FREGOSO (Campofregoso), Ottaviano
Nacque intorno al 1470 a Genova, da Agostino e da Gentile, figlia naturale di Federico da Montefeltro, duca d'Urbino. Dopo la morte del padre, già capitano della Repubblica genovese e allora capitano generale delle truppe pontificie inviate a Napoli per sedare la rivolta dei baroni, nel 1487 si trasferì con la famiglia alla corte feltresca. Qui, a contatto con i vertici della cultura italiana del tempo, compì i suoi studi, non tralasciando - com'era norma per un giovane aristocratico - l'addestramento alle armi.
Sul finire del 1496 fu scelto dal re di Francia, Carlo VIII, per una delicata missione diplomatica: guadagnare l'appoggio militare dei Fiorentini alla spedizione che il re, con l'aiuto di Battista Fregoso e del cardinale Giuliano Della Rovere, intendeva condurre contro Genova, per sottrarla al dominio di Ludovico il Moro. Fu tuttavia un esordio poco felice: i Fiorentini negarono ogni aiuto e l'impresa fallì. Quando poi Genova si sottomise a Luigi XII (26 ott. 1499), succeduto a Carlo VIII, il F. non trovò modo di accedere al governo, tenuto a lungo dai suoi avi, e preferì dimorare in Urbino, presso lo zio, il duca Guidubaldo.
Il Ducato, preda delle ambizioni di Cesare Borgia, fu invaso nel giugno 1502. Guidubaldo, costretto dapprima all'esilio, poté tornare a Urbino con il F. in ottobre, grazie a una momentanea eclissi della potenza del Valentino. Poco dopo, però, di fronte a nuove minacce, furono intavolate trattative tra il Borgia e il F., che lo aveva conosciuto in occasione del matrimonio di Lucrezia Borgia con Alfonso d'Este. Fu concluso un accordo, ma il Valentino, con un colpo di mano, fece arrestare Guidubaldo. Il F. riuscì invece a rifugiarsi in San Leo, rocca strategica nel Montefeltro, e a difenderla valorosamente fino a quando il duca d'Urbino, scampato alla morte, approfittò del declino delle fortune di Cesare Borgia per riconquistare lo Stato (28 ag. 1503).
La fedeltà e la risolutezza dimostrate dal F. gli valsero l'investitura di Sant'Agata Feltria e il comando militare della lega stretta nell'ottobre 1503, sotto il patronato veneziano, tra i signori di Urbino, Camerino, Perugia, Rimini e di altre città dell'Italia centrale, per combattere le ultime roccaforti borgesche. Durante l'autunno il F., insieme con Carlo Malatesta, si impadronì di Cesenatico e strinse d'assedio - pur senza esito - Cesena. Questi movimenti d'armi, che favorivano le mire di Venezia sulla Romagna irritavano, tuttavia, il pontefice neoeletto, Giulio II (Giuliano Della Rovere), che, in virtù della parentela con il duca Guidubaldo, lo spinse a mutare fronte (novembre 1503). Gli eserciti urbinati, ai vertici dei quali compariva il F., si dedicarono così al recupero dei territori sfuggiti al dominio pontificio, tra cui Perugia e Bologna (1504-06).
La rivolta del "popolo" genovese contro la nobiltà dell'estate 1506 indusse nel contempo il F., su invito di alcuni influenti aristocratici, tra cui il giovane Andrea Doria, a tentare un colpo di mano contro la sua città. Alla fine di luglio si imbarcò, insieme con Giano e Alessandro Fregoso, sul Tevere. Tuttavia il papa, che era parso in un primo momento assecondare i loro disegni, li bloccò, preferendo appoggiare il partito popolare, nel quale vedeva manifestarsi aspirazioni autonomiste, consonanti alla sua ambigua politica nei confronti di Luigi XII. Nuovi contatti con i nobili genovesi portarono il F. a ritentare l'impresa: lasciò, contro il volere di Giulio II, Bologna, alla corte del quale dimorava e, l'8 genn. 1507, giunse insieme con Giano Fregoso, con un forte contingente, presso La Spezia. I Genovesi, già in allarme, intimarono al F. di allontanarsi, ma egli proseguì la marcia verso Sestri Levante, raccogliendo a Sampierdarena i suoi aderenti. Ma non riuscì a suscitare una sommossa e dovette riprendere il mare, sbarcando, non senza pericoli, a Camogli.
Tornato a Urbino, il F. si riconciliò, attraverso il duca Guidubaldo, con il pontefice e ottenne la carica di capitano della sua guardia (24 maggio 1507). Rimase nondimeno alla corte urbinate fino a poco dopo la morte del duca (11 apr. 1508). L'anno seguente, dopo essersi forse recato in Francia per conto del nuovo duca d'Urbino, Francesco Maria Della Rovere, partecipò alla Lega di Cambrai contro Venezia, combattendo, con il contingente urbinate dell'esercito pontificio, prima in Romagna e poi, nel dicembre 1509, a capo degli aiuti pontifici ad Alfonso d'Este, in guerra con Venezia per il possesso del Polesine.
Nel corso del 1510 lo scenario mutò radicalmente. Giulio II, infatti, alleatosi con i Veneziani per contrastare il predominio francese, progettò di sottrarre Genova a Luigi XII, cui la città si era di nuovo sottomessa dopo un anno di indipendenza. L'impresa, affidata al F. con l'appoggio della flotta veneziana, ebbe luogo nel luglio 1510, ma la decisa reazione della città confermò che il dominio francese riusciva vantaggioso al ceto dei mercanti e dei banchieri genovesi. Privo di sostegno politico, osteggiato da un forte presidio e dal blocco del porto, il F. dovette riprendere il mare e si ritirò a Piombino. Si tentò di nuovo alla metà di ottobre del 1510: i Veneziani, con Giano Fregoso, cercarono di forzare le difese del porto di Genova e di sbarcare il loro esercito nel cuore della città, ma senza esito.
La reazione delle forze francesi investì ben presto gli stessi domini della Chiesa e l'esercito di Luigi XII, nel maggio 1511, si presentò sotto le mura di Bologna. Giulio II, che vi dimorava dal precedente inverno, si rifugiò a Ravenna lasciando la difesa al F. e al legato Francesco Alidosi. Ma costoro non poterono impedire, il 23 maggio, la caduta della città e dovettero fuggire.
L'insuccesso non parve guastare i rapporti tra il F. e il papa ed egli, dopo la costituzione della coalizione antifrancese tra Giulio II, la Spagna e Venezia - nota come Lega santa (ottobre 1511) - entrò nell'esercito pontificio, combattendo probabilmente nella battaglia di Ravenna (11 apr. 1512), vinta dai Francesi. Poi, nell'estate seguente, al comando delle fanterie urbinati, partecipò alla conquista di Parma, Piacenza e Reggio Emilia.
Infine le vicende genovesi degli stessi mesi richiamarono l'attenzione del Fregoso. La città, infatti, nel giugno 1512, dopo i rovesci francesi nel Milanese, era stata presa da Giano Fregoso, al soldo dei Veneziani, che ne era divenuto doge con l'appoggio di Giulio II. Questi, già nell'autunno 1512, avrebbe preferito insediare il F. al governo, per meglio garantire l'autonomia della città. Invece, una nuova offensiva francese, dopo la morte del papa (21 febbr. 1513) portò, nel maggio 1513, alla cacciata di Giano e all'insediamento di Antoniotto Adorno in qualità di governatore.
L'occasione opportuna per il F. giunse, così, solo dopo la sconfitta francese presso Novara (giugno 1513) a opera degli eserciti spagnoli. Con il consenso del nuovo pontefice, Leone X (Giovanni de' Medici), in cerca di appoggi per la casa de' Medici, e il sostegno degli Spagnoli, che gli concessero 3.000 uomini (sotto il comando di Ferdinando Francesco d'Avalos) in cambio di 50.000 scudi, il F. poté, tra il 16 e il 17 giugno 1513, portare a termine l'impresa: penetrò in città con le sue truppe, mentre una flotta armata dai fuorusciti della sua fazione si presentava dinanzi a Genova, costringendo gli Adorno ad abbandonare il governo. Lo stesso 17 giugno il F. venne nominato doge.
Le prime insidie gli giunsero da Giano Fregoso che, deluso per la sua nomina a governatore di Savona, cercava appoggio nei Francesi per tornare al governo. A questa minaccia, sventata prontamente dal F., si aggiunsero, altresì, le pressioni degli Adorno, affinché il duca di Milano, Massimiliano Sforza, facesse calare, nel novembre 1513, un esercito di Svizzeri verso la Riviera. Tuttavia, la decisa presa di posizione a suo favore di Leone X e degli Spagnoli fecero desistere il duca dai suoi progetti.
Nel contempo, il F. procurava di consolidare il potere e ampliare il consenso interno, proponendosi come capo imparziale. Si adoperò per salvaguardare gli interessi di mercanti e banchieri, varando misure per salvaguardarli da frequenti ritorsioni subite in Francia, e favorì gli artigiani delle corporazioni più potenti, come i "seatari" (setaioli), con una politica chiaramente protezionistica. Infine, armi alla mano, fece fallire un complotto ordito da Fieschi, Adorno e dal duca di Milano (28 dic. 1514).
La politica di consolidamento del potere del F. fu vanificata però dai bellicosi propositi di Francesco I, successo a Luigi XII all'inizio del 1515, che poneva Genova tra i primi obiettivi della campagna militare imminente. Il F., non volendo condurre Genova nella lega antifrancese, che contava oltre al papa e alla Spagna anche il duca di Milano, suo palese nemico, avviò, nei primi mesi del 1515, contatti per sottomettere a Francesco I la città. I sospetti degli ex alleati, sobillati dai fuorusciti genovesi, presero ben presto corpo, ma a nulla valsero le pressioni militari di Massimiliano Sforza e le proteste del papa: convocati i Consigli municipali, il F. riuscì a convincerli dei vantaggi della resa, che fu conclusa prima della calata di Francesco I, con patti molto favorevoli al Comune.
Venivano infatti rinnovati i capitoli e i privilegi già concessi da Luigi XII nel 1499 e abrogati dopo la ribellione del 1506-07. Il F. ottenne inoltre per sé il potere di distribuire alcune cariche municipali, una condotta e l'onorificenza francese dell'Ordine di S. Michele, con 6.000 scudi di pensione annua. Promise quindi di deporre il titolo di doge, assumendo quello di governatore e di far concedere al re 80.000 scudi in prestito. Gli accordi furono poco dopo eseguiti: all'inizio della campagna, in agosto, il F. inviò 2.000 fanti in appoggio ai Francesi, che contribuirono in maniera decisiva alla presa di Alessandria e di Tortona e il 26 ott. 1515, dopo la felice conclusione delle operazioni a Milano, fu nominato dal re governatore di Genova.
Durante il periodo di dominazione francese, tra il 1515 e il 1522, il F. seppe conquistare una notevole autonomia: mantenne integro il dominio della metropoli sulla Liguria, nonostante le spinte centrifughe di alcuni centri minori, e protesse gli interessi economici della città, anche a costo di tensioni con Francesco I, come quelle manifestatesi nel 1517, quando il F. rifiutò di prestargli aiuti finanziari, protestando per la mancata concessione della cittadinanza francese ai mercanti genovesi, che avrebbe loro permesso libertà di commercio nei territori del Regno e soprattutto nelle vicine regioni di Lombardia e Provenza.
Sulla base del consenso conquistato da questa energica attività, il F. poté immaginare una profonda riforma dell'assetto costituzionale della Repubblica, volta a smorzare la forte rivalità tra le diverse fazioni cittadine. Alcuni progetti in tal senso videro la luce nel biennio 1515-16 e in quello 1519-20, ma naufragarono per l'accanita opposizione dimostrata dai capifazione, tra i quali anche il fratello del F., Federico.
Così, alla ripresa delle guerre per il predominio sul Milanese seguita all'elezione imperiale di Carlo V nel 1519, le prime minacce vennero da nemici interni. Il F. sventò facilmente, all'inizio del 1520, un colpo di mano di Alessandro Fregoso, con l'appoggio del papa e il consenso dell'imperatore. Ma l'anno seguente, dopo la confederazione tra Carlo V e Leone X, egli si trovò di fronte a un pericolo ben maggiore. Infatti, un'armata di 2.000 fanti spagnoli, si presentò, alla fine di giugno 1521, davanti al porto di Genova, in attesa di una sollevazione della fazione degli Adorno. Il F. riuscì a mantenere il controllo sulla città e i navigli nemici furono allontanati dalla sua flotta. Quando poi, all'inizio di luglio, un esercito al comando di Gerolamo e Antoniotto Adorno tentò di sbarcare a Chiavari, il F. non esitò ad accorrere alla testa dei suoi armati, costringendolo alla fuga.
Il pericolo era solo momentaneamente cessato e il F. chiese più volte aiuti alla corte di Francia. Ma, nel contempo, gli interessi economici e finanziari genovesi presso l'imperatore, il papa e a Firenze, consigliavano una condotta prudente. La caduta di Milano, nel novembre 1521, fece precipitare la situazione: stretta da un blocco navale, dopo la sconfitta degli eserciti francesi alla Bicocca (27 apr. 1522), Genova fu investita dagli eserciti imperiali. Il F. inviò ambasciatori al re di Francia per lamentare l'impossibilità di difendersi, quasi a voler giustificare la prossima resa al potente nemico, che iniziò l'assedio il 20 maggio 1522. Il F. chiese per l'ultima volta soccorsi; poi, dopo l'arrivo nella valle del Bisagno delle truppe di Prospero Colonna, aprì in autonomia le trattative. Per facilitare il compito dei plenipotenziari, egli lasciò prudentemente il governo a una Balia di dodici cittadini e al Consiglio degli anziani, i cui rappresentanti tuttavia, nel tentativo di evitare ritorsioni contro gli interessi genovesi in Francia, persero del tempo prezioso. Improvvisamente, il 30 maggio, gli Imperiali al comando del marchese di Pescara Ferdinando Francesco d'Avalos penetrarono le difese. Prospero Colonna, che ancora conduceva trattative, ordinò anch'egli l'assalto e Genova fu messa al sacco per l'intera notte e il giorno successivo. Il F. venne arrestato dal marchese di Pescara che lo fece deportare, con lo scopo di ottenerne un riscatto, ad Aversa e quindi a Ischia. Qui rimase, nonostante Baldassarre Castiglione avesse cercato di ottenerne la liberazione, fino alla morte, avvenuta alla metà di maggio del 1524, dopo aver lasciato in eredità al figlio - probabilmente naturale - Aurelio il feudo di Sant'Agata Feltria.
La figura del F. fu esaltata già dai contemporanei. P. Alcionio, I. Sadoleto, P. Bembo, ne enfatizzarono gli interessi di cultore delle lettere, delle scienze, delle arti. N. Machiavelli e F. Guicciardini ne rilevarono le capacità di governo e il coraggio politico, non comuni, nella guida di una città scossa dagli odi di parte. Ma fu soprattutto B. Castiglione, che lo immaginò attore del Cortegiano, a darne il ritratto più favorevole, facendone un modello di gentiluomo dedito all'attività politica.
Fonti e Bibl.: B. Senarega, De rebus Genuensibus commentaria, a cura di E. Pandiani, in Rer. Ital. Scrip., 2ª ed., XXIV, 8, ad Indicem; M. Sanuto, I diarii, Venezia 1879-1903, I, IV-V, VII, X-XI, XIII-XIV, XVI-XVII, XIX-XX, XXII, XXIV, XXVII XXXIV, XXXVI, ad Indices; P. Bembo, Opere in volgare, a cura di M. Marti, Firenze 1961, ad Indicem; N. Machiavelli, Opere, a cura di S. Bertelli, I, Milano 1968; VII, ibid. 1971; VIII, Verona 1980, ad Indices; F. Guicciardini, Storia d'Italia, a cura di S. Seidel Menchi, Torino 1971, ad Indicem; F. Casoni, Annali della Repubblica di Genova…, Genova 1708, pp. 49 s., 54, 57-67, 69-71, 73-75; J. Dennistoun, Memoires of the dukes of Urbino, I, London 1851, pp. 13, 21, 33, 43-45, 53 s., 71, 420; G.G. Musso, La cultura genovese tra il Quattro e il Cinquecento, in Miscellanea di storia ligure, I (1958), pp. 146-150; D. Gioffrè, Gênes et les foires de change. De Lyon à Besançon, Paris 1960, ad Indicem; C. Costantini, La Repubblica di Genova nell'età moderna, Torino 1978, ad Indicem; P. Floriani, I personaggi del "Cortegiano", in Giorn. stor. della letteratura ital., CLVI (1979), pp. 162, 169-172, 176 s.; La corte e il "Cortegiano", a cura del Centro Studi "Europa delle corti", Roma 1980, ad Indicem; A. Pacini, I presupposti politici del "secolo dei Genovesi": la riforma del 1528, in Atti della Soc. ligure di storia patria, n.s., XXX (1990), ad Indicem.