PALESTINA (XXVI, p. 73)
Popolazione (p. 87). - Non è stato eseguito nessun censimento dopo quello del 18 novembre 1931, che dava 1.035.821 abitanti; ma i calcoli dell'Ufficio di statistica permettono di seguire il movimento ascensionale della popolazione e i mutamenti demografici, commessi soprattutto con l'immigrazione ebraica degli ultimi anni. Al 30 giugno 1937 la popolazione era valutata a 1.383.000 ab., dei quali 876.000 musulmani (di contro a circa 760.000 nel 1931), 386.000 ebrei (di contro ai 175.000 nel 1931), 110.000 cristiani (90.600 nel 1931), 13.000 Drusi, e 182 Samaritani. L'immigrazione fu, secondo le cifre ufficiali, di 65.867 persone nel 1935 (di cui 63.086 ebrei), di 31.671 nel 1936 (29.727 ebrei). Le nascite furono del 45 per mille e le morti del 16,1 per mille nel 1936.
L'immigrazione ebraica affluisce in gran parte nei centri urbani (le colonie agricole ebraiche, cresciute a 206, avevano nel 1936 una popolazione complessiva di circa 97.000 ab.) e perciò talune città si sono negli ultimi anni enormemente accresciute, soprattutto Tel Avīv, che dal 1931 ha triplicato la popolazione, e con circa 140.000 ab., nel 1936, è oggi la città più popolata. Gerusalemme conta circa 125.000 ab. (90.000 nel 1931), Ḥaifā quasi 100.000 (50.900 nel 1931). Giaffa, che nel 1931 superava ancora Ḥaifā, non è più che al quarto posto, per quanto la sua popolazione sia salita a 71.000 ab. Per contro in tutti gli altri centri che non sono meta di immigrazione l'aumento è stato modesto: Gaza, Hebron e Nābulus contano oggi intorno a 20.000 ab. ciascuna, Lydda e ar-Ramleh circa 12.000, Safed e Nazareth 10.000.
Finanze (p. 92). - I disordini politici del 1936 e 1937 hanno inciso molto sullo sviluppo economico del paese e si sono ripercossi anche sul bilancio (in milioni di ???116???. p.).
Al 31 marzo 1937 i biblietti in circolazione erano 5,1 milioni e la riserva in divise ammontava a 4,8 milioni.
Bibl.: V. le pubblicazioni periodiche della Società delle nazioni, specie l'Annuario.
Storia (p. 79).
Il dissidio fra Arabi ed Ebrei, delineatosi sin dal 1920, in questi ultimi anni non solo si è aggravato ma si è anche ampliato coinvolgendo nell'ostilità degli Arabi la Potenza mandataria e sboccando in una rivolta che ha creato una nuova situazione.
Per intendere questo rivolgimento e i termini attuali del conflitto bisogna anzitutto ricordare che il mandato britannico in Palestina fu impostato su impegni di per sé stessi inconciliabili e quindi irrealizzabili. Nel 1916 l'Inghilterra, in cambio della loro partecipazione alla guerra mondiale, promise agli Arabi, in modo formale, il riconoscimento, a guerra finita, della loro indipendenza. Gli Arabi intervennero nella lotta e la loro partecipazione, come è stato riconosciuto da imparziali osservatori e dalla stessa Commissione reale britannica, fu un fattore importante nel successo della campagna di Allenby contro i Turchi culminata nella presa di Gerusalemme. Finita la guerra, gli Arabi, come avevano lealmente mantenuto il loro impegno, così richiesero che l'Inghilterra mantenesse il suo. Il mandato, affidato dalla Società delle nazioni all'Inghilterra, per essi non poteva avere altro significato e altra funzione se non quella di preparare la loro autonomia. Ma l'Inghilterra aveva assunto un altro impegno di fronte agli Ebrei assicurando loro la creazione di una sede nazionale ebraica in Palestina (dichiarazione Balfour, 2 novembre 1917). Non si valutò allora a pieno l'inconciliabilitò di questo impegno con quello, già esistente, verso gli Arabi? Oppure si concepì inizialmente la sede nazionale non come un possibile stato ebraico, ma come lo stanziamento di una colonia ebraica da rimanere sempre come una minoranza allogena in uno stato arabo? Oppure si sperò che gli Arabi si sarebbero gradatamente acconciati all'idea di lasciare ai nuovi venuti una parte del loro paese costituendo con essi uno stato federale o qualche cosa di simile? O non si pensò a nulla di preciso attendendo che l'avvenire aprisse la via a una sistemazione accettabile? Comunque sia, due cose apparvero evidenti fin dal 1920; prima, che gli Arabi non erano disposti né a dimenticare la promessa d'indipendenza che era stata loro fatta, né a rinunziare ad alcuna parte della Palestina che essi occupano dal sec. VII d. C. e che considerano, non solo come la loro patria, ma anche come una terra santa della loro religione; seconda, che gli Ebrei consideravano la creazione della sede nazionale come il primo nucleo e il punto di partenza per la restaurazione del dominio dei loro avi i quali, come è noto, ebbero il possesso della Palestina fino alla conquista romana e nella Palestina crearono la loro civiltà.
Di fronte al sorgere di questo antagonismo, il governo inglese assunse un atteggiamento indeciso e seguì una linea di condotta oscillante dando l'impressione di favorire ora gli Arabi, con l'istituire un Consiglio consultivo e il promettere il Consiglio legislativo, con l'organizzare i servizî pubblici, col promuoverne il benessere economico; ora gli Ebrei, facilitando la loro immigrazione e l'acquisto di terreni, consentendo loro l'istituzione di scuole e di opere anche fuori dei centri dove essi hanno costituito una maggioranza, non attuando quelle riforme politiche che erano state promesse agli Arabi.
Ma era evidente fin da principio che un simile atteggiamento non si potesse prolungare indefinitamente; e il momento di crisi arrivò nel 1935. A determinarlo contribuirono diversi fattori di ordine interno e di ordine esterno. Fra i primi, questi principalmente: l'aumento impressionante dell'immigrazione ebraica, passata da 9553 unità, quanto era stata nel 1933, a 42.539 nel 1934 e a 61.854 nel 1935, portando così la popolazione totale ebraica nella Palestina a oltre 400.000, di fronte a quasi 900 mila Arabi; e le clamorose manifestazioni nazionalistiche ebraiche culminate nel primo Congresso sionistico di Gerusalemme (marzo 1935) e nelle feste per il decimo annuale dell'università ebraica della stessa città (aprile) che vollero essere una grande rassegna delle loro forze e che agli Arabi non potevano non apparire come una provocazione. Tra i fattori esterni due soprattutto ebbero un peso decisivo: 1. le conquiste politiche fatte dagli altri Arabi dell'Iraq, della Siria, del Libano i quali, sottoposti già come i Palestinesi a mandato, erano riusciti ad ottenere l'autonomia mutando i mandati in trattati di alleanza con le potenze mandatarie; 2. lo scacco diplomatico subito dall'Inghilterra nel suo contrasto con l'Italia, a proposito dell'Etiopia, che scosse in tutto l'Oriente il prestigio britannico.
Dopo un periodo di calma relativa, sotto il premere di tutti questi fattori, nel 1935 l'agitazione araba si ridestò in modo impressionante. S'intensificò la propaganda contro la vendita di terreni agli Ebrei, si chiese con nuovo vigore al governo inglese che sospendesse o limitasse l'immigrazione ebraica, si scatenò una violenta campagna di stampa per ottenere concessioni politiche. In tali condizioni il governo inglese, certo con l'idea di calmare gli Arabi non solo della Palestina ma anche di tutto l'Oriente, annunziò che intendeva creare in Palestina il Consiglio legislativo tante volte annunziato. I termini del progetto furono comunicati dall'alto commissario, sia Arthur Wanchope, il 20 dicembre ai capi arabi e il 21 agli Ebrei. I sionisti naturalmente si dichiararono contrarî e iniziarono in Palestina e altrove, specialmente a Ginevra, un'azione per impedire che il progetto fosse varato. Gli Arabi ne accettarono l'idea, ma richiesero che al progetto fossero apportate delle modificazioni in modo da assicurare loro una prevalenza politica. Allo scopo di presentare un fronte unito, i due maggiori partiti politici arabi (partito arabo-palestinese che riconosceva come capo il Gran Muftī, Amīn el-Ḥuseinī, e partito della difesa nazionale presieduto dall'ex-sindaco di Gerusalemme Raghib Bey en-Nushāshibī) si riunirono in un Supremo Comitato nazionale sotto la presidenza del Muftī. All'opposizione degli Ebrei gli Arabi rispondono non solo con articoli di stampa ma anche con la violenza: e scoppiano i disordini. Attentati, uccisione di persone, distruzione di piantagioni e di opere ebraiche si succedono con impressionante crescendo e in breve tutta la Palestina è in fiamme. Per premere sul governo inglese che, nonostante abbia accumulato notevoli forze in Palestina, procede con una certa fiacchezza nel reprimere i disordini (è evidente in esso la preoccupazione di non provocare ripercussioni sgradevoli sul mondo islamico nel momento in cui l'Italia riporta clamorosi successi in Etiopia), il 23 aprile 1936 gli Arabi proclamano lo sciopero generale che paralizza quasi tutti i servizî pubblici e accresce il numero degli attentati e delle uccisioni. Lo sciopero assume subito un carattere politico poiché fra le condizioni per la ripresa del lavoro si pongono anche: 1. la cessazione completa dell'immigrazione ebraica; 2. il divieto assoluto di trasferire terre arabe agli Ebrei; 3. l'istituzione di un governo responsabile di fronte a un Consiglio legislativo. Nel maggio, perdurante ancora lo sciopero, il Comitato supremo arabo proclama la disobbedienza civile, cioè lo sciopero delle amministrazioni locali e la sospensione del pagamento delle imposte.
Di fronte alla gravità della situazione, il governo inglese, nel giugno, invita a Londra una Commissione araba per discutere il progetto del Consiglio legislativo, e nello stesso tempo riduce il numero dell'immigrazione ebraica, accresce i poteri dell'alto commissario autorizzandolo a proclamare la legge marziale, invia altri rinforzi affidando il comando militare al gen. I. D. Dill, nomina una Commissione Reale di sei membri sotto la presidenza di lord Peel perché si rechi in Palestina a indagare le cause dei torbidi, ascoltare le lagnanze e le rivendicazioni tanto degli Arabi quanto degli Ebrei, esaminare se il mandato fosse stato interpretato equamente e suggerire i mezzi per normalizzare la situazione del paese.
Nell'ottobre, finalmente, per l'interessamento e la mediazione del re dell'‛Irāq, di Ibn Sa‛ūd, dell'emiro della Transgiordania e dell'imām dello Yemen, si pose fine allo sciopero e vi fu anche, se non una sospensione, un allentamento nei disordini. Nel novembre la Commissione Reale giunse in Gerusalemme e si mise subito al lavoro. I capi arabi da principio la boicottarono, ma alla fine s'indussero a presentare le loro osservazioni e rivendicazioni. Com'era da prevedere, essi richiesero: 1. l'immediato abbandono della sede nazionale ebraica; 2. l'immediata fine dell'immigrazione ebraica; 3. l'immediato e completo divieto di vendere terre arabe agli Ebrei; 4. la fine del mandato e l'apertura di negoziati per l'istituzione di un governo nazionale. La Commissione naturalmente sentì anche i rappresentanti degli Ebrei, i quali alla loro volta esposero le loro rivendicazioni che si possono riassumere nei seguenti punti: 1. aumento dell'immigrazione dei loro connazionali (il presidente dell'organizzazione sionistica, Nahum Sokolef, aveva già più volte espressa l'opinione che la Palestina potesse assorbire 7 milioni di Ebrei); 2. istituzione di uno stato ebraico.
La Commissione Reale dopo due mesi di indagini in Palestina (11 novembre 1936-19 gennaio 1937) e cinque mesi di studî non poté se non constatare che il conflitto fra Arabi ed Ebrei era non solo inconciliabile ma anche "inerente alla situazione sin dal principio". Come risolverlo? Non col mandato, risponde la Commissione, poiché è il mandato che ha creato e tiene in vita tale antagonismo e finché duri il mandato non si può onestamente sperare che gli Arabi e gli Ebrei riescano a mettere in disparte le proprie speranze o le proprie preoccupazioni nazionali e compongano le loro divergenze nell'interesse comune della Palestina né con l'affidare il governo all'una o all'altra delle due razze in conflitto, poiché "nessuno statista equanime potrebbe ammettere che la Gran Bretagna possa affidare al governo degli Arabi 400.000 Ebrei il cui ingresso in Palestina è stato in massima parte facilitato dal governo britannico e approvato dalla Società delle nazioni, oppure che, dato che gli Ebrei dovessero divenire una maggioranza, circa un milione di Arabi debba essere affidato al loro governo"; ma con la spartizione del paese in tre parti, assegnandone una agli Arabi una agli Ebrei una all'Inghilterra, da ordinarsi le prime due in stati indipendenti, la terza, comprendente Gerusalemme e una striscia di territorio fino al mare col porto di Giaffa, a mandato permanente.
Fu appunto questa la proposta che la Commissione nella sua relazione presentata nel giugno 1937 (Palestine Royal Commission Report. Presented by the Secretary of State for the Colonies to Parlament, luglio 1937) suggerì al governo britannico e che il governo britannico accolse nelle sue linee generali ritenendola non solo l'unica atta a ristabilire la pace ma anche vantaggiosa tanto agli Arabi quanto agli Ebrei.
Gli Arabi - affermava il governo inglese in una dichiarazione diramata il 7 luglio allorché rese di pubblica ragione e presentò al Parlamento la relazione della Commissione Reale - otterrebbero la propria indipendenza nazionale e sarebbero così messi in grado di cooperare a parità di condizioni con gli Arabi dei paesi vicini alla causa dell'unità e del progresso arabo. Essi sarebbero definitivamente liberati da qualunque timore di dominio degli Ebrei e dalla preoccupazione, da essi manifestata, che i loro Luoghi Santi possano un giorno passare sotto il predominio degli Ebrei". Quanto agli Ebrei la spartizione "assicurerebbe loro la costituzione della Sede nazionale ebraica ed escluderebbe ogni possibilità che essa venisse subordinata in avvenire agli Arabi. Essa convertirebbe la Sede nazionale ebraica in Stato ebraico investito di pieni poteri di disciplina dell'immigrazione".
Ma né gli Arabi né gli Ebrei accolsero con favore la progettata divisione. L'opposizione ebraica, a vero dire, fu molto blanda (sembra che non avesse se non la funzione tattica di mascherare la gioia della promessa costituzione di uno stato proprio per non urtare di più gli Arabi e di premere sul governo britannico per ottenere per il costituendo stato confini più ampî di quelli proposti dalla Commissione Reale) e tanto nella risoluzione approvata dal Congresso sionistico convocato a Zurigo il 3 agosto, quanto nelle successive deliberazioni dell'Agenzia sionistica presieduta dal dottor Weizmann nella stessa città, pur protestandosi genericamente contro le affermazioni e le conclusioni della relazione Peel, nulla fu detto contro il progetto dell'istituzione dello stato ebraico.
Ma l'opposizione araba, come era da prevedersi, fu violenta. Nella progettata spartizione della Palestina essi non videro se non un tradimento dell'Inghilterra e un attentato ai loro diritti storici e all'integrità e indipendenza della loro patria. La lotta, che, come abbiamo notato, si era attenuata durante la permanenza della Commissione Reale in Palestina, fu ripresa con estrema violenza e fu diretta non solo contro gli Ebrei ma anche contro gl'Inglesi. Il primo segno di questo mutato atteggiamento fu l'attentato contro l'ispettore generale della polizia, R. G. B. Spicer (13 giugno), che per fortuna rimase illeso. Il programma del movimento arabo, che da questo istante assume il carattere di una lotta per la libertà e indipendenza nazionale, fu definito nel congresso di Bluda (8-10 settembre) al quale, insieme coi capi arabi della Palestina, parteciparono delegati dell'‛Irāq, della Siria, della Transgiordania, dell'Egitto e di altri paesi arabi. A conclusione dei lavori fu approvata la seguente dichiarazione: 1. la Palestina è araba e deve rimanere araba; 2. tutte le offerte di pace dell'Inghilterra devono essere rigettate se contengono l'ammissione di richieste politiche e razziali ebraiche; agli Ebrei è consentito vivere in Palestina come una minoranza e con gli stessi diritti delle minoranze degli altri paesi; 3. è rigettato il rapporto della Commissione Reale britannica e in particolare la proposta della spartizione; 4. la questione della Palestina può soltanto essere risolta alle seguenti condizioni: a) rigetto della dichiarazione Balfour; b) abolizione del mandato; c) conclusione di un trattato che crei uno stato arabo sull'esemplo dell'‛Irāq; d) immediata proibizione delle misure arbitrarie restrittive della libertà.
Di fronte alla rivolta araba l'Inghilterra, ottenuta dal Consiglio della Società delle nazioni, che dedicò alla questione palestinese la seduta straordinaria del 18 agosto 1937 e quella ordinaria del 14 settembre, l'autorizzazione a procedere allo studio dei particolari del progetto di spartizione e "alle misure che esso richiede" (decisione del 16 settembre), ha proceduto con risoluta energia sciogliendo, come associazioni illegali, il Comitato supremo arabo ed altri comitati nazionali e arrestandone e deportandone i capi in isole lontane, destituendo il Gran Muftì (per sottrarsi all'arresto questi si rifugiò nella moschea al-Aqṣā di Gerusalemme donde, dopo tre mesi, malgrado la sorveglianza della polizia, riuscì a fuggire riparando a Beirut e di qui a Damasco), proclamando la legge marziale ed emanando ordinanze di eccezione che stabiliscono la pena di morte contro chiunque viene trovato in possesso di armi o munizioni, la responsabilità collettiva nei luoghi dove è avvenuto un attentato senza che si scopra l'attentatore, ecc.
Non è il caso di fare qui la cronistoria della guerriglia che da tanti mesi insanguina la Palestina. Notiamo solo che, malgrado le misure di rigore prese dal governo inglese, malgrado l'implacabile severità con cui le leggi d'eccezione sono applicate, malgrado le enormi taglie imposte ai villaggi dove avvengono disordini, malgrado la disparità di forze e di mezzi, la lotta non ha avuto mai tregua e le posizioni rispettive degli Arabi e della Gran Bretagna sono ancora (agosto 1938) quelle del luglio 1937.