Panini
Grammatico indiano (5° sec. a.C. ca.). È autore della Aṣṭādhyāyī («Trattato in otto capitoli»), un’esauriente grammatica della lingua sanscrita, importante nel sanscrito filosofico sia perché modello formale per la strutturazione di trattati aforistici, sia perché frequentemente citata come autorità ultima in questioni linguistiche e grammaticali. L’opera consiste di circa quattromila regole grammaticali formulate in sūtra («aforismi»). Le regole sono espresse in un sofisticato linguaggio tecnico. In apertura, i fonemi dell’alfabeto sanscrito sono divisi in gruppi, denominati secondo un complesso sistema di abbreviazioni, grazie alle quali i sūtra enunciano con concisione estrema regole fonetiche, eufoniche e morfologiche da applicare a tali gruppi per la formazione di parole o combinazione tra più parole. Desinenze, prefissi e suffissi sono contrassegnati da particolari lettere, ognuna veicolo di un preciso significato sul comportamento morfologico della particella contrassegnata. Il sistema è governato da metaregole (paribhāṣā) che guidano l’interpretazione delle regole grammaticali e stabiliscono priorità di applicazione nel caso di conflitto tra più regole. Le regole sono di sei tipi: definizioni stipulative di entità grammaticali, metaregole, ingiunzioni grammaticali, restrizioni di applicazione, modifiche contingenti a certe ingiunzioni, rubricazioni. Queste ultime servono a dichiarare il campo di applicazione (adhikāra) per gruppi di regole. Una caratteristica dell’Aṣṭādhyāyī è l’intricata rete di collegamenti incrociati tra le regole che spesso prescinde dalla sequenza con cui queste sono presentate. La sequenza, in altre parole, spesso non è significativa a scopo descrittivo e applicativo. L’apparente astrusità della sequenza e del linguaggio è dovuta al principio di economia che guida P. alla ricerca della massima brevità, concisione e precisione espressiva. Le regole analizzano la lingua sanscrita riducendola a basi o radici verbali e nominali, che sono elencate in due esaurienti appendici (dhātupāṭha e gaṇapāṭha) necessarie per la comprensione e applicazione dell’Aṣṭādhyāyī. Non è ancora chiaro se tutte le componenti del sistema siano opera di P., che senz’altro si basa a sua volta su riflessioni fonologiche e grammaticali di grammatici precedenti, alcuni tra i quali esplicitamente citati nell’Aṣṭādhyāyī. Sebbene P. si occupi soprattutto della morfologia di parole corrette, il suo sistema include anche l’analisi della frase e la discussione sui composti nominali è basata su considerazioni sintattiche; benché non ne offra una definizione esplicita, la sua concezione di frase sembra in parte coincidere, almeno nell’interpretazione offerta da Patañjali, con quella della Mīmāṃsā: «un gruppo di parole forma una frase con significato univoco se ogni parola del gruppo mostra dipendenza dalle altre quando separata da queste». L’Aṣṭādhyāyī è inoltre ricca di spunti semantici. P. usa il termine bhāṣā per indicare il sanscrito usato dalle persone colte e allude al fatto che, nonostante le regole di derivazione formulate nella stessa Aṣṭādhyāyī, l’uso linguistico delle persone colte è un’autorità superiore per quanto concerne il significato delle parole. P. in generale accetta il principio secondo cui le radici verbali sono le basi semantiche alle quali vengono aggiunti affissi, ma lascia anche spazio a radici nominali che non sono derivabili da radici verbali (in seguito fu raccolta una lista di regole chiamate uṇādi per rendere conto dell’etimo di tali radici nominali). P. tratta la funzione semantica delle parole da un punto di vista denotativo o primario, tralasciando riflessioni sugli usi connotativi e metaforici (➔ lakṣaṇā). Tali usi, tuttavia, vengono giustificati da autori successivi anche in base ad alcuni aforismi di Pāṇini. Similmente, Patañjali e altri commentatori di P. suggeriscono che le funzioni sintattiche o casi dei nomi vadano applicati in modo elastico a situazioni non esplicitamente indicate da P., come nel caso dell’uso del locativo in ‘il villaggio sul Gange’, in cui il locativo indica la prossimità dal fiume e non la presenza sopra di esso. P. è consapevole della duplice funzione di un’espressione di riferirsi sia alla propria forma sia al suo referente. Nel linguaggio ordinario una parola si riferisce al suo significato, a meno che non sia tra virgolette (cioè seguita da iti in sanscrito). Per permettere l’uso metalinguistico delle regole morfologiche dell’Aṣṭādhyāyī, invece, vale l’opposto: in generale le parole sono intese come riferite alla propria forma, mentre la particella iti è usata per mostrare il riferimento al significato.