TOSCHI, Paolo
– Nacque a Lugo di Romagna (Ravenna) l’8 maggio 1893, da Enrico e da Assunta Ricci.
La famiglia, pur di non grandi mezzi, riuscì a far studiare i numerosi figli (fra i quali il fratello maggiore Orazio, destinato a diventare un pittore di notorietà nazionale). Il padre era insegnante di francese al ginnasio, e appassionato cultore di dialetto e poesia popolare romagnola. Paolo raccontò di esser stato spesso mandato da lui in giro per le campagne a raccogliere canti e narrazioni in dialetto, e di aver maturato da queste esperienze giovanili l’interesse per le tradizioni popolari (P. Toschi, «Fabri» del folklore, 1958, p. 167). Frequentò le classi liceali a Faenza, dove ottenne la licenza d’onore e una borsa di studio, che gli consentì di iscriversi al prestigioso Istituto di studi superiori di Firenze. Qui studiò filologia e storia della letteratura italiana con – fra gli altri – Pio Rajna, Guido Mazzoni ed Ernesto Giacomo Parodi. La Grande Guerra lo vide arruolato come ufficiale di fanteria, impegnato prima sui fronti dell’Isonzo e del Trentino, poi inviato in Tripolitania. Alla fine del conflitto si dedicò alla preparazione della tesi di laurea in lettere, che conseguì con lode nel luglio del 1919. Tema della dissertazione (di cui Rajna fu relatore e Mazzoni e Parodi correlatori) era la poesia religiosa in Italia.
Secondo il metodo storico-filologico, caratterizzante la scuola fiorentina, il lavoro cercava di identificare i principali stili e centri di irradiazione di questa forma letteraria, accostando sistematicamente i testi scritti con quelli della tradizione orale. Questi ultimi erano classificati e analizzati metricamente e stilisticamente cercando di datarne l’origine e di ricostruirne la storia in termini di circolazione e variazione. Fin da questa sua prima opera (che venne pubblicata a Firenze nel 1935, con il titolo La poesia popolare religiosa in Italia), mostrava un radicale rifiuto della tesi romantica sull’origine collettiva e spontanea della ‘poesia popolare’; cercava piuttosto di ricondurre quest’ultima a nuclei di autorialità, sottolineando la costante interazione e i reciproci prestiti rispetto alla tradizione ‘alta’ e scritta. Si costituì così il campo di studi che occupò principalmente Toschi per tutta la sua carriera. Si trattava del folklore inteso non tanto come cultura etnografica o antropologica, ma come repertorio di forme di estetica popolare: documenti o ‘reliquie’ viventi di antiche fasi della letteratura e dell’arte, che nella storia di queste discipline potevano e dovevano essere integrate.
Subito dopo la laurea, Toschi si dedicò all’insegnamento: malgrado il suo desiderio di restare a Firenze, «la sorte e il Ministero» («Fabri» del folklore, 1958, p. 181) lo indirizzarono prima alle scuole tecniche di Sansepolcro (1920-22) e Montevarchi, in provincia di Arezzo, e successivamente all’Istituto nautico di Livorno, dove restò fino al 1931. Ottenne quindi un ‘comando’ a Roma, presso la Commissione nazionale italiana di cooperazione intellettuale, e nel 1936 presso il Museo di etnografia italiana (che aveva allora sede presso villa d’Este a Tivoli, dov’erano depositati gli oggetti della grande Mostra di etnografia italiana del 1911). Nel frattempo, tuttavia, conseguì (nel 1933) la libera docenza in letteratura delle tradizioni popolari, disciplina che cominciò a insegnare come incaricato presso la facoltà di lettere dell’Università di Roma. In questo periodo a cavallo fra gli anni Venti e Trenta la ricerca filologica e folklorica – pur non rappresentando la sua attività principale – proseguì alacremente. Mantenne i contatti con la scuola fiorentina, collaborando intensamente soprattutto con Michele Barbi nella ricerca e raccolta sul campo di poesia popolare; costruì una rete di relazioni con altri studiosi del settore folklorico e storico-religioso, fra i quali Raffaele Pettazzoni e Giuseppe Cocchiara.
Nel 1928 Toschi ebbe un ruolo di primo piano nella costituzione del Comitato nazionale per le tradizioni popolari (CNTP), fondato a Firenze nel contesto del Centro di alti studi dell’Istituto fascista di cultura. Nel maggio dell’anno successivo, sempre a Firenze, il Comitato organizzò il I Congresso nazionale delle tradizioni popolari: una importante occasione politico-scientifica che riunì tutti gli esperti italiani, ma sancì al tempo stesso la forte ingerenza ideologica del fascismo in questo settore culturale. Il regime vedeva infatti nel folklore un terreno cruciale di costruzione del consenso, e tentava di indirizzarne gli studi verso un’esaltazione nazionalista dell’italianità e dei valori conservatori del mondo contadino. Nel 1930 il Comitato rifondò la rivista Lares (uscita originariamente nel 1912 per iniziativa di Lamberto Loria, e interrotta con lo scoppio della Grande Guerra), di cui Toschi fu nominato direttore. Due anni dopo, tuttavia, il CNTP venne assorbito all’interno di una più ampia istituzione controllata dall’Opera nazionale dopolavoro, il Comitato nazionale per le arti popolari, presieduto da Emilio Bodrero (il quale divenne anche direttore di Lares, relegando Toschi a una funzione di vice).
Gli studi folklorici venivano così totalmente integrati nell’organizzazione culturale del regime, e posti al servizio dei suoi obiettivi ideologici. Non è facile valutare in che misura Toschi e altri studiosi dell’epoca furono coinvolti in questo processo di fascistizzazione. Si può credere che essi abbiano cercato strumentalmente i favori del regime per sostenere la disciplina e i suoi obiettivi scientifici: è questa la versione che è largamente passata nel dopoguerra. Ma la storiografia più accurata ha mostrato livelli di adesione e di zelo ideologico molto alti, e una convergenza tutt’altro che superficiale tra l’impostazione culturale del fascismo e le concezioni delle tradizioni popolari prevalenti in quegli anni anche in ambito accademico (Cipriani, 1979; Cavazza, 1987 e 1997).
Nel corso della seconda guerra mondiale, Toschi fu richiamato alle armi e inviato come ispettore dei musei etnografici a Lubiana, Zagabria e Spalato (Bronzini, 1969 e 1998). Nel 1949, risultò primo fra i tre vincitori (insieme a Cocchiara e a Carmelina Naselli) del primo concorso a cattedra bandito in Italia in questo ambito disciplinare, con la denominazione letteratura delle tradizioni popolari. Il suo insegnamento romano (che si chiamò invece per sua scelta storia delle tradizioni popolari) divenne dunque di ruolo. Nello stesso anno promosse un’ulteriore ripresa delle pubblicazioni di Lares, che erano state interrotte per la guerra nel 1943, questa volta come bollettino della (a sua volta rinata) Società di etnografia italiana. A pubblicarla furono le Edizioni Olschki di Firenze – il cui direttore, Aldo Olschki, aveva conosciuto Toschi nell’esercito durante la Grande Guerra ed era rimasto suo amico personale. Si aprì così, all’inizio degli anni Cinquanta, il periodo più intenso e fecondo della produzione scientifica di Toschi, che si ampliò in direzioni diverse rispetto al suo originario interesse per la poesia popolare. Per la verità, già dalla fine degli anni Venti egli aveva scritto sulla poesia non religiosa, e soprattutto sul teatro, sia sacro sia profano. Ma è negli anni Cinquanta che maturò la sua opera forse in assoluto più importante e più nota, vale a dire Le origini del teatro italiano, edita nel 1955 nella ‘collana viola’ di Einaudi (quella Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici che ha segnato l’ingresso delle scienze umane nella cultura italiana del dopoguerra).
Il libro riprendeva una tradizione filologica aperta già da Alessandro D’Ancona alla fine dell’Ottocento, volta a ricostruire la discendenza delle forme drammatiche moderne dalle espressioni della liturgia cristiana medioevale: ricostruzione che utilizza a piene mani anche le forme del teatro popolare e folklorico. Tuttavia Toschi, oltre a contestare più di un passaggio degli argomenti di D’Ancona, si spinse molto oltre nel sostenere una tesi ‘antropologica’: la derivazione del teatro popolare stesso da una antica ritualità agraria, vale a dire da cerimonie magico-religiose volte a favorire la rinascita annuale dei raccolti o l’eliminazione del male dalla comunità. In sostanza, la suggestiva visione evoluzionista avanzata da James G. Frazer in The golden bough (1890) venne assunta come base di più o meno ardite ipotesi di derivazione filologica, e fornì il pretesto per un’ampia rassegna di performances folkloriche di tipo teatrale e rituale (Fresta, 1984). Una particolare attenzione è dedicata a quelle carnevalesche che, per il tramite della commedia dell’arte, entrano in relazione con la storia letteraria della drammaturgia.
Un ulteriore campo cui Toschi si dedicò è quello dell’arte popolare, nel senso di opere figurative e plastiche – con un particolare interesse, anche in questo caso, per l’arte religiosa e per il ‘genere’ degli ex voto (di rilievo soprattutto il volume del 1960, Arte popolare italiana). Oltre che ai saggi, l’impatto di Toschi in quest’area di studi è legato alla direzione dell’allestimento del Museo delle arti e tradizioni popolari di Roma (successore del già ricordato museo di villa d’Este a Tivoli), inaugurato nel 1956 nell’attuale sede del quartiere EUR. Si tratta certamente del più importante museo folklorico italiano, basato su un’ampia collezione di oggetti regionali raccolta originariamente nel 1906 da Loria per il Museo di etnografia italiana di Firenze e poi per la Mostra di etnografia del 1911 (Puccini, 2005). Occorre infine ricordare, fra i molti impegni di Toschi, quello per la divulgazione e per la promozione della ricerca locale e regionale sul folklore. La sua Guida allo studio delle tradizioni popolari, uscita dapprima nel 1941 e poi in numerosi ampliamenti e riedizioni, era pensata come strumento metodologico di supporto non solo per studenti, ma anche per appassionati locali e ricercatori semidilettanti «sul campo» (Alliegro, 2011, pp. 387 s.).
In realtà Toschi non abbandonò mai una concezione un po’ ottocentesca della ‘raccolta’ del materiale folklorico, da affidare a reti di corrispondenti locali sotto un’accorta guida centralizzata (lui stesso, del resto, lavorò a repertori regionali nella nativa Romagna). Questa impostazione di metodo, insieme alla natura prevalentemente filologica e antiquaria dei suoi studi, lo tenne a distanza dal più moderno filone di interesse per la cultura popolare che si era sviluppato nell’Italia del dopoguerra: quello legato alle Osservazioni sul folclore di Antonio Gramsci, all’opera di Ernesto de Martino, al movimento neorealista e ai problemi del meridionalismo (Dei, 2018). Una sua diretta e aspra polemica con lo stesso de Martino sui ‘padri fondatori’ dell’etnologia italiana, avvenuta nel 1953 sulle pagine della rivista La Lapa, segnò pienamente la differenza e quasi la incommensurabilità degli approcci (Alliegro, 2011, pp. 339-341). Del resto Toschi restò sostanzialmente estraneo alle discipline etnoantropologiche, nel cui campo lo studio del folklore si andava invece sempre più nettamente collocando. È anche per questo che nel corso degli anni successivi fu piuttosto isolato sul piano scientifico.
In quella fase, la filologia della tradizione orale aveva lasciato spazio in Italia a una ‘demologia’ concentrata sulla vita materiale e sulle condizioni esistenziali dei ceti subalterni, di orientamento prevalentemente marxista. Anche alcuni suoi allievi, come Alberto Mario Cirese, erano decisamente transitati su quel versante; dal quale non si poteva non rimarcare un attardamento o perlomeno un certo eclettismo teorico di Toschi, che lo portava (specie nel suo più celebre lavoro sul teatro) a unire «interessi estetico-pittoreschi con influenze dell’antropologia positivista» (Clemente, 1978, p. 534). Riconoscendone, tuttavia, il ruolo di «maestro e educatore, nel senso che contribuì alla formazione di tanti studiosi e alla fortuna della disciplina delle Tradizioni popolari con le sue conoscenze, le sue esperienze, la sua disponibilità» (Fresta, 1984, p. 83). Fra gli allievi, all’eredità di Toschi restò invece più strettamente legato Giovanni Battista Bronzini: il quale, sostituendolo fra l’altro alla direzione di Lares, tentò di valorizzarne la lezione all’interno di un quadro teorico-metodologico più aggiornato.
Morì nella sua casa romana l’11 agosto 1974.
Opere. Oltre a quelle citate La poesia religiosa del popolo italiano, Firenze s.d., ma 1922; Romagna solatia, Milano 1925; L’antico dramma sacro italiano, I-II, Firenze 1926-1927 (antologia di testi); Dal dramma liturgico alla rappresentazione sacra. Saggi, Firenze 1940; Saggi di letteratura popolare, Milano 1943; Saggi sull’arte popolare, Roma 1944; Poesia e vita di popolo, Venezia 1946; Fenomenologia del canto popolare, parti I e II, Roma 1947-1951; Il folklore, Roma 1951 (ed. aggiornata Roma 1960); «Rappresaglia» di studi di letteratura popolare, Firenze 1956; Lei ci crede? Appunti sulle superstizioni, Torino 1957 (ed. accresciuta Torino 1968); «Fabri» del folklore; ritratti e ricordi, Roma 1958; Tradizioni popolari italiane, Torino 1959; Arte popolare italiana, Roma 1960; Invito al folklore italiano. Le regioni e le feste, Roma 1963; La leggenda di San Giorgio nei canti popolari italiani, Firenze 1964; Stampe popolari italiane dal XV al XX secolo, Milano 1964; L’antico teatro religioso italiano, Matera 1966; Il folklore: tradizioni, vita e arti popolari, Milano 1967; Bibliografia degli ex voto italiani, Firenze 1970; Le tavolette votive della Madonna dell’Arco, Cava dei Tirreni 1971 (con Renato Penna).
Fonti e Bibl.: G.B. Bronzini, P. T., ín Letteratura italiana. I critici, V, Milano 1969, pp. 2791-2806; Id., Omaggio a P. T., in Lares, XL (1974), 2-3-4, pp. 131-138; Id., Spiritualismo di P. T. in unità di arte religione e scienza, ibid., XLII (1976), 2, pp. 253-265; P. Clemente, L’arte popolare nell’attuale prospettiva critica, in Nuove conoscenze e prospettive del mondo dell’arte, suppl. e aggiorn.dell’Enciclopedia universale dell’arte, Roma 1978, pp. 530-549; R. Cipriani, Cultura popolare e orientamenti ideologici, in Sociologia della cultura popolare in Italia, a cura di R. Cipriani, Napoli 1979, pp. 13-57; M. Fresta, Il ramo d’oro di P. T. Schede di lettura, in La ricerca folklorica, 1984, n. 10, pp. 79-83; S. Cavazza, La folkloristica italiana e il fascismo: il Comitato nazionale per le arti popolari, ibid., 1987, n. 15, pp. 109-122; G.B. Bronzini, Piccole patrie, Bologna 1997; S. Cavazza, Piccole patrie, Bologna 1997; G.B. Bronzini, P. T. filologo e demologo, antropologo malgré lui, in Lares, LXIV (1998), 2, pp. 153-164; S. Puccini, L’Itala gente dalle molte vite, Roma 2005; A. D’Amato, Giuseppe Cocchiara e «Lares». Dal carteggio di P. T., in Lares, LXXII (2006), 2, pp. 485-568; A. D’Amato, Il carteggio Pettazzoni-Toschi e il II Congresso nazionale delle tradizioni popolari Udine 1931, ibid., LXXV (2009), 1, pp. 99-210; E.V. Alliegro, Antropologia italiana. Storia e storiografia 1869-1975, Firenze 2011; F. Dei, Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, Bologna 2018.