SAVELLI, Pandolfo
– Romano, nato probabilmente nel quarto decennio del Duecento, Pandolfo fu forse il minore tra i sei figli del potente Luca Savelli (v. la voce in questo Dizionario).
Nulla è noto di lui sino agli anni Sessanta; la sua carriera, come quella di tutti i Savelli, è scandita infatti da un primo spartiacque costituito dalla nomina cardinalizia, con il titolo di S. Maria in Cosmedin, conseguita dal fratello Giacomo (1261) mentre il secondo e successivo discrimine per le fortune politiche, sociali ed economiche dei Savelli fu ovviamente l’elezione di costui al papato nel 1285, con l’assunzione del nome di Onorio IV.
Con il fratello Giovanni, Savelli fu senza ombra di dubbio tra i maggiori e più attivi sostenitori romani di Carlo d’Angiò e ne pagò le conseguenze nel novembre del 1267, quando Enrico di Castiglia (fratello del re Alfonso X), senatore di Roma da pochi mesi, mise in atto una dura azione nei confronti dei principali esponenti del partito guelfo romano, Napoleone e Matteo Orsini, Angelo Malabranca, Pietro Stefaneschi, Riccardo di Pietro Annibaldi e Giovanni Savelli, fratello di Pandolfo; li attirò con un tranello in Campidoglio e li fece imprigionare. Il pontefice Clemente IV sollevò indignate proteste per l’accaduto, ma non prese alcun provvedimento contro il senatore. Alcuni dei prigionieri furono presto rilasciati, altri furono condotti nel castello di Monticelli e poi a Saracinesco e furono liberati solo dopo la battaglia di Tagliacozzo dell’agosto del 1268.
Pandolfo Savelli non fu arrestato, ma i duri provvedimenti del senatore castigliano lo colpirono ugualmente. Le dimore, le munitiones e le torri che lui e suo fratello Giovanni avevano nella città furono attaccate e distrutte per volontà di Enrico di Castiglia, istigato, a quanto pare, dai più accaniti avversari politici dei due fratelli, Pietro Romani de Cardinali e Stefano di Alberto Normanni, come indicano chiaramente due missive di Carlo d’Angiò del 1271.
Con Giovanni, Pandolfo militò nelle schiere di Carlo d’Angiò nella battaglia dei Piani Palentini (meglio nota come battaglia di Tagliacozzo) del 23 agosto 1268. Al ritorno a Roma, come vincitori trionfanti, i guelfi romani, e tra loro i due fratelli Savelli, si affrettarono a conquistare i vari capisaldi ghibellini in città.
Nel decennale (1268-78) senatorato romano di Carlo d’Angiò, Savelli e il fratello Giovanni mantennero una posizione di influenza, come lascia intendere nella primavera del 1271 un loro intervento presso Carlo d’Angiò affinché fosse resa giustizia al loro concittadino Guido di Guido de Iordano che era stato condannato ingiustamente da Giacomo de Cantelme, vicario del re-senatore. E quando Nicola III (il potente cardinale Giangaetano Orsini, eletto a Viterbo nel novembre 1277) con la costituzione Fundamenta militantis Ecclesie riformò il sistema di governo del Comune romano, imperniandolo sulla concessione vitalizia della carica senatoria al papa stesso e sulla delega a due suoi fiduciari (18 luglio 1278), insieme con Giovanni Colonna Pandolfo fu il primo a essere designato (era peraltro legato da vincoli di parentela al nuovo papa: sua sorella Marsibilia era andata in sposa a Napoleone di Matteo Rosso Orsini, fratello del pontefice).
Il personale carisma sociale e politico di Savelli è riconosciuto da tutte le forze che si affrontavano nello scenario politico romano. Tolomeo da Lucca lo ricorda come «multus prundens et vir humanitatis non modice», asserendo che quando «fiebat senator potentissimus erat in tantum quod latrones et malefactores fugiebant ac facie eius et, si inveniabantur, sine misericordia suspendebantur. Unusquisque in domo sua erat securus, strate romane erant sicut antiquitus» (Tholomeus von Lucca, Historia..., a cura di L. Schmugge - O. Clavuot, 2009, pp. 622 s.).
Con la morte di Nicola III e l’elezione il 22 febbraio 1280 di Martino IV (il francese Simon de Brie), gli equilibri politici a Roma mutarono nuovamente. Il nuovo papa, infatti, pur accettando la carica senatoria che i romani gli offrivano a vita, come al suo predecessore, alla fine concesse il vicariato senatoriale proprio a Carlo d’Angiò, il quale a sua volta si fece rappresentare per un breve periodo da Filippo de Lavène e poi da Guglielmo Stendardo, che si rivelò del tutto privo di capacità amministrative. Nella situazione di grave tensione che si determinò (con l’assedio di Palestrina, ove si erano rifugiati gli Orsini con il sostegno dei Colonna, da parte dello Stendardo), Savelli esercitò una riuscita mediazione fra i due schieramenti ed evitò lo scontro armato, che avrebbe potuto coinvolgere la stessa città di Roma (Die chronik..., a cura di W. Koller - A. Nitschke, 1999, p. 284).
A conferma della diffusa fiducia nelle sue doti politiche, e della popolarità di cui godeva nel 1284, Pandolfo fu designato senatore insieme ad Annibaldo Annibaldi, al termine di un periodo molto turbolento seguito a una rivolta popolare verificatasi nel mese di gennaio dello stesso anno, a causa (o anche a causa) di una carestia, che vide affermarsi alla guida della città Giovanni Malabranca, quale capitaneus Urbis et reipublice defensor.
Le testimonianze relative al senatorato di Savelli risalgono al periodo novembre 1284-giugno 1286. La prima è un mandato del pontefice Martino IV al suo tesoriere affinché elargisca un prestito di 3000 fiorini ai due senatori (6 novembre 1284); la seconda è un privilegio di rappresaglia contro il Comune e i cittadini di Genova concesso da Pandolfo e Annibaldo a favore di un mercante romano depredato da corsari genovesi mentre da Terracina trasportava per mare le sue merci in Sicilia (21 maggio 1285); l’ultima è un’istanza d’appello presentata a Pandolfo verso una sentenza emessa dai magistri edificiorum Urbis (13 giugno 1286).
La relativa tranquillità che regnò a Roma nel successivo biennio del pontificato di Onorio IV Savelli (1285-87) dipese certamente anche dalla sapiente azione di Pandolfo, che – come detto – sapeva dosare prudenza e fermezza di azione. L’anonimo continuatore della cronaca di Martino Polono sottolinea, quasi sorpreso, come, durante il senatorato di Savelli e Annibaldo, «quieti fuerunt romani» (Le Liber Pontificalis..., a cura di L. Duchesne, 1892, p. 462).
Insieme con l’attività politica e amministrativa svolta a Roma, Savelli portò avanti parallelamente una carriera di podestà itinerante, come molti romani suoi contemporanei, soprattutto esponenti dei casati baronali, operando (prevedibilmente) in Italia centrale. Già nel 1267-68 e ancora nel 1285-86 era stato podestà a Todi, retta peraltro attraverso l’operato di vicari, rispettivamente Giovanni Boccamazza e Fulco de Azonibus. Fu anche podestà di Nepi, in data imprecisata ma anteriore al 1293, allorquando si procedette alla redazione di un Registrum allibrati, nel quale appaiono censiti trecentotrenta nepesini proprietari di immobili (G. Caetani, Regesta chartarum..., 1922, p. 67).
Tuttavia l’incarico di maggior durata – dal 1286 al 1295 – fu quello di rettore di Corneto (oggi Tarquinia), città che con il suo porto costituiva allora il principale polo di approvvigionamento granario del distretto romano. Il controllo di Corneto, sottomessa da Roma nel 1258, fu un nodo politico importantissimo per Roma e un continuo problema dovuto alla persistente insubordinazione dei cornetani: si arrivò forse alla nomina a rettore di Savelli (che svolse il suo incarico attraverso diversi vicari di sua fiducia) nel tentativo di raggiungere un punto di equilibrio nelle tensioni tra le due città.
Un’ultima importante tappa della carriera politica di questo abile mediatore fu percorsa nell’anno 1297. Il 13 marzo di quell’anno Bonifacio VIII, ottenuta la carica di senatore di Roma a vita, delegò il governo della città per un anno a Savelli, il quale indubbiamente era allora persona assai gradita al pontefice. E pochi mesi dopo, quando il Comune capitolino stabilì di tentare una mediazione nel conflitto sempre più forte fra il papa e i Colonna inviando a questi ultimi una delegazione per trattare la resa, si indovina chiaramente la sollecitazione di Savelli nella lettera papale, approvata dagli organi municipali ma non gradita dallo stesso pontefice. Il tentativo fallì, nonostante le indubbie qualità e la moderazione di Savelli, da tutti riconosciute; ma fu ripreso nel mese di novembre, questa volta però per iniziativa del papa. Savelli ne fu ancora protagonista, affiancando il cardinale Giovanni Boccamazza ed Egidio Romano, verso il quale Bonifacio VIII riponeva la massima fiducia.
Anche questo tentativo non sortì gli effetti desiderati, e in qualche modo anche questo dovette contribuire a incrinare i rapporti tra Savelli e il papa, che tra l’altro doveva considerare abbastanza ambiguo l’atteggiamento del suo casato. Ne è prova il fatto che l’incarico senatoriale non fu rinnovato a Savelli, al quale fu preferito Rostagno, figlio di Giacomo de Cantelme.
Savelli, della cui moglie si ignora il nome, ebbe almeno due figli, Giacomo e Andrea, quest’ultima defunta nello stesso anno di suo padre (1306) e sepolta assieme lui come attesta l’epigrafe funeraria nella chiesa romana di Santa Maria in Aracoeli: «X Hic iacent dominus Pandulfus de Sabello et domina Andrea filia eius qui obierunt anno Domini M° CCC° VI°, in vigilia beati Luce» (Die mittelalterlichen grabmäler..., 1994, p. 65).
Di Pandolfo si ricorda anche il dono di una campana alla basilica di S. Maria Maggiore: «Ad honorem Dei et beate Marie Virginis ista campana facta fuit per Alfanum postmodum in Anno Domini MCCLXXXIX renovata est per dominum Pandulphum de Sabello pro redemptione anime sue. Guidoctus Pisanus et Andreas eius filius me fecerunt» (Saxer, 2001, p. 183).
Al pari del fratello Onorio IV, Pandolfo soffrì di una grave forma di gotta; Tolomeo da Lucca (Historia..., cit.) si sofferma sulla gravità di questa sua affezione affermando: «sic fuit impeditus in dicta passione, quod ab aliis ferebatus de loco ad locum» (p. 622).
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