PALLAVICINI di PRIOLA, Emilio
PALLAVICINI di PRIOLA, Emilio. – Nacque a Genova l’8 novembre 1823 da Valentino Giuseppe e da Anna Maria dei conti Scoffiero.
I marchesi Pallavicini di Priola erano un ramo cadetto di una storica casata del patriziato genovese, che ricoprì ruoli importanti sia negli antichi Stati della penisola, sia in diversi contesti europei.
Emilio iniziò la carriera militare, uno dei percorsi tradizionali del suo ambiente sociale, come allievo dell’Accademia di Torino, graduandosi sottotenente di fanteria nel 1842. Giovanissimo, condivise l’esperienza del rinnovamento dell’esercito sardo con coetanei come Giuseppe Govone, Raffaele Cadorna, Maurizio de Sonnaz, Gustavo Mazé de la Roche. Nel 1848 entrò nel corpo dei bersaglieri, organizzato dal generale Alessandro Ferrero della Marmora. Partecipò ai combattimenti della prima guerra d’indipendenza, fu nominato luogotenente e si distinse in battaglia tanto da ottenere riconoscimenti e decorazioni. Il suo reparto, che diventò una forza scelta dell’armata sarda, cominciò a rivestire un valore simbolico, divenendo un’icona dell’Italia risorgimentale.
I bersaglieri furono anche un efficace strumento per la politica interna nell’aprile 1849, quando, dopo la sconfitta di Novara e la firma dell’armistizio con gli austriaci, a Genova si verificarono dei moti che portarono alla formazione di un governo provvisorio, accompagnato dalla mobilitazione di settori repubblicani e mazziniani. Il governo di Torino intervenne con mano dura e la città fu bombardata e presa d’assalto. I bersaglieri furono decisivi nella sanguinosa riconquista di Genova: il giovane ufficiale e il suo reparto ne forzarono le porte, un’azione quest’ultima che fruttò a Pallavicini la medaglia d’argento e lo mise in evidenza presso gli alti comandi.
Quando il Piemonte diventò il principale protagonista dell’unificazione italiana, l’élite militare a cui apparteneva Pallavicini fu continuamente impegnata in campagne esterne al Regno di Sardegna e l’esercito rappresentò un importante vettore dell’intreccio fra il nazionalismo sabaudo e la politica di Cavour. Il giovane ufficiale, al comando di una compagnia di bersaglieri, fece parte del corpo di spedizione piemontese che raggiunse nel 1855 gli alleati franco-britannici in Crimea. Nel 1859 era in prima linea durante la seconda guerra d’indipendenza e partecipò allo scontro di Casale Monferrato. Nella battaglia di San Martino si distinse, fu ferito, promosso e decorato.
Qualche mese dopo la conclusione del conflitto in Lombardia, nel maggio 1860, iniziò la campagna garibaldina in Sicilia. Alla fine dell’estate, dopo lo sbarco dei volontari in Calabria, Cavour decise di intervenire nel Regno delle Due Sicilie, invadendo lo Stato pontificio. Pallavicini era nel corpo di spedizione inviato al Sud e nel settembre 1860 partecipò alla conquista di Perugia, al comando di un battaglione. Giunto nel Mezzogiorno, l’esercito piemontese fu tenacemente contrastato dai difensori della dinastia borbonica e dell’autonomia delle Due Sicilie. Pallavicini partecipò alla fase finale dell’assedio della piazzaforte di Civitella del Tronto, che la resistenza della piccola guarnigione napoletana trasformò in un simbolo dell’estrema difesa dell’ex Regno. In quei mesi, si trovò a combattere una guerra che non si limitava agli eserciti in divisa, come in Lombardia o nelle Marche, per la consistente presenza di guerriglieri irregolari filoborbonici nelle zone circostanti. Il crollo dello Stato aveva fatto implodere le istituzioni, trasformando il decennale scontro tra liberalismo e legittimismo in un conflitto civile che raccoglieva, moltiplicandole, antiche tensioni politiche e sociali. La fortezza di Civitella si arrese il 20 marzo 1861 e Pallavicini, che firmò la resa insieme al vicecomandante borbonico Raffaele Tiscar, meritò per queste azioni combinate la medaglia d’oro al valor militare.
Pallavicini, Cialdini, Ferrero della Marmora, Alfonso della Chiesa, Antonio Franzini, Ferdinando Augusto Pinelli e molti della loro generazione furono progressivamente impegnati, con risultati alterni, nelle principali emergenze militari e politiche nel Mezzogiorno, dove si concentravano le maggiori difficoltà della nuova Italia. Nel novembre 1861 Pallavicini fu posto al comando dei bersaglieri, che si erano dimostrati particolarmente efficienti nell’azione di controinsurrezione delle rivolte legittimiste dell’estate precedente. La crisi meridionale non riguardava però solo la resistenza borbonica: crescevano i contrasti anche con i democratici. Quando nel 1862 Garibaldi attraversò la Sicilia, annunciando la spedizione su Roma, la situazione precipitò. L’impresa garibaldina poteva minacciare il difficile equilibrio raggiunto tra le correnti nazionaliste e, soprattutto, creare una esplosiva tensione con la Francia di Napoleone III. A Pallavicini fu affidato il complicato compito di fermare Garibaldi, senza provocare una crisi irreparabile tra gli attori del compromesso unitario. I garibaldini sbarcarono in Calabria alla fine di agosto. Il 29 dello stesso mese la colonna fu affrontata dall’esercito italiano. Un brevissimo conflitto a fuoco provocò alcune vittime tra le due parti e il ferimento anche di Garibaldi. La drammatica situazione fu risolta dallo stesso Pallavicini: ottenne personalmente la resa del generale nizzardo e dei suoi volontari, gestendo poi la loro pronta evacuazione senza altri scontri (furono però fucilati alcuni disertori dell’esercito).
Pallavicini era diventato l’uomo forte del governo nelle emergenze meridionali. Promosso tenente generale il giorno dopo l’episodio di Aspromonte, decorato ancora una volta, ebbe l’incarico di affrontare con decisione la guerriglia legittimista. Il brigantaggio contava decine di grandi e piccole bande, una vasta rete di solidarietà e complicità, capi come Carmine Crocco, Giuseppe Caruso, Michele Caruso, Giuseppe Nicola Summa, che lo stesso Pallavicini definì insuperabili nella pratica della guerriglia.
Egli elaborò una teoria della controinsurrezione che implicava un sistema generale di persecuzione, basato su alcune linee fondamentali: difesa e coinvolgimento della popolazione civile; repressione dura dei fiancheggiatori e incoraggiamento delle defezioni e del pentitismo; controllo delle risorse locali e utilizzo di propaganda politica; attività incessante di colonne mobili miste di regolari e guardie nazionali civili; presenza sul campo del comandante operativo e una prioritaria attenzione alle comunicazioni. L’approvazione nel 1863 della legge Pica per la repressione del brigantaggio rese applicabile il suo schema.
Le province del Mezzogiorno dove era più radicato il brigantaggio furono organizzate in zone di guerra. Il Beneventano e il Molise furono la prima area affidata a Pallavicini, il quale sperimentò immediatamente e con successo la sua dottrina. Le operazioni iniziarono nell’autunno del 1863. Le sue forze ingaggiarono ben 35 combattimenti, isolando le bande di Michele Caruso e logorandole fino a quando lo stesso capo guerrigliero fu catturato e fucilato. La stessa sorte subirono molte formazioni minori. Subito dopo il generale si trasferì al comando delle forze mobili di Bari e iniziò il rastrellamento delle pianure pugliesi. La strategia era sempre identica: persecuzione incessante, collaborazione con le forze locali, incoraggiamento del pentitismo. Nella primavera del 1864 Pallavicini passò al comando di una nuova zona di guerra, Melfi e Bovino, la roccaforte del brigantaggio meridionale. Riuscì a ottenere molte defezioni e la collaborazione di uno dei principali capi della formazione di Crocco. Non mancarono proteste e critiche di settori delle istituzioni e della magistratura, per i suoi metodi giudicati oltre i confini della legalità. Ciononostante, una lunga serie di scontri si ripeté, con successi alterni, fino a quando il famoso guerrigliero fu sconfitto e fuggì a Roma. I capi più famosi furono uccisi (Summa, Angelantonio Masini, Giuseppe Schiavone, Rocco Chirichigno) o si consegnarono (Vito Vincenzo Di Gianni, Agostino Sacchittiello). Nel 1865 furono distrutte le ultime bande superstiti: il centro della resistenza legittimista e del brigantaggio era definitivamente conquistato.
Pallavicini si spostò quindi al comando della zona militare di Cosenza e Catanzaro. Anche in questo caso, le sue istruzioni furono criticate dal ministero dell’Interno e dal prefetto, ma erano sostenute dagli ambienti locali che chiedevano fermezza verso briganti e guerriglieri. Il generale costruì un forte nella Sila che diventò il suo comando tattico. In pochi mesi annientò gran parte delle bande. Durante la campagna conobbe, e sposò, a Catanzaro, Ottavia Manfredi, appartenente alla ricca borghesia di tradizioni napoleoniche e liberali molto radicata in Calabria.
Lasciò il Sud solo per continuare la sua esperienza nelle guerre risorgimentali. Nel 1866, iniziata la campagna contro l’Austria (la cosiddetta terza guerra d’indipendenza), ritornò al comando dei bersaglieri e guidò l’avanguardia nella confusa avanzata dell’esercito italiano sul Po.
Nel 1868 gli fu affidato l’incarico di liquidare definitivamente il brigantaggio. Fu posto al comando generale di tutte le operazioni militari. Le bande residue sopravvivevano nelle province di Terra di Lavoro, Aquila, Benevento e Campobasso, unendo gli ultimi partigiani borbonici con gruppi di giovani criminali. Pallavicini pose il suo quartier generale a Caserta, spostandosi poi nelle aree interessate dalle operazioni e anche in altre province più a sud (Avellino, Salerno e Lucania). Utilizzò metodi oramai ben collaudati. Tra la primavera del 1868 e l’inizio del 1870 il suo successo fu quasi completo. Il brigantaggio era finito, ridotto a gruppi residuali che furono spazzati via nei primi anni Settanta.
Nel gennaio 1870 si allontanò definitivamente dalle province napoletane. Nel settembre dello stesso anno, partecipò all’ultima campagna del Risorgimento, la presa di Roma. Terminò la sua carriera al vertice dello Stato e delle istituzioni, completando lo straordinario percorso dei militari piemontesi della sua generazione. Negli ultimi anni fu al comando delle divisioni di Palermo (1878) e Roma (1885). Nel frattempo giunse nelle alte sfere della politica e nell’entourage della famiglia reale: fu nominato senatore (1880), poi aiutante generale onorario del re (1880-82) e, infine, primo aiutante di campo del nuovo monarca Umberto I (1890). Nel 1897 dopo una carriera durata mezzo secolo, lasciò l’esercito.
Morì a Roma il 15 novembre 1901.
Opere: Necrologia del luogotenente generale cavaliere Amedeo Vialardi di Verrone, governatore titolare di Fenestrelle, già comandante la Brigata Granatieri Guardie, Torino 1839; Report of General P., in A. Maffei di Broglio, Brigand life in Italy. A history of Bourbonist reaction, II, London 1865, pp. 227-257; Istruzione teorica ad uso delle truppe destinate alla repressione del brigantaggio nelle province di Terra di Lavoro, Aquila, Molise e Benevento, Napoli 1868; Istruzioni per le truppe incaricate della repressione del malandrinaggio in Sicilia, Palermo 1880; Relazione a s. E. il Ministro della Guerra sulle grandi manovre nell’Emilia, Roma 1888.
Fonti e Bibl.: Lettere, documenti e materiali iconografici relativi a Pallavicini di Priola sono rinvenibili nei seguenti depositi archivistici: Roma, Archivio dell’Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, Fondo Relazioni, memorie e diari delle guerre d’indipendenza e delle campagne per l’Unità d’Italia; Fondo Carte del brigantaggio nell’Italia Meridionale (1860-1870); Ibid., Museo centrale del Risorgimento, Archivio, bb. 121, 130, 134, 135, 136; Archivio Riboli, b. 492; Fondo Calandrelli, b. 120; Fondo Cosenz, b. 326; Sezione iconografica, cass. B, C, XVIII. Inoltre: C. Manfredi, La spedizione sarda in Crimea nel 1855-1856, Roma 1896, II ed. ibid. 1956; F. Molfese, Storia dei brigantaggio dopo l’Unità, Milano 1964, pp. 161, 164, 168, 223, 366, 368, 375-380, 386, 397-400, 405; A. Scirocco, Il Mezzogiorno nell’Italia unita (1861-1865), Napoli 1979, pp. 146, 204, 214; R. Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale. Regime eccezionale e leggi per la repressione dei reati di brigantaggio (1861-1865), Bologna 1980, pp. 15, 159 s.,194-206; F. Barra, Il brigantaggio in Cam-pania, in Archivio storico per le province napoletane, CI (1983), pp. 65-168; L. Tuccari, Memoria sui principali aspetti tecnico-operativi della lotta al brigantaggio dopo l’Unità (1861-1870), ibid., pp. 333-396; S. Lupo, Il grande brigantaggio. Interpre-tazione e memoria di una guerra civile, in Storia d’Italia (Einaudi), Annali 18, Guerra e pace, a cura di W. Barberis, Torino 2002, pp. 492, 501; Archivio storico del Senato, Banca dati multimediale, I senatori d’Italia, II, Senatori dell’Italia liberale, http://notes9.senato.it/web/ senregno.nsf.