PALLAVICINO DELLE FRABOSE, Filippo Guglielmo, barone di Saint Remy
PALLAVICINO DELLE FRABOSE, Filippo Guglielmo, barone di Saint Remy. – Nacque a Torino il 22 giugno 1662 da Vittorio Maurizio Pallavicino di Ceva (1617-1691), secondo marchese delle Frabose, e da Françoise Chabod de Saint Maurice (m.1678).
Apparteneva a una delle famiglie più in vista della corte sabauda. Il padre univa al ruolo di gentiluomo di camera del duca la carica di governatore della cittadella di Torino, che dopo la Guerra civile (1638-42) fra madamisti (sostenitori di Cristina di Borbone, vedova del duca Vittorio Amedeo I, e filo-francesi) e principisti (alleati del cardinal Maurizio e del principe Tomaso di Carignano, fratelli del duca, filo-spagnoli), veniva conferita solo ai personaggi di provata fedeltà alla Francia. Il forte legame dei Pallavicino delle Frabose con la corte di Parigi è indispensabile per comprendere la vicenda di Filippo Guglielmo e dei suoi fratelli. Quando il padre morì la guida della famiglia fu assunta da Adalberto II Tomaso (1645-1719), che ne rilevò anche il ruolo nel partito francese: gentiluomo di camera del duca dal 1671, nel dicembre 1696 fu creato cavaliere dell’Annunziata e due mesi dopo, nel febbraio 1697, divenne gran scudiere di Savoia, mantenendo la carica sino alla morte. Era, inoltre, governatore dell’Accademia reale. Accanto a lui era il fratello minore Luigi Maurizio (1647-1721), l’‘abate delle Frabose’, primo elemosiniere di Madama Reale. La famiglia era quindi, compatta, al vertice della fazione filo-francese allora egemone alla corte sabauda.
Filippo Guglielmo era il quinto figlio maschio e gli fu dato il titolo di barone di Saint Remy (Remigio), un piccolo centro del Ducato d’Aosta, nell’alta Valle del S. Bernardo. La condizione di cadetto rendeva naturale la scelta della carriera ecclesiastica o di quella delle armi. Non sappiamo se per spinta della famiglia o per inclinazione personale Pallavicino abbracciò quest’ultima. Tutta la sua vita, comunque, mostra una continua e convinta adesione alla vita militare. Dopo aver frequentato la paggeria di corte, divenne ufficiale nel reggimento delle Guardie del corpo. Egli si trovò a iniziare la propria carriera militare in contemporanea con la rottura di Vittorio Amedeo II con la Francia, che portò lo Stato sabaudo a schierarsi accanto a Inghilterra e Olanda nella Guerra della Lega d’Augusta (1690-96). Durante tale conflitto Pallavicino diede buona prova di sé e fu poi fra i cortigiani che più plaudirono la ripresa dei buoni rapporti con la Francia, suggellata dalle nozze fra Maria Adelaide di Savoia, figlia del duca, e il conte di Borgnogna, nipote ex filio di Luigi XIV. Le speranze di Pallavicino erano però destinate a scontrarsi con il concreto pragmatismo del duca, che allo scoppio della Guerra di successione spagnola (1700-13), dopo un’iniziale alleanza alla Francia, si schierò con gli Asburgo. Per i Pallavicino ciò determinò una forte crisi delle fedeltà.
Una parte importante della famiglia passò al servizio francese: fu la scelta, fra gli altri, del nipote di Filippo Guglielmo, Carlo Emanuele (1667-1709), erede della famiglia, che trovò la morte alla battaglia di Malplaquet nelle fila dell’esercito di Luigi XIV, e del fratello maggiore Filiberto Amedeo (1656-1720 ca.), detto «il conte di Perlo», senatore nel Senato di Nizza, che fu condannato a morte nel 1705 e terminò la sua carriera in Francia, come presidente del Senato di Perpignan.
Filippo Guglielmo restò fedele a Vittorio Amedeo II, standogli accanto durante le complesse vicende del conflitto, quando lo Stato fu quasi invaso dalle truppe francesi. Nel 1705 fu governatore della fortezza di Verrua e l’anno dopo si mise in luce tra i difensori di Torino assediata dai francesi, tanto che il suo valore fu ricordato dal sacerdote Francesco Antonio Tarizzo nel suo poema in piemontese L’arpa discordata (ed. a cura di R. Gandolfo, Torino 1968, p. 51). Anche un testimone certo non parziale come Edward Southwell, soggiornando a Torino vent’anni dopo l’assedio, quando suo governatore era proprio Pallavicino, ne ricordava il valore, rimarcando come accanto a lui si fossero trovati dei brillanti ufficiali irlandesi (Londra, British Library, Manuscripts, Eg. 3805, E. Southwell, Journal of my journey from Paris (1725-1726), c. 13v).
Promosso tenente maresciallo nel 1708, due anni più tardi Pallavicino fu scelto da Vittorio Amedeo II come governatore militare di Susa, provincia di confine che aveva fortemente risentito del conflitto. Nel 1712 fu trasferito a Cuneo, dove restò sino al 1714, quando fu nominato governatore di Alessandria.
Era questo un incarico particolarmente delicato, poiché i ceti dirigenti della città, annessa allo Stato sabaudo solo l’anno prima in seguito alla pace di Utrecht, rimpiangevano grandemente il governo spagnolo. Si trattava, quindi, di costruire la fedeltà del territorio attraverso una politica che pur garantendo privilegi e concessioni non rinunciasse, per quanto possibile, all’applicazione delle riforme decise dal governo centrale.
Pallavicino si dimostrò abile in tale incarico, cui dovette però rinunciare per qualche tempo in seguito all’invasione spagnola della Sicilia nel 1718: l’anno successivo, infatti, risulta inviato nell’isola col titolo di generale d’artiglieria. Egli vi si trovava ancora quando nel febbraio 1720 il Trattato dell’Aia sancì lo scambio della Sicilia con la Sardegna. Vittorio Amedeo II il 20 maggio lo scelse quale suo primo vicerè e lo inviò a Cagliari, dove restò sino al 1723, gestendo, non senza difficoltà, la transizione dal secolare governo spagnolo a quello sabaudo.
Pallavicino giunse a Cagliari in luglio e il 2 settembre ricevette nella cattedrale il giuramento di fedeltà dei rappresentanti degli Stamenti. Il compito era arduo: da una parte i ceti dirigenti dell’isola erano prevalentemente filospagnoli dall’altra v’era una forte fazione filoaustriaca. Se a ciò s’aggiungono le condizioni di arretratezza sia economica sia culturale dell’isola si comprende come lo stesso governo di Torino, lontano dall’esser sicuro del mantenimento di questo regno, non volesse per il momento investirvi troppe risorse. Principali collaboratori di Pallavicino erano il monregalese Giovan Giacomo Fontana, contadore generale del Regno, e il segretario P.L. Labiche, preziosissimo per la sua conoscenza della lingua spagnola, e che era stato a lungo collaboratore del segretario di Stato agli Interni, Pierre Mellarède. Forti conflitti vi furono invece con l’intendente generale, il nizzardo Pietro Paolo Capello. Alla loro origine erano i poteri esercitati da Pallavicino che, seguendo la prassi spagnola, mirava a esercitare un potere pressoché assoluto, non solo nel politico e nel militare, ma anche nell’economico e nel giuridico. Le Regie Costituzioni, tuttavia, avevano stabilito che questi ultimi terreni fossero competenza di intendenti e prefetti: sebbene esse non fossero valide in Sardegna, i funzionari piemontesi non volevano rinunciare alle prerogative che avevano conquistato negli altri territori dello Stato. Inoltre, la creazione a Torino, nel 1721, del Supremo Consiglio di Sardegna limitò ulteriormente i poteri viceregi.
Fra le vicende che caratterizzarono il primo viceregno di Pallavicino vi fu l’arresto, nel febbraio 1722, del vicario episcopale di Oristano Pietro Francesco Marras, accusato di malversazione, e causa di durissimi contrasti col clero isolano, per lo più filospagnolo.
Pallavicino lasciò l’isola nell’agosto 1723, dopo l’arrivo del nuovo viceré l’abate Carlo Alessandro Doria del Maro, e riprese le funzioni di governatore di Alessandria. Pochi mesi dopo, il 30 gennaio 1724, fu nominato governatore della Cittadella di Torino, incarico che ricoprì sino al 20 settembre 1731. Nonostante i contrasti durante il viceregno, Vittorio Amedeo II riponeva in lui ancora piena fiducia. Nel 1725, fra l’altro, lo pose a capo del consiglio di guerra chiamato a giudicare del comportamento del conte Francesco Agostino delle Lanze di Sales, che come governatore della Savoia si era macchiato di alto tradimento. Nonostante delle Lanze fosse fratellastro del sovrano, Pallavicino richiese la pena di morte, poi commutata nell’esilio a vita.
Nel marzo 1726 fu nuovamente nominato viceré di Sardegna. Grazie all’azione del marchese d’Ormea, Vittorio Amedeo II aveva ottenuto che Roma riconoscesse il dominio sabaudo sull’isola e ciò rendeva possibile una politica più energica, per la quale Pallavicino pareva la persona più adatta. Le sue condizioni di salute, tuttavia, erano ormai precarie e dovette lasciare l’isola già nel settembre 1727. Durante il suo secondo mandato la sua principale battaglia fu l’introduzione delle lingua italiana, all’epoca pressoché sconosciuta agli isolani, divisi tra popolo minuto che parlava il dialetto locale, e ceti dirigenti, che usavano lo spagnolo. Rientrato a Torino, il 15 agosto 1729 il re lo creò cavaliere dell’Ordine dell’Annunziata.
Ripreso il comando della Cittadella, Pallavicino ebbe confermata la carica da Carlo Emanuele III, salito al trono per l’abdicazione del padre nel settembre 1730. Resta oscuro, invece, il suo ruolo durante il tentativo di ritorno sul trono da parte di Vittorio Amedeo II un anno più tardi.
Nella sua History of the abdication of Victor Amadeus II (London 1732) Adalberto Radicati di Passerano racconta, infatti, che la notte del 28 settembre 1731 Vittorio Amedeo II si sarebbe recato alla Cittadella di Torino, chiedendo di vedere il governatore della stessa, il barone Pallavicino di Saint Remy. Il governatore, però, si sarebbe rifiutato di ricevere il sovrano, provocando il disappunto di questi, che contava sul suo appoggio per assumere il controllo della capitale. In realtà, già il 20 settembre Carlo Emanuele III aveva ordinato la rimozione di Pallavicino – giudicato troppo fedele al vecchio sovrano – e lo aveva sostituito col marchese Vittorio Amedeo Seyssel d’Aix (1679-1754). È probabile, quindi, che Vittorio Amedeo II, recandosi alla Cittadella, non vi avesse incontrato Pallavicino ma il suo successore, vedendosi così precluso l’accesso alla capitale.
Nominato gran ciambellano del re lo stesso 20 settembre 1731, Pallavicino si trovò a ricoprire una delle principali cariche di corte, senza aver quasi esperienza d’incarichi curiali. In ogni caso, sopravvisse solo pochi mesi alla catastrofe del sovrano che aveva fedelmente servito per tanti anni.
Morì a Torino il 16 febbraio 1732.
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