Pandolfo Collenuccio
Poeta e prosatore di notevole valore, Pandolfo Collenuccio fu un umanista fermamente convinto del valore della cultura nuova. La sua biografia può essere definita integralmente politica, occupata tra cariche pubbliche, attività diplomatica, conoscenza diretta dei protagonisti della storia della seconda metà del Quattrocento e dei primi anni del Cinquecento. La sua opera più importante, il Compendio de le Istorie del Regno di Napoli, rappresenta uno dei contributi più significativi della cultura napoletana del Cinquecento.
Pandolfo Collenuccio nasce a Pesaro il 7 gennaio 1444. Egli vive l’apogeo e la crisi dell’equilibrio italiano, costruito dopo la pace di Lodi e fondato sulla coesistenza più o meno pacifica tra i cinque potentati, ducato di Milano, Repubblica di Venezia, ducato di Toscana, Stato della Chiesa e Regno di Napoli: apogeo, legato soprattutto all’assenza, intorno alla metà del Quattrocento, di grandi potenze in grado di minacciare la stabilità delle più importanti formazioni politiche italiane, ancora fondate sul protagonismo delle città di origine medievale; crisi, determinata dall’incapacità di qualcuno degli Stati regionali della penisola a svolgere un ruolo di aggregazione, di egemonia e di difesa dell’Italia e dalla nascita, a fine Quattrocento, di Stati moderni in grado di assumere la funzione di grandi potenze in Europa.
Prima ben integrato nella corte pesarese, è poi podestà di Firenze nel 1490 con l’appoggio di Lorenzo de’ Medici; l’anno successivo gli viene proposta la podesteria di Mantova, ma vi rinuncia a favore del figlio Teofilo, perché nominato consigliere ducale di Ercole d’Este. Intensa è la sua attività diplomatica tra Stati germanici e corte pontificia nel 1493-94. La discesa di Carlo VIII e l’emergere, poi la crisi, della potenza di Cesare Borgia e del suo tentativo di costruire un’unità politica nel centro della penisola sono gli eventi più importanti che fanno da sfondo agli ultimi anni di vita di Collenuccio. I dispacci scritti in qualità di ambasciatore presso Alessandro VI offrono un’analisi acuta del contesto romano in cui è attesa la catastrofe militare e la perdita della ‘libertà’ italiana. Collenuccio parla di ignoranza, ignavia e cecità, delle responsabilità di un pontefice, Alessandro VI, che vive nella paralisi totale, nell’incapacità di assumere qualsiasi decisione, mostrando esclusivamente un notevole talento istrionico. L’11 giugno 1504, con l’accusa di tradimento, viene giustiziato a Pesaro.
L’opera più importante di Collenuccio è il Compendio de le Istorie del Regno di Napoli. Iniziata nel 1498 per desiderio del duca Ercole d’Este, l’opera si interrompe per la morte dell’autore nel 1504 e viene pubblicata postuma a Venezia nel 1539.
Risente dell’ambito cortigiano ferrarese, non nel senso di un condizionamento servile e adulatorio verso gli Estensi espresso nella dedica al duca, quanto nel senso delle profonde istanze civili: Collenuccio fu soprattutto un umanista, fermamente convinto del valore della cultura nuova e dell’esigenza di guardare a un modello di virtù e stabilità politica che per lui si identificava in Lorenzo il Magnifico. Anche la scelta del volgare al posto del latino va nella direzione di un Umanesimo civile capace di dialogare in ambiti più ampi rispetto a quelli raggiunti dalla lingua classica: e il volgare fu motivo non secondario della grande diffusione e del successo del Compendio.
Collenuccio era stato espressamente incaricato della stesura del Compendio dal duca Ercole d’Este, legato alla corte aragonese sia perché da giovane era stato educato a Napoli sia per il matrimonio con Eleonora, figlia del re Ferrante.
È stato Benedetto Croce a richiamare l’attenzione sulla denominazione di regno o reame di Napoli e sul fatto che Collenuccio sia il primo di una lunga serie di storici, tra i quali Angelo Di Costanzo, Pietro Giannone e Pietro Colletta, a usare quella denominazione «spontanea e popolare, se anche diplomaticamente non giustificata» (Croce 1992, p. 129). Ma non è tanto e solo questo il motivo della straordinaria importanza dell’opera di Collenuccio nella storia della cultura napoletana. È piuttosto la piena consapevolezza del Regno di Napoli come problema storiografico.
I sei libri che formano la struttura del Compendio costituiscono, per la prima volta, una compatta unità storica con una sua coerenza interna. La ricostruzione di Collenuccio parte dai quadri geografici del Regno e dalle città più importanti con un cenno agli uomini che le hanno rese famose. È ancora al quadro naturale del territorio che fa riferimento l’autore quando parla di terremoti ed eruzioni del Vesuvio. Il racconto si snoda a partire da Augusto, quindi procede attraverso le invasioni barbariche, i Longobardi, l’impero di Carlomagno. È chiaro a Collenuccio il termine a quo della fondazione del Regno: il periodo normanno. Seguono in successione la fase sveva, angioina e aragonese. L’autore non nasconde le sue antipatie e le sue simpatie: critica i sovrani angioini, anche per il loro atteggiamento e la loro politica filopapale, guarda con straordinario favore ai sovrani aragonesi, sia perché sono tra i protagonisti dell’equilibrio politico italiano, sia per i rapporti di amicizia con i duchi estensi. Il tentativo di costruire uno Stato solido e autonomo nel Regno di Napoli incontra, per Collenuccio, non pochi ostacoli. Il primo è l’azione della Chiesa, a cui fa comodo un vicino subordinato. E l’inclinazione antipontificia dell’autore del Compendio spiega anche perché figure come quella di Federico II abbiano uno straordinario risalto: agli occhi di Collenuccio egli è uno dei pochi sovrani che abbia svolto una condotta politica tesa a rendere più solido lo Stato con leggi efficaci e con l’esercizio del ruolo di garante super partes. Il secondo ostacolo alla formazione di una comunità politica ben ordinata nel Regno è costituito dalla feudalità che rappresenta un elemento di disgregazione del potere centrale. L’opera è retta
da un saldo punto di vista storico e politico. Il criterio fondamentale di giudizio era che nella storia del Mezzogiorno aveva dominato la nota ricorrente di una generale instabilità politica, che non aveva consentito la formazione di un forte potere sovrano in grado, se non di procurarne una espansione, almeno di difendere il Regno dalle offese esterne e di assicurarvi, innanzitutto, una propria continuità dinastica. Di tale instabilità il Collenuccio vedeva una duplice ragione genetica. Da un lato, c’era un tratto antropologico-culturale proprio dei meridionali, e cioè una loro perenne incostanza, inclinazione alle novità, irrequietezza indocile a qualsiasi disciplina, estrinsecata in un comportamento politico fondato sui corsi e ricorsi di un puntuale tradimento dei propri sovrani, dei propri signori e dei propri alleati e consorti. Dall’altro lato, c’era una struttura politico-sociale basata sul predominio di nobili e baroni, tanto tirannici ed esorbitanti nel governo dei loro feudi e averi quanto tesi a procurarsi con ogni mezzo incommensurate ascese politiche e guadagni materiali e patrimoniali (Galasso 2011, p. 1028).
Si tratta di un giudizio che riprende e rilancia lo stereotipo dei meridionali come gente instabile e inaffidabile. Secondo Croce, la storia di Collenuccio
è dominata dalla visione delle miserie del Regno, il quale, negli ultimi cinque secoli, altro non era che una palestra di ambiziosi, di avari e di tiranni, esposto sempre a rapine e calamità delle guerre e dal concetto della instabilità e tradimento dei regnicoli […]. E allora – continua Croce – passando dalla particolare taccia di incostanza a investigare nel generale la moralità delle popolazioni napoletane, si cominciò a porre in contrasto la bellezza naturale del paese meridionale, che si paragonava a un paradiso, con gli uomini che vi nascevano […] e sorse il proverbio, che ebbe corso nel Cinquecento e anche dopo: che il Regno di Napoli era un paradiso, ma abitato da diavoli (Croce 1992, pp. 109-10, in corsivo le parole di Collenuccio).
Ma Collenuccio estende quel giudizio sul piano storico e politico, dimostrando così la genesi ultranapoletana del Compendio: esso raccoglie umori e stereotipi sui napoletani, già circolanti nella cultura e nell’opinione del tempo passato e presente, per poi elaborare un giudizio storico-politico, destinato a pesare anche nei decenni successivi. Basti pensare al ruolo condizionante del Compendio sulle diagnosi severe dei residenti veneti sul Regno di Napoli nel corso del Cinquecento. In pratica esso diviene il maggiore responsabile della crisi italiana della fine del Quattrocento e della perduta autonomia della penisola:
Il merito del Collenuccio stette dunque, innanzitutto e soprattutto, nell’aver coagulato una serie di motivi presenti nella riflessione politica del suo tempo e nell’averne dato una sistemazione che colpì subito per la chiarezza del discorso di fondo che vi era condotto e per l’ordinato svolgimento dell’esposizione (Galasso 2011, pp. 1030-31).
Il Compendio si distacca per più motivi dalla tradizione annalistica. Questa era stata spesso una disorganica elencazione di fatti. Collenuccio segue invece un rigoroso criterio selettivo nei fatti da narrare. Eminentemente umanistico è il nuovo, scrupoloso approccio alle fonti, soprattutto quelle documentarie ed epigrafiche, delle quali si dichiarano caratteristiche ed eventuali discordanze. Le opere a cui si richiama Collenuccio sono quelle antiquarie di Biondo Flavio, del Sabellico, del Platina sulle vite dei pontefici, di Guglielmo di Tiro sulla storia orientale, di Burcardo di Ursperg, del ferrarese Mainardino Aldigieri, autore di una biografia perduta di Federico II, dei giuristi Angelo e Baldo degli Ubaldi da Perugia, le Croniche di Guglielmo da Podio. Erudizione e perizia filologica costituiscono le caratteristiche essenziali dell’Umanesimo collenucciano, apprezzato anche da Pico della Mirandola, che aveva studiato con il pesarese a Bologna, e da Angelo Poliziano.
La storia della ricezione del Compendio, delle sue fortune e sfortune, attraversa quattro fasi: la prima va dal 1539 al 1548, un decennio in cui l’opera di Collenuccio vede ben quattro edizioni; la seconda è rappresentata dall’edizione Ruscelli del 1552, decisiva per il rilancio dell’opera; la terza coincide con gli anni della pubblicazione della Historia di Angelo Di Costanzo; la quarta è relativa all’ulteriore discussione dei temi trattati da Collenuccio e si prolunga fino a Tommaso Costo al principio del Seicento.
Tra il 1539 e il 1548 il Compendio è stampato quattro volte presso l’editore Michele Tramezzino di Venezia. È proprio il testo collenucciano che inaugura l’attività dei due fratelli Francesco e Michele Tramezzino, che disponevano di una succursale anche a Roma: il che contribuì alla diffusione nazionale del Compendio soprattutto nel Regno di Napoli. Il testo è riprodotto e divulgato nella sua versione originaria, con correzioni grafiche e linguistiche e brevissimi commenti e postille che servono ad attirare il lettore sui contenuti più arditi come la figura di Federico II, liberato dall’accusa di «persecutore della Chiesa».
La svolta nella storia editoriale del Compendio – la seconda fase – avviene con l’edizione di Giovanni Maria Bonelli del 1552, curata da Girolamo Ruscelli: svolta «non solo a causa dell’intervento ruscelliano sul testo, ma anche per l’elaborazione critica finale che prefigura con millimetrica precisione il destino dell’opera collenucciana» (Masi 1999, p. 29). Il compito di Ruscelli è in primo luogo quello di ripulire la lingua del Compendio. Al viterbese Ruscelli è stato riconosciuto il merito di aver dato un contributo all’unità letteraria dell’Italia attraverso la scelta del toscano come scelta linguistica anche del Mezzogiorno letterario:
Fu allora completato quel percorso (in ordine di tempo) Firenze-Venezia-Roma, che non solo per Napoli, né solo per le questioni linguistiche e letterarie, rappresentò il percorso italiano per eccellenza; e Venezia, in particolare, anche per il ruolo dominante da essa assunto quale massima sede editoriale d’Italia, rappresentò, lungo questo percorso, un esito culminante (Galasso 2011, pp. 1031-32).
L’edizione del Compendio è accompagnata da Ruscelli con un Breve discorso sull’opera di Collenuccio. Dopo aver affrontato le questioni di lingua e stile, Ruscelli passa a discutere il giudizio sulla storia di Napoli e del Regno. È questa la parte più importante del Breve discorso, perché entra nel merito dell’identità storica, politica e culturale del Mezzogiorno. In sostanza, i rilievi mossi a Collenuccio sono due: la non corrispondenza alla verità in molti passaggi dell’opera; il non aver consultato i documenti che si conservavano nell’Archivio della Zecca di Napoli. Questi limiti incidono sull’interpretazione complessiva della storia napoletana, caratterizzata per Collenuccio da ribellioni, instabilità, infedeltà dei sudditi. Ruscelli sostiene esattamente il contrario: la sostanziale fedeltà e stabilità della nazione napoletana; l’apparenza della ribellione che nasconde la sostanza dell’aspirazione a restaurare l’ordine sconvolto da nuovi padroni; rivolte del popolazzo, ma unione, stabilità e fedeltà della genuina gente napoletana e spagnola. La «Napoli fedelissima» di Ruscelli, soprattutto nella sua componente nobiliare, si contrappone così alla «Napoli infedele» di Collenuccio.
La fortuna editoriale dell’opera e gli emendamenti interpretativi di Ruscelli contribuirono a diffondere ulteriormente il Compendio fra dotti e nobili.
Le contestazioni avanzate al Collenuccio insistevano soprattutto sulla sua difettosa informazione documentaria ed esperienza diretta del Regno, ossia su motivi tali da far immediatamente presa su quella opinione. Le contestazioni fattuali erano inoltre accompagnate da una ideologia aristocratica […] che si pone, insieme, come ideologia nazionale del Regno […]; ed è ovvio che questa impostazione ideologica sia stata pensata e formulata in corrispondenza con un giudizio su quella che doveva apparire e veniva individuata come la realtà politico-sociale più forte nel quadro del Regno (Galasso 2011, p. 1034).
L’edizione Ruscelli e il Breve discorso vedevano la luce nella fase di sviluppo del sistema imperiale spagnolo, in cui era più che mai necessario consolidare il vincolo di solidarietà ispano-napoletano:
i signori attuali di casa d’Austria regnanti a Napoli non potevano e non dovevano dare al giudizio del Collenuccio sulla storia napoletana e sulla sua deteriore qualità etico-politica un’importanza superiore a quella di un’opera utile e importante, ma discutibile non solo nella sua tesi, bensì anche nei suoi fondamenti filologici e critici (Galasso 2011, p. 1035).
La terza fase della ricezione del Compendio e delle differenti reazioni che suscitò in giro per l’Italia, e in particolare a Napoli, è rappresentata dalla pubblicazione dell’opera di Angelo Di Costanzo (1507-1591), Historia del Regno di Napoli, apparsa in prima edizione parziale nel 1572 e completa nel 1582. In comune con Collenuccio è la scelta dei tre soggetti principali della storia napoletana, il regno, la monarchia, il baronaggio. Ma per Di Costanzo essi vengono a formare un trinomio assai stretto: in perfetta simbiosi, sono i protagonisti dell’identità storica della nazione napoletana. Collenuccio aveva imputato al baronaggio la responsabilità principale del disordine e della mancata realizzazione di un potere centrale, capace di difendere il Regno dagli attacchi esterni. Di Costanzo esalta il baronaggio e lo rende partecipe sia del destino positivo del Regno sia della fedeltà alla monarchia. I rovesciamenti e le variazioni dell’Historia rispetto al Compendio sono molteplici e sostanziali.
In primo luogo per Di Costanzo la nobiltà di Napoli e il baronaggio fanno parte dello stesso ordine sociale, hanno dimostrato una capacità militare superiore agli altri ceti, sono entrambi costitutivi di quella nazione aristocratica, vero asse portante della storia napoletana. In secondo luogo è significativa la scelta della periodizzazione: da Federico II in avanti, ossia gli ultimi tre secoli di storia, attraverso i quali è possibile verificare l’assunto di fondo dell’opera e approdare quindi al culmine della realizzazione dell’assolutismo monarchico sotto gli Austrias. Un assolutismo, si badi bene, assai differente dalla concezione di Collenuccio, per il quale nobiltà e baronaggio erano i suoi antagonisti e i responsabili dell’indebolimento del potere centrale.
Di Costanzo, alla concezione oppositiva di Collenuccio – più potere feudale e aristocratico, meno potere statale – sostituisce una diversa concezione collaborativa, fatta di integrazione, che sposta, tuttavia, l’accento sul ruolo e sul peso della nobiltà:
Non era vero insomma che la crescita dello Stato fosse alternativa alla fioritura del baronaggio. Il contrario era vero: se cresceva lo Stato, cresceva pure il baronaggio. Era la linea dell’assolutismo regio a riuscire deleteria, non quella di un’energica direzione dello Stato e delle sue attività, condotta con una capacità di aggregazione che sapesse inalveare nell’azione dei sovrani le energie e le risorse del Regno, e, tra le energie, innanzitutto e soprattutto quelle delle classi più alte. Le prevaricazioni del baronaggio potevano aver luogo soltanto se l’iniziativa dei sovrani era carente. Ben più: non si mancava di dire esplicitamente che non sempre l’interesse della Corona e quello del Regno erano identici, mentre gli errori e la fiacchezza dei sovrani pregiudicavano sempre gli interessi del Regno. In discussione è, dunque, messa sempre la direzione politica del paese, non la condotta del baronaggio del quale viene anzi posta in fortissimo rilievo la capacità militare e la consistenza delle forze mobilitabili (Galasso 2011, p. 1039).
Dalle edizioni Tramezzino alla pubblicazione dell’Historia di Di Costanzo non può sfuggire la funzione di apripista, di pionieristico approccio storiografico, di stimolo a interrogarsi sull’identità storica di Napoli e del Regno, svolta dal Compendio di Collenuccio. In pratica, dalla prima fortuna dell’opera alla revisione di Ruscelli al rovesciamento polemico, operato da Di Costanzo, tutte le ricostruzioni e le interpretazioni storiografiche ruotavano intorno agli interrogativi del Compendio: quale era stato il rapporto tra monarchia e baronaggio nei secoli delle diverse dinastie che si erano succedute nel Regno? Si poteva attribuire a fattori antropologici – la natura sediziosa dei napoletani, la loro tendenza alla ribellione – la fragilità di una formazione politica che era stata dominata da diverse potenze straniere?
Dalla metà del Cinquecento Ruscelli aveva fatto scuola. Aveva in pratica aperto la strada a due tendenze: gli interventi sul testo di Collenuccio, una tendenza destinata ad avere una lunga vita fino al principio del Seicento; la prosecuzione del dibattito sui temi affrontati da Collenuccio. La prima tendenza fu seguita dalle Aggiunte di Mambrino Roseo (fino al 1556), Aniello Pacca (fino al 1562) e Tommaso Costo (1610). Nel 1613 quest’ultimo dava alle stampe per l’editore Giunti di Venezia tutti i testi precedenti con sue personali annotazioni e aggiunte. La seconda tendenza vide protagonisti Benedetto di Falco, Scipione Ammirato, Aniello Pacca, Gian Battista Carafa, lo stesso Costo. Di Falco giustificava la congiura dei baroni contro Ferdinando I con ragioni di incompatibilità genetica tra signori di origine normanna, francese, tedesca, sveva e il re aragonese, e con il fatto che rivolte potevano scoppiare ovunque. Si trattava di una notazione di particolare interesse, tesa a porre l’accento sulla disomogeneità delle stratificazioni di genti e popoli accumulatesi nel corso di oltre tre secoli. Ammirato invitava a non leggere con la stessa regola condizioni storiche diverse per differenti fattori e a non schiacciare gli interessi del presente su quelli del passato. Pacca fu attento a inserire le vicende napoletane nella più ampia vicenda spagnola ed europea. Nel 1572, nelle Historie del Regno di Napoli, Gian Battista Carafa polemizzava ancora con Collenuccio a proposito delle accuse di infedeltà e di incostanza, che non trovavano ragion d’essere se non nella soggezione dei napoletani a dominatori diversi. Per il resto, comunque, Collenuccio restava una fonte privilegiata per Carafa, sia a proposito della provenienza e dell’identità delle genti e delle nazioni fondatrici di Napoli, sia per le tante analogie nel racconto storiografico, sia per i ritratti dei protagonisti.
Tommaso Costo fu «in parte il regista e il protagonista, in parte il sistematore e il giudice, in parte l’innovatore e il prosecutore» (Galasso 2011, p. 1050) del Compendio di Collenuccio e, più in generale, della storiografia napoletana tra Carlo V e Filippo III. Costo era stato per quarant’anni segretario presso nobili famiglie del Regno di Napoli: i Carafa marchesi di San Lucido, i d’Avalos, i Pignatelli marchesi di Lauro, i di Capua principi di Conca. Aveva ricoperto la carica di segretario della Gran Corte dell’Ammiragliato grazie al sostegno del di Capua. In relazioni strette con molti intellettuali napoletani del tempo tra i quali Di Costanzo, Giulio Cesare Capaccio, Scipione delli Monti, svolse intensa attività letteraria in proprio e come produttore per il mercato librario. Ristampò nel 1582 la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso e alcune opere di Luigi Tansillo. Scrisse il trattato Del segretario (1604) dedicato in particolare alla tecnica della scrittura delle lettere. La sua attività di storiografo fu prevalentemente dedicata alle annotazioni al Compendio. Del 1583 sono le Addizioni e note al Compendio dell’istoria del Regno di Napoli. Pacca era arrivato con la sua ricostruzione fino al 1563, Costo si spingeva fino al 1582. Nella sua Giunta al Compendio comprese poi gli avvenimenti fino al 1586. La definitiva edizione, vera sintesi del lavoro precedente, vide la luce a Venezia nel 1613.
Due erano soprattutto i contenuti nuovi e più significativi dell’opera finale di Costo: la ricostruzione puntuale dell’eccidio dell’Eletto del Popolo, Vincenzo Starace (1585), il cui responsabile principale era dall’autore identificato nel viceré duca d’Osuna; l’elenco di tutti i donativi imposti dagli spagnoli nel Regno.
Nell’Apologia istorica del Regno di Napoli contro la falsa opinione di coloro che biasimarono i regnicoli d’incostanza e di infedeltà (1613), una storia della monarchia da Ruggero II a Filippo III, Costo, oltre a ribaltare il topos collenucciano, accusava di tirannia i sovrani di Napoli, perché avevano conquistato il Regno non con il consenso dei sudditi, ma con la forza e la violenza delle armi.
Insomma le argomentazioni principali dell’Historia di Di Costanzo erano riprese e rilanciate dal Costo, ma con una differenza sostanziale. L’obiettivo dell’autore non era l’esaltazione dell’aristocrazia napoletana, ma l’affermazione dell’identità e della dignità nazionale del Regno.
Si concludeva così la vicenda secolare del Compendio che, dopo stratificazioni e accumuli successivi, integrazioni documentarie, aggiustamenti e revisioni linguistiche, stilistiche e interpretative, era consegnato alla cultura europea come uno dei contributi più significativi della cultura napoletana del Cinquecento. Nonostante, o forse grazie, al processo di sedimentazione e accumulazione secolare, il Compendio dimostrava tutta la sua vitalità sia come opera storica di alto profilo, capace di coniugare erudizione, filologia, sensibilità per il rapporto passato-presente, sia come stimolo e spinta a ricercare le ragioni dell’autocoscienza nazionale napoletana.
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