PARUTA, Paolo
PARUTA, Paolo. – Primogenito di Giovanni di Paolo e di Chiara di Giovanni Contarini, nacque a Venezia il 14 maggio 1540.
La famiglia era d’ascendenza lucchese, aggregata nel 1381 alla nobiltà marciana in premio del generoso sostegno alla guerra di Chioggia, quando, il 1° settembre 1381, per la condotta tenuta durante l’assedio di questa, Bartolomeo Paruta di Angelo fu ammesso, con i discendenti, al Maggior Consiglio; sicché la sua casata figura tra le trenta della cosiddetta nobiltà ‘curta’ o recente, posteriore alla serrata del 1297.
A una prima formazione tra le pareti domestiche seguì, per Paruta, un decennio trascorso a Padova, dove si sarebbe trasferito già a dodici anni. Qui, dal 1558 circa, frequentò nello Studio soprattutto i corsi filosofici di Marcantonio Passeri, detto il Genova e di Bernardino Tomitano, assiduo nel contempo alle lezioni d’eloquenza di Francesco Robortello e d’umanità greca e latina di Carlo Sigonio e, probabilmente, un minimo anche alle lezioni di diritto civile di Marco Mantova Benavides. Rientrato definitivamente a Venezia nel 1561, Paruta aprì la propria dimora a incontri di giovani patrizi interessati a ragionare assieme d’argomenti di comune interesse, speculativi, etici, storico-politici. Un ritrovarsi di proposito che conferisce alle riunioni un carattere di circolo ristretto, d’accademia non formalizzata, cui sono presenti in prima battuta gli aristotelici Giambattista Bernardo (1537-1602) e Paolo Loredan (1539-1599), il futuro vescovo di Ceneda Marcantonio Mocenigo (1538-1598) e in seguito Maffio Venier (1550-1586), il dichiarato fautore di Platone Dardi Bembo (1550-1602) e successivamente ancora Andrea Morosini (1558-1619).
Nel contempo iniziò per Paruta la vita pubblica: dei 42 nobili sorteggiati, il 4 dicembe 1562, per l’ingresso in Maggior Consiglio anticipato rispetto ai 25 anni richiesti, l’anno dopo, nell’aprile-luglio 1563, fu al seguito di Giovanni da Lezze e Michele Surian ambasciatori straordinari a Vienna a felicitarsi, per conto della Serenissima, con Massimiliano II dell’elezione, del 30 novembre 1562, a re dei Romani (la relazione al Senato presentata da Lezze anche a nome del collega in Venezia, Biblioteca civica Correr, Mss., Wcovich-Lazzari, 22/8). Il 25 luglio 1565 e, di nuovo, il 25 giugno 1566, fu eletto savio agli Ordini, la carica con la quale s’avvia, per il patriziato in carriera, il cursus honorum. Ma Paruta, che il 9 aprile 1567 sposò Maria di Francesco Morosini – dalla quale ebbe Giovanni (1567-1604), Francesco (1571-1646), Lorenzo (1573-1624) e Marco (1576-1629) – preferì sottrarsi a ulteriori incombenze, ritirandosi per un quindicennio dalla vita politica, optando volutamente per un prolungato periodo di studio e riflessione. Lo interruppe soltanto il 19 ottobre 1571 – quando s’apprese a Venezia del trionfo cristiano, del 7 ottobre, a Lepanto – con la solenne orazione da lui pronunciata, alla presenza del doge e dei senatori, nella basilica marciana, «in laude» dei caduti «nella vittoriosa battaglia». L’Oratione fu pubblicata l’anno dopo – dunque preceduta nella stampa da quella della successiva Oratio de victoria Christianorum ad Echinadas habita in templo divi Marci 14 K. novem. 1571 (Venezia 1571) dell’umanista Giovambattista Rasario – e per volontà non tanto di Paruta, il quale per modestia avrebbe preferito non darla alle stampe, bensì del futuro vescovo di Belluno Giovanbattista Valier (1539-99), che la dedicò a Domenico Venier.
I Della perfettione della vita politica libri tre (Venezia, D. Nicolini, 1579) videro la luce (dopo una elaborazione di almeno sette anni, con dedica a Valier, divenuto intanto vescovo), questa volta per volontà di Paruta, impaziente di far conoscere il suo lavoro, nel quale il risvolto personale del proprio rientro nella politica si combina con il rilancio, valido per tutta la classe dirigente veneziana, del primato della politica stessa, nella misura in cui si traduce in buon governo assecondato dalla ‘luce’ provvidenziale della divina approvazione. Questo l’esito della prolungata, animata discussione di cui la Perfettione sarebbe il diligente riporto, avvenuta a Trento, nell’estate del 1563, nella fase finale del concilio, tra una quindicina di persone lì convenute per l’occasione, per ben tre giorni a proposito della miglior vita: l’attiva o la contemplativa. Un dialogo tra interlocutori tutti riconoscibili, tutti connotati da convincimenti loro verosimilmente attribuibili, nello svolgersi del quale si appalesano i contrapposti argomenti dei fautori dell’impegno attivo e dei propugnatori dell’assorto meditare; e sul finire del quale sono i primi ad apparire vincenti, laddove la perfezione umanamente attingibile si realizza nel «ben reggere noi stessi, la famiglia e la patria». L’enfasi è sul generoso adoperarsi dei governanti – anche se il testo non lo precisa resta sottinteso che costoro non possono essere che veneziani – a beneficio dei governati che, con gratitudine, godono della ‘civile felicità’ loro garantita dalla sapienza civile insediata a Palazzo ducale.
E, poiché la filosofia non è «arte statuaria» che imbalsama il suo cultore nell’isolamento appartato, poiché la «più vera filosofia» sospinge alla volta del bene comune e incita alle «operazioni civili», ecco che Paruta si ripresenta sulla scena pubblica, ritorna motivato alla carriera politica. Il Consiglio dei dieci riconobbe la sua statura intellettuale con il conferimento, il 18 febbraio 1580, della prestigiosa carica di pubblico storiografo che da un lato lo impegnò per tutto il resto della sua esistenza, dall’altro, non essendo esclusiva, fu compatibile con altre nomine ed è concomitante con successivi incarichi. Preposto alla Camera degli imprestiti il 27 dicembre 1580, eletto ripetutamente – il 27 novembre 1582, l’11 giugno 1583, il 3 marzo e il 31 dicembre 1584, il 31 dicembre 1586 e il 30 dicembre 1589 – savio di Terraferma, dei tre Provveditori sopra la fabrica del Palazzo ducale nel 1583, dal 5 maggio al 29 giugno 1590 fu savio grande del Consiglio. Capitano a Brescia dall’inizio del 1591 quanto meno sino al giugno del 1592, la sua presenza in questa città è documentata da alcune lettere (Archivio di Stato di Venezia, Capi del Consiglio di dieci, Lettere dei rettori e pubblici rappresentanti, 25/33-52) nonché dalle istruzioni senatorie (Senato Terra, regg. 60-61 passim; filze 119-123 passim, dove sono lettere di Paruta al Senato del 4 e 10 maggio, 12 e 27 luglio, 17 settembre, 23 ottobre e 19 novembre 1591 e del 17 febbraio, 10 aprile, 12 e 30 maggio 1592). Dopo essere stato ordinario di Pregadi nel 1584, savio alla Mercanzia nel 1585, provveditore alle Biade nel 1587, commissario ai confini cadorini nella contesa con l’arciduca Ferdinando d’Austria nel 1589, provveditore sopra l’Artiglieria nel 1590, il 30 aprile 1592 fu eletto ambasciatore a Roma.
Raggiunta la sede in ottobre, il 30 ebbe la prima udienza e di lì a tre anni, il 26 ottobre 1595, l’ultima di congedo da Clemente VIII, seguita dalla partenza, il 28, per Venezia.
In novembre presentò la propria relazione, sottolineando, inizialmente, la compresenza, nel pontefice, di due persone, quella del vicario di Cristo e quella di principe secolare. Se domenica 17 settembre 1595 «fu fatta pubblicamente – scrive Paruta il 23 al Senato – e solennemente la ribenedizione» del re di Francia, con «l’assoluzione per esso re», nel «portico grande… avanti la chiesa di San Pietro» preceduta dall’ammissione di «tutti gli errori passati da lui commessi», proferita dai due suoi agenti e procuratori, i futuri cardinali Jacques Davy du Peron e Arnaud d’Ossat, ciò si è verificato anche per merito della pressione persuasiva del diplomatico veneziano. Veniva così perfezionata la soluzione borbonica della crisi di Francia, non più rinviabile dopo l’abiura solenne del 25 luglio 1593 e la trionfale entrata d’Enrico IV, il 4 settembre 1595, a Lione. Ne sortì – cocente smacco per la Spagna – la riapparizione della Francia ricompattata sulla scena internazionale, a riequilibrare la preponderanza spagnola e ad allentare la morsa della tenaglia asburgica sulla stessa neutralità di Venezia, ridando a questa respiro, nella prospettiva di un riconosciuto ruolo mediatorio – l’assiduo lavorio di Paruta a scalfire via via l’iniziale intransigenza pontificia, ad ammorbidirla, sino a insinuare la praticabilità – a dispetto dei fulmini antecedenti di Sisto V e della canonica inammissibilità al trono dell’eretico, facendo di Enrico Borbone il legittimo successore dell’ultimo Valois, il re Cristianissimo a pieno titolo e a tutti gli effetti.
Abilissimo fu Paruta nello sfruttare l’estradizione di Giordano Bruno, concessa dal Senato il 9 gennaio 1593, quale dimostrazione dell’incondizionata volontà della Serenissima di compiacere, anche sacrificando le proprie prerogative sovrane, papa Aldobrandini, di manifestare così pienamente tutto l’«ossequio» per la sua persona e il «rispetto e riverenza» alla Sede Apostolica da lui – di per sé ostile alla Repubblica, di per sé convinto che nello Stato marciano «s’intacchino volentieri le giurisdizioni ecclesiastiche» – pretesi. Spianato così il cipiglio antiveneziano del suscettibilissimo Clemente VIII, Paruta fu instancabile nell’insistere sul comune interesse della Roma pontificia e della Repubblica a ridurre l’invadenza soffocante dell’eccessivo strapotere spagnolo nella penisola. Un vantaggio per entrambi il ricostituirsi della monarchia in Francia, la ripresa, da parte di questa, d’una funzione, rispetto a quello, arginante e ridimensionante. Un autentico capolavoro della politica estera di Venezia – che per prima riconobbe quale re legittimo Enrico IV – il suffragio papale all’insediamento di questi. E merito innegabile dell’avvertito argomentare di Paruta, malgrado e di contro il fuoco di sbarramento e della diplomazia spagnola e dei cardinali filospagnoli, il conseguimento di quello.
Proprio quando stava procedendo nella costruzione di questo suo successo personale e della Repubblica, Paruta fu sorpreso nel pieno della tessitura dell’esito della ribenedizione da un repentino senso di svuotamento demotivante. Avverte di stare approssimandosi alla «fine della vita» e constata – nella sincerità di una sorta d’esame di coscienza, non senza spietata autoanalisi – a questa ostinatamente aggrappato, prigioniero della coazione al pensiero di «beni» che presto dovrà lasciare, con l’anima accecata vagante «a tentone» nel «campo de’ desideri mondani», incespicante tra le cose del mondo. Così scrive di sé il politico al vertice della carriera, in un franco dialogo con se stesso, nel quale si rovescia la gerarchia valoriale fissata per sé e la sua classe di appartenenza con la Perfettione. Irrompe il magistero agostiniano dell’amor Dei a illuminare crudamente la grettezza latente nell’amor sui, a ridimensionare severamente lo stesso amor patriae nel quale Paruta, coniugandolo con l’amor familiae, s’è attestato, non senza presunzione d’autorealizzarsi così al meglio, forte del dispiegato autoattivamento nell’impegno pubblico accompagnato dalla premurosa sollecitudine per moglie e figli, dall’attenzione per l’economia domestica, dall’oculata gestione delle rendite patrimoniali, dall’incremento della consistenza del patrimonio stesso. Ma così, quasi dimentico del ‘vero fine’ ultraterreno, è giunto ad anteporre l’affermazione in terra al destino celeste, s’è immesso nel livello sottostante dell’esercizio dell’‘umana prudenza’, laddove è la contemplazione – ambientabile soltanto nella «soavissima quiete» concessa, nei «chiostri… lontani dal mondo», ai «buoni padri» meditanti e oranti – colei che spalanca l’anima al volo.
Non che, di fatto, da siffatta detronizzazione dell’impegno politico dal primato assegnatogli nella Perfettione, Paruta deduca una qualche repentina diserzione dal «servire a’ bisogni della patria» veneziana in quel di Roma. Il servizio prosegue. Ininfluente praticamente il Soliloquio – tale il titolo con il quale il breve esame della propria esistenza uscirà postumo (Venezia, D. Nicolini, 1599; in edizione moderna a cura di M. Allegri, Verona 1990) – epperò, poiché l’autore il testo l’ha conservato, da intendersi quale voluta testimonianza, da parte di chi nella politica sta spendendo tutto se stesso, che in questa non c’è felicità, che ‘la gloria del mondo’ è vana. E, pure, congetturabile, un vezzo di sofistica civetteria da parte di chi, in fin dei conti, si sta autoconfidando.
Ma se l’«ultima hominis felicitas» sta «in contemplatione veritatis», ciò non toglie, che, con lo scioglimento del tragico nodo che paralizza la Francia, l’«umana prudenza» possa anch’essa, tra ‘maneggi’ e ‘negozi’, conseguire risultati positivi. Era di questi soddisfatto Paruta, tanto più che il conseguimento vedeva associate la Santa Sede e la Serenissima, i cui buoni rapporti, nella sua concezione, andavano salvaguardati in ogni caso. A tal fine, con un accordo da principe a principe, avrebbe voluto d’un tratto rimuovere la spinosissima questione cenedese, con questa sua proposta debordando dai limiti del suo mandato, sicché fu bruscamente richiamato al rispetto di questi dal Senato. Gli ingiunse il governo che non doveva «stabilir cosa alcuna», per una volta non di lui soddisfatto, non grato delle «considerationi» persuasive da lui profuse nelle udienze, non elogiante la lungimirante destrezza con la quale si regolava, questa volta non consenziente con la «prudente risposta» che connotava ogni suo giorno a Roma, spesso risolutiva per la buona riuscita di tanti intricati ‘negotii’. Delle eventuali conclusioni della controversia avrebbe dovuto occuparsi il suo successore Giovanni Dolfin. Sconfessato su questo punto il rappresentante veneto. E di ciò informato il vescovo di Lodi Ludovico Taverna, allora nunzio pontificio a Venezia: Paruta «haveva ecceduto le commissioni in prometter a Nostro Signore», s’affrettò a scrivere il 23 settembre 1595; per quel che ne sapeva il nunzio, «intentione» del Senato era far trapelare «speranza d’accomodamento» senza «venire ad alcuna conclusione» (Archivio segreto Vaticano, Nunziature, Venezia, 31, c. 145r; 32, c. 17v). Amareggiato fu per questo Paruta al suo rientro a Venezia, dove stava prevalendo, nella classe politica, un orientamento anticurialista, di intransigente presidio delle prerogative sovrane statali estraneo, in linea di fatto e di principio, alla sintonia veneto-pontificia da lui caldeggiata. Impraticabile oramai questa nel proliferare del contenzioso giurisdizionale foriero, di lì a pochi anni, d’una clamorosa rottura.
Sin inattuale, per tal verso, la visione di Paruta e ormai imminente l’avvento della lezione sarpiana. Ma pur sempre in primo piano fu l’ultimissimo Paruta nell’incalzante succedersi degli incarichi: governatore delle Entrate; savio del Consiglio ancora due volte; savio all’Eresia; sopraprovveditore alle Biade; provveditore sopra le Fortezze. Con Leonardo Donà, Giacomo Foscarini e Giovanni Soranzo fu membro dell’ambasciata straordinaria che, all’inizio di giugno del 1598, si portò a Ferrara – e sin dal 9 maggio il nunzio Antonio Maria Graziani vescovo d’Amelia avvertì che il Senato puntava su Paruta per «l’industria sua nel negotiare» e per la «buona gratia che gli dimostra Sua Beatitudine» (Nunziature, Venezia, 33, cc. 58v-59r) – per omaggiare Clemente VIII congratulandosi per l’annessione di quella e ringraziandolo per l’opera da lui svolta a favore della pace franco-ispana di Vervins del 2 maggio. Con Vincenzo Gradenigo fu designato, il 24 settembre 1598, ambasciatore straordinario alla «serenissima principessa d’Austria», la figlia dell’arciduca di Graz Carlo e di Maria di Baviera, Margherita, la quale destinata regina di Spagna transitava per Verona. E, intanto, ancora il 27 dicembre 1596, eletto procuratore di S. Marco de ultra.
Paruta morì a Venezia il 6 dicembre 1598, ad appena una ventina di giorni dal suo riferire in Collegio, il 16 novembre, sull’ultima sua missione, quella, appunto, dell’ambasciata d’omaggio a Margherita, la sposa di Filippo III re di Spagna (cfr. T. Toderini, Cerimoniali e feste in occasione di… passaggi… di duchi, arciduchi ed imperatori… d’Austria…, Venezia 1857, pp. 43-47).
L’anno dopo uscirono i Discorsi politici nei quali si considerano diversi fatti illustri e memorabili di principi e di repubbliche antiche e moderne (Venezia, D. Nicolini), in cui era incluso il Soliloquio. Raccolti qui 25 interventi a carattere saggistico composti da Paruta in ordine sparso con i quali – utilizzando la storia antica, quella romana e, in minor misura, quella greca, nonché quella moderna, specie tardoquattrocentesca e primocinquecentesca – costruisce una sorta d’antologia di fatti salienti da lui adoperati a puntello esemplificativo per una riflessione che s’aggira sulle forme di governo, sugli ‘onori’ le ‘glorie’, sul tanto e poco ‘stato’, sulle battaglie perse e vinte, sui biasimi e le lodi, sulle alleanze o meno, sulle fortificazioni. Di contro al fantasma dell’antica Roma agitato da Niccolò Machiavelli, in contrapposizione all’attivismo dell’‘ardire’, è valorizzata la ponderante cautela della ‘somma prudenza’ mirante al bene supremo della ‘quiete’. Rispetto allo Stato colossale, vittima della propria eccessiva grandezza, è situazione ottimale quella dell’aurea mediocritas marciana, della «dritta forma di governo» veneziana latrice di «felicità civile» ai sudditi e nel contempo, nella sua «neutralità tra principi», autorevole additatrice di pace al di sopra dell’altrui contendere. Nello ‘stato grande’ è insita l’ingiustizia, somma di malgoverno interno e d’espansivismo aggressivo. Ma non così nel veneto Stato ‘mediocre’, che, esempio d’equità all’interno, come assicura entro il proprio perimetro la pace sociale, così, con un’auctoritas di gran lunga eccedente il proprio peso specifico e relativo, può assumere un orientante ruolo mediatorio ai fini di un riequilibrio interstatuale europeo.
Così il Paruta più ideologo che storico. Storico propriamente detto, invece, quello attestato dalla stampa veneziana del 1605 della Historia Vinetiana dal 1513 al 1551, con l’aggiunta, nella parte seconda della storia della Guerra fatta dalla Lega de’ Principi Christiani contro Selino ottomano per occasione del Regno di Cipro. Questa ultima, nelle intenzioni di Paruta, doveva costituire il finale di un’unica continuata esposizione delle vicende della Repubblica dal 1513 al 1573. E, invece, arrestatasi la Historia al 1551, fu impossibilitato l’effettivo incorporamento. Non protratta al 1569 quella, irrealizzabile, senza soluzione di continuità, la saldatura. Sicché il racconto del conflitto per Cipro resta una compatta serrata monografia a sé stante; a sé stante pure l’Historia, la quale, efficace sinché sottolinea la sottile accortezza del destreggiarsi della Serenissima, non lo è altrettanto quando dovrebbe allargarsi ad abbracciare la simultaneità, la complessità dei fatti, a intenderli nella loro interconnessione, nella loro interdipendenza. Irreparabilmente distante, per tal verso, il pubblico storiografo lagunare da Francesco Guicciardini che, con Tucidide, costituisce il suo modello.
Opere. Le istruzioni senatorie della ambasceria a Roma sono nell’Archivio di Stato di Venezia, Senato. Deliberazioni Roma, regg. 9-10 e filze 15-17; i dispacci editi in La legazione romana di Paolo Paruta (1592-1595), a cura di G. De Leva, Venezia 1887; Discorsi politici, a cura di G. Candeloro, Bologna 1943; Un discorso inedito di P. P., a cura di G. Pillinini, in Archivio Veneto, LXXIV (1964), pp. 5-28, ove, alle pp. 5-6 la n. 2 offre un esaustivo elenco cronologico delle edizioni parutiane. Ampia la presenza di Paruta nei successivi Storici e politici veneti del Cinquecento e Seicento, a cura di G. Benzoni - T. Zanato, Milano-Napoli 1982, pp. 3-132, 491-642, 867-882, 893-904, dove figurano il secondo libro della Guerra fatta dalla Lega… e il primo libro con le pagine conclusive del terzo della Perfezzione, stampata per intero in P. P., Opere politiche, a cura di C. Monzani, I, Firenze 1852, pp. 33-405 e nella silloge Scrittori politici del ’500 e ’600, a cura di B. Widmar, Milano 1964, pp. 139-470.
Fonti e Bibl.: Calendar of State papers… relating to English affairs… in Venice…, IX, a cura di H.F. Brown, London 1897, ad ind.; I… commemoriali… di Venezia…, VII, Venezia 1907, ad ind.; F. Antonibon, Le relazioni a stampa di ambasciatori veneti, Padova 1939, ad ind.; Dispacci degli ambasciatori al Senato. Indice, Roma 1959, pp. 223 s.
G. Pillinini, Il rimaneggiamento editoriale dei discorsi politici di P. P…, in Archivio veneto, LXXVII (1965), pp. 19-25; C. Curcio, P. P., in Letteratura italiana. I minori, II, Milano 1974, pp. 1365-1381; Die Hauptinstrucktionen Clemens’ VIII…, a cura di K. Jaitner, Tübingen 1984, ad ind.; I. Cervelli, P. P., in Dizionario critico della letteratura italiana, a cura di V. Branca, II, Torino 1986, pp. 351-355; G. Benzoni, Comportamenti e problemi di comportamento…, in Lo statuario della Serenissima…, a cura di I. Favaretto - G.L. Ravagnan, Cittadella 1997, pp. 17-37; Id., Di un dialogo trentino…, in Studi veneziani, n.s., XXXVIII (1999), pp. 37-54; Id., Trento 1563: una discussione tra veneziani…, in Per il Cinquecento religioso…, a cura di M. Sangalli, Roma 2003, pp. 29-63; Id., Dalla “perfezione” alla “sovranità”…, in Lo Stato marciano durante l’interdetto 1606-1607, a cura di G. Benzoni, Rovigo 2008, pp. 9-34; M. Giani, Grano bavarese a Venezia: progetti di tratte transalpine in una lettera di Minuccio Minucci a P. P. (1597), in Atti dell’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti. Classe di scienze morali, lettere ed arti, CLXII (2013-14), pp. 371-440.