire... homo non potest volare, ergo nec brachia hominis possunt volare (III VI 7); Deus est dominus spiritualium et temporalium... Pontifex est vicarius Dei: ergo est dominus spiritualium et temporalium (VII 2). Altrove il p. rafforza la foga dimostrativa, come in questa serie di distinzioni composta di brevi membri simmetricamente disposti e collegati dall'anafora: aliud est esse hominem et aliud est esse Papam... aliud esse Imperatorem, sicut aliud est esse hominem (III XI 4), o evidenzia una serie di disgiuntive antitetiche: aut velle aut non velle... aut amare aut non amare; non enim non amare est odire, nec non velle est nolle (II 4).
Nelle rime il p. non è frequente, anzi è solitamente evitato in funzione della varia armonia della strofa, ritmica. L'incontriamo tuttavia a volte proprio a sostegno della struttura chiusa e organica del componimento. Nella Vita Nuova (XXVII 3 3-4) una correlativa frequente anche nella prosa, come sì com'elli m'era forte in pria / così mi sta soave ora, chiude la prima quartina di un sonetto; in Rime LII 1-4 la prima quartina è chiusa dal p. del secondo emistichio del primo e del quarto verso (tu e Lapo ed io / ... / al voler vostro e mio); in LXXXVI 13-14 il p. del secondo emistichio degli ultimi due versi, rafforzato dalla simmetria del chiasmo nel primo emistichio, conclude il sonetto con la secchezza che merita un aforisma (ch'amar si può bellezza per diletto / e puossi amar virtù per operare). Un effetto gnomico dà un altro p. quale l'essilio che m'è dato, onor mi tegno (CIV 76). Talora invece è l'inizio del componimento a presentarsi con un'incisiva struttura parallela, come in LXI 1-2 (Sonar bracchetti, e cacciatori aizzare, / lepri levare, ed isgridar le genti), dove il p. è in verità nell'analogia della struttura chiastica dei due versi, fra i quali pur sussiste un'inversione nell'ordine (lo stesso sonetto si conclude con due membri paralleli: prendo vergogna, onde mi ven pesanza). Più complesso è il p. di XLVII 1 ss. (savere e cortesia, ingegno ed arte, / nobilitate, bellezza e riccore, / fortezza e umilitate e largo core), perché la corrispondenza implica un rapporto logico: nel primo verso i termini paralleli delle due coppie si corrispondono nel senso che il primo rappresenta una dote innata, il secondo un habitus; i tre termini del secondo verso corrispondono simmetricamente a quelli del terzo, rappresentando le fondamentali doti di natura e di fortuna che devono essere illustrate dalle corrispondenti virtù (nobiltà-fortezza, bellezza-umiltà, ricchezza-liberalità). È il caso di citare anche l'esempio di un p., in cui la simmetria è data non solo dalla presenza di due coppie sinonimiche (v. DITTOLOGIA) disposte nella stessa sede (Ciascuna par dolente e sbigottita, / come persona discacciata e stanca, CIV 10), ma dalla presenza dell'allitterazione (v.), che collega fra loro i primi e i secondi elementi delle due coppie.
Nella Commedia la stessa esigenza didattica e scientifica suggerisce un uso più largo del parallelismo. Si pensi inoltre soprattutto alla struttura della terzina, la cui unità, specie nella prima cantica, è affidata in gran parte al p. dei versi. Basterà qualche esempio fra i tanti, per vedere come il poeta affidi alla triplice ripetizione della coppia di vocaboli la simmetria dei versi nella terzina (Qual sogliono i campion far nudi e unti, / avvisando lor presa e lor vantaggio, / prima che sien tra lor battuti e punti, If XVI 22-24), oppure chiuda la terzina fra due versi che abbiano la medesima struttura sintattica (Noi eravamo ancora al tronco attesi / ... quando noi fummo d'un romor sorpresi, XIII 109-111, o siano legati dall'anafora, oltre che, ovviamente, dalla rima, includendo un verso composto di due membri paralleli (Ecco la fiera con la coda aguzza, / che passa i monti e rompe i muri e l'armi! / Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!, XVII 1-3).
Anche in Pd XXV 109-111 la terzina è chiusa dalla simmetria delle coppie (nel canto e ne la rota /... tacita e immota), ma la corrispondenza è più sottile per la sua natura antitetica.
Le combinazioni sono, naturalmente, più numerose, anche perché il p. è sempre accompagnato dalla contraria ricerca di varietas. Un esempio di questo è in Pg XXII 149-150, dove i due versi simmetricamente costruiti ammettono una variazione iniziale costituita dallo scambio fra l'aggettivo proprio e il sostantivo metaforico (fé savorose con fame le ghiande / e nettare con sete ogne ruscello). E basterà citare un esempio tipico di p. all'interno del verso, scandito dalla cesura: che quel si chere e di quel si ringrazia, Pd III 93.
Una considerazione più larga e importante di quello che possa comportare la ricerca dell'isocolon riguarda il sapiente rapporto e le corrispondenze simmetriche fra le parti nell'ambito di un episodio, di un canto, di una cantica o dell'intero poema. In questo caso bisognerà limitarsi a indicare un esempio di più stretta pertinenza con la figura retorica del parallelismo.
La divisione dei dannati nel canto XI dell'Inferno, da v. 31 a 66 è scandita, per terzine, con un p. perfetto. Una terzina (vv. 31-33) è data alla divisione generale dei tre generi di violenza e una alla divisione generale dei due generi di frode (vv. 52-54); ciascuna specie, e di violenza e di frode, viene illustrata in due terzine; si aggiunga il p. dei vv. 40 e 45 (Puote... puossi) e il p. fra l'impostazione dei tre passi riguardanti la violenza, in cui il soggetto è l'uomo, e fra i due passi riguardanti la frode (Questo modo... Per l'altro modo).
Nel Fiore s'incontra raramente il p. per lo stesso carattere discorsivo che hanno i componimenti, a meno che non si voglia considerare una forma di p. la successione dei versi generalmente conclusi in sé stessi dal punto di vista sintattico e fortemente scanditi dalla rima e accostati da un ritmo pressoché uguale e monotono. Va citato tuttavia un vero e proprio p. nel sonetto LXVI, dove il tema precettistico si svolge in una particolare cadenza attraverso una serie di corrispondenze fra i vv. 1 e 2 (Se tu hai altra amica procacciata, / o ver che tu la guardi a procacciare, dove si nota la paronomasia finale) e i vv. 5 e 6, che riprendono i primi nel concetto, e conservano guardi nella medesima sede: se tu a la novella ha' gioia donata, / sì dì ch'ella la guardi di recare).
Il Detto, con la sua successione di isocola rimati, si svolge talora nel parallelismo. Più interessanti son quelli antitetici dei vv. 23-24 (Amor non vuoi logaggio, / ma e' vuol ben lo gaggio), o dei vv. 67-68 (Per ch'i' già non dispero, / ma ciaschedun dì spero).
Bibl.-G. Lisio, L'arte del periodo nelle opere volgari di D.A., Bologna 1902, 115; C. Segre, Lingua stile e società, Milano 1963, 261-270.