FOGLIETTA, Oberto (Uberto)
Nacque a Genova forse nel 1518 da Giambattista, probabilmente nella parrocchia di S. Donato, dove fu battezzato il fratello Paolo e la famiglia aveva case.
Schiatta di notai, i Foglietta erano attivi nella politica cittadina tra i populares. Con la riforma del 1528 furono ascritti al Liber civitatis nell'"albergo" dei Cattaneo. La figura di maggior rilievo della famiglia era stato Agostino, ambasciatore genovese prima e prelato influente in Curia poi.
Precocissimo, il F. fu impiegato già nel 1535 a trascrivere, per 40 lire genovesi, gli Annali di Genova che l'autore A. Giustiniani, aveva donato alla Repubblica insieme con la sua biblioteca nel 1533. Per un oscuro rovescio finanziario della famiglia, si trasferì a Roma, dove si trovava nel 1538, già chierico e in procinto di acquistare l'ufficio di sollecitatore di lettere apostoliche. Dopo un soggiorno a Perugia per studiare legge, divenne abbreviatore e protonotario apostolico, carica che nell'ottobre 1545 gli permise di ottenere a Genova l'immunità e le franchigie del Banco di S. Giorgio per sé e per i servitori.
Perfezionò la sua cultura a Perugia ma soprattutto a Roma, facendo forse un breve ritorno in patria prima del 1550, quando si suppone seguisse il conclave che elesse Giulio III. L'attività letteraria del F., protetto dal pontefice, prese l'avvio in questi anni. Tenne un'orazione latina davanti a Giulio III per la festa di Ognissanti del 1553, stampata da A. Blado insieme con l'epistola al neocardinale Roberto De Nobili, pronipote del papa, sulle qualità del porporato (De vitae et studiorum ratione hominis sacris initiati ad Robertum Nobilem card. Epistola); una successiva orazione - tenuta davanti ai cardinali riuniti nel conclave per l'elezione del successore Marcello II - fu stampata a Roma nel 1555 dallo stesso Blado con il titolo In laetitia ob reconciliationem Britaniae Romae celebrata. Benché il ruolo del F. nei cenacoli culturali romani sia scarsamente noto, egli era verosimilmente legato agli ambienti intellettuali di orientamento irenistico prosecutori degli interessi biblistici erasmiani. Restano tracce della sua corrispondenza con il cardinale G. Sirleto. Il F. godette della protezione anche di papa Paolo IV, che lo fece referendario apostolico e intercedette presso la Repubblica di Ragusa a favore del fratello Paolo, console raguseo a Roma.
Nel 1555 uscì (Roma, A. Blado) il dialogo in tre libri De philosophiae et iuris civilis inter se comparatione. Dedicato al cardinale C. Madruzzo, aveva come interlocutori il F. stesso, il cardinale G. Morone, il filosofo G.B. Sighicelli, e l'avvocato A. Gallesi, e consisteva in una lunga difesa dello studio del diritto contro quello della filosofia.
Al 1557 risale traccia di una causa intentata a Genova dal F. ad alcuni suoi debitori. che riuscì a far portare davanti al tribunale civile nonostante la loro opposizione. A quella data sembra avesse già completato la sua sola opera in italiano, il dialogo Delle cose della Repubblica di Genova (Roma, A. Blado, 1559), che lo mise in urto con il governo della Repubblica.
In realtà, il dialogo risaliva forse addirittura al 1554, data riportata su una copia manoscritta e che nulla nel testo smentisce. L'occasione e lo sfondo dell'opera erano la guerra di Corsica, dall'andamento disastroso per la Repubblica, e le conseguenze della riforma del 1547, detta del garibetto, con la quale dopo la congiura di Gian Luigi Fieschi gli oligarchi della nobiltà "vecchia" (le famiglie nobiles prima della riforma del 1528, mentre le famiglie già populares erano dette nobiltà "nuova") avevano acquisito un maggior peso nel governo. Le fazioni erano state, secondo il F., semplici denominazioni di comodo che avevano diviso artificialmente un ceto di governo originariamente indistinto. Nel rileggere il recente passato genovese il F. ridimensionava il ruolo e le benemerenze di Andrea Doria, polemizzava con l'artificiale accorpamento di tutte le casate ascritte nel 1528 al Liber civilitatis sotto i nomi delle ventotto casate più numerose ("alberghi"), quasi tutte di origine nobile, e deplorava la debolezza navale della Repubblica, priva di una flotta da guerra, mentre Andrea Doria e gli altri proprietari di galee, quasi tutti nobili "vecchi", mettevano le loro squadre al servizio del re di Spagna.
Il dialogo dei F., il solo testo del dibattito politico genovese del Cinque-Seicento a conoscere la via della stampa, associava i temi dell'indipendenza e del riarmo navale della Repubblica, immaginava per Genova una prospettiva di lucroso mercenariato marinaro, era animato da una visione antinobiliare della storia genovese, proponeva una riforma censitaria del sistema politico cittadino ispirata alla storia romana, palesemente opposta all'ambizione dei nobili "vecchi" di costituire un ordine distinto dai popolari.
Il doge e il Senato promossero un processo contro il F., incaricando inoltre mons. B. Lomellini, protettore della Repubblica presso la corte pontificia, di ostacolare la circolazione del libro. Il 7 apr. 1559, nonostante una elegante lettera dei F. al Senato (che forse non spedì, mentre qualche settimana, dopo ne inviò effettivamente una di tono molto sottomesso) a protesta delle sue buone intenzioni, egli fu condannato al bando da Genova e alla confisca dei beni. Subito ristampato a Roma, il dialogo ebbe anche un'edizione genovese, sgraditissima ai governanti. Fu ristampato ancora durante la guerra civile tra nobili "vecchi" e nobili "nuovi", nel 1575, a Milano e a Lione, nel secondo caso per iniziativa di mercanti genovesi là residenti e sostenitori di parte "nuova".
Dal 1564 al servizio di Emanuele Filiberto di Savoia come gentiluomo di corte e storiografo ufficiale con lo stipendio di 300 scudi annui, il F. non si recò probabilmente mai in Piemonte e cessò dalla sua carica, per altro non esercitata, nel 1566. In realtà egli rimase a Roma, dove il cardinale Flavio Orsini lo raccomandò al cardinale Ippolito d'Este, tra i cui stipendiati il F. figurava dal 1568, col compenso di 220 scudi d'oro all'anno. L'anno seguente ricompensò i protettori scrivendo una descrizione in latino della villa di Ippolito d'Este a Tivoli (Tyburtinum) che inviò all'Orsini. Morto Ippolito nel 1572, il F. passò, in data imprecisata, al servizio del cardinale Luigi d'Este, tra i cui stipendiati il suo nome è attestato dal 1577.
Rimase inedita fino al 1839, quando fu pubblicata da V. Alizeri (in Anedocta; Genova) la dissertazione De causis bellorum religionis gratia excitatorum, nella quale il F., nell'ambito della discussione proposta nel 1567 dal card. Marcantonio Da Mula sul tema "per quale ragione per la religione non si sia fatta guerra tra i gentili e perché si faccia tra i cristiani", riconosceva che le guerre di religione erano una caratteristica del mondo cristiano (si veda, per la discussione e la parte avutavi da Fabio Benvoglienti, la relativa voce in Diz. biogr. degli Italiani, VIII, pp. 700 s.).
Dedicatosi agli studi storici, il F. iniziò una storia dei suoi tempi, a partire dalla guerra di Smalcalda, della quale alla fine pubblicò solo tre frammenti, riguardanti la congiura di Gian Luigi Fieschi, i tumulti di Napoli contro il viceré don Pedro de Toledo, e l'assassinio del duca di Parma Pier Luigi Farnese.
Nel 1569 lo scritto sulla congiura di Gian Luigi Fieschi cominciò a circolare. In cerca di un dedicatario, dal quale sperare una ricompensa, il F. si rivolse ad Alberico Cibo Malaspina di Massa, personalmente interessato agli avvenimenti del 1547 perché il fratello maggiore Giulio era stato coinvolto nelle trame antimperiali del conte Fieschi. Nonostante la "gola delli contanti" del F. e la disponibilità di Alberico, la trattativa non andò tuttavia in porto. I tre scritti vennero pubblicati a Napoli da G. Cacchio nel 1571, sotto il titolo comune Ex universa historia suorum temporum con dedica al ricco mercante genovese G. Montenegro (ristampe: Roma 1577; Genova, G. Bartoli, 1587).
L'impegno storiografico del F., secondo quanto affermò nel 1585 il fratello Paolo, si sarebbe tradotto in una storia universale e in una storia ecclesiastica, entrambe perdute (della prima Cutignoli segnalò l'esistenza a Modena di un frammento manoscritto, sul Bellum Pisanum). In realtà, della stona contemporanea al F. interessavano i principali episodi della guerra condotta nel Mediterraneo tra le potenze cristiane e i Turchi. I De sacro foedere in Selimuni libri quattuor, sulla guerra della Lega santa, vennero infatti affiancati dal racconto di altri episodi, dalla battaglia di Gerba al soccorso di Orano, dalle spedizioni al Pefion e a Tunisi, all'assedio di Malta: senza ordine cronologico, dunque. Stampata postuma a Genova da G. Bartoli a cura di Paolo nel 1585 (ristampa: ibid. 1587), l'opera venne volgarizzata da G. Guastavino e pubblicata sempre a Genova da G. Pavoni nel 1598.
Il F. aveva dedicato la raccolta dei Clarorum Ligurum elogia (Roma, eredi Blado, 1572) a G.A. Doria principe di Melfi: un passo sorprendente, dopo la polemica antidoriana del dialogo del 1559, ma palesemente diretto a ottenere attraverso i buoni uffici del principe la revoca della condanna.
La raccolta ordinava i liguri illustri per categorie: anzitutto santi e principi, poi condottieri e navigatori, letterati e artisti, infine personaggi di successo mondano e finanziario. Senza osservare alcuna sequenza cronologica, né alcuna proporzione nell'assegnazione degli spazi, la raccolta affiancava l'imperatore Elvio Pertinace e il dedicatario stesso dell'opera, C. Colombo e l'ex cancelliere della Repubblica, M. Senarega, amico del F. ma avversario politico del Doria. Tra i benemeriti per le arti e le lettere il F. incluse tutti i principali cardinali genovesi, vivi e morti, compreso quel B. Lomellini che si era occupato non favorevolmente di lui nel 1559, e G.M. Giberti, alla cui opera pastorale nella diocesi di Verona riconobbe un ruolo anticipatore delle riforme tridentine. Pagò tributo ai Cibo avallando la loro pretesa origine greca. Incongruamente, l'opera si chiudeva con l'elogio del fratello poeta Paolo. In una lettera del 30 nov. 1572, posta in apertura delle successive ristampe, Aldo Manuzio elogiò la lingua e lo stile dell'opera. Forse fu questo ad assicurare il grande successo della raccolta, che accresciuta e ristampata nel 1577 (Roma, G. De Angelis), fu poi pubblicata a Genova (C. Bellone) nel 1579 nella traduzione di L. Conti.
Di poco posteriore agli Elogia è il dialogo De linguae Latinae usu etpraestantia (Roma, G. De Angelis, 1574; ristampato con importante introduzione di J.L. Mosheim ad Amburgo nel 1723), dedicato al marchese Scipione Gonzaga e ambientato, in una data prossima al 17 apr. 1573, nella casa del cardinale Filippo Boncompagni, protagonisti quest'ultimo, Curzio Gonzaga e il genovese Antonio Sauli.
Collegato al tema di quest'opuscolo fu il successivo De ratione scribendae historiae, stampato a Roma dall'Accolti nel 1574 dedicato a Ottaviano Pasqua, vescovo di Gerace e nipote del cardinale genovese Simone Pasqua, che il F. aveva accompagnato al concilio di Trento.
Questa replica alle riserve mosse da ignoti critici alle capacità di storiografo del F. e alla sua scelta di scrivere in latino ha indotto a definire il F. "un precursore della scuola che introdusse il sistema critico negli studi storici" (Cutignoli, p. 161). In realtà, alle sensate osservazioni del F. sull'indispensabilità dell'interpretazione da parte dello storico faceva riscontro la sua pratica storiografica alquanto convenzionale, comprendente i lunghi discorsi diretti. L'opuscolo ebbe però una immediata fortuna, comparendo insieme con gli scritti sulla storia di J. Bodin, di F. Patrizi e di altri, nella silloge Artis historicae Penus curata di lì a poco da J. Wolf (Basilea, presso P. Perna, 1576).
Tre altri opuscoli scrisse il F., poi raccolti con gli altri nel 1579 sotto il titolo Opera subseciva (Roma, F. Zannetti): Brumanus sive de laudibus urbis Neapolis, De nonnullis in quibus Plato ab Aristotele reprehenditur, e De norma Polybiana. Mentre quest'ultimo era ulteriore testimonianza dell'interesse del F. per la teoria della storiografia, e il precedente una critica della Repubblica di Platone, il Brumanus - dedicato al patrizio genovese Antonio Casella - caduto in miseria e rifugiatosi a Napoli, è una descrizione delle bellezze della città fatta davanti al cardinale Ippolito d'Este da Cesare Brumano (cremonese e non meridionale come voleva il Cutignoli, p. 163), conoscenza romana del Foglietta. Nunzio apostolico a Napoli (gennaio 1569-novembre 1571), questi ospitò il F., recatosi a Napoli per curare la podagra, nella sua villa di Baia. La città occupava un posto secondo solo a Roma nella sua geografia mentale. I termini di confronto stabiliti nel dialogo erano, curiosamente, Parigi per dimensioni, Milano per opulenza, Genova per il clima e Anversa (già presente nel dialogo sulla Repubblica di Genova come emporio frequentato dai Genovesi) per l'attività mercantile.
L'opera forse più interessante del F. dei primi anni Settanta è il De caussis magnitudinis Turcarum imperii..., dedicato a uno dei vincitori di Lepanto, Marc'Antonio Colonna. Il F. si inseriva con tempestività nel dibattito sulla grandezza dell'impero ottomano, punto di partenza della nascente turcologia. L'opera ebbe però fortuna postuma e soprattutto nel mondo protestante. La prima edizione comparve infatti a Norimberga, presso Hofmann, nel 1592, a cura di J. Camerarius (altre edizioni: Rostock 1594, e Lipsia 1595 e 1599; trad. inglese, Londra 1600).
Gli eventi politici genovesi del 1575, con la presa di potere da parte dei nobili "nuovi", la breve guerra civile contro i nobili "vecchi" e l'intervento mediatorio del cardinale Morone, ribaltarono improvvisamente la posizione del Foglietta. Il 2 genn. 1576 il governo dei "nuovi" lo nominò infatti pubblico storiografo, comunicandoglielo con una lettera piena di elogi (che ignorava i precedenti annalisti della Repubblica) del 28 seguente. L'incarico comportava la scrittura degli annali contemporanei, con uno stipendio annuo di 425 lire genovesi. Ma l'8 sett. 1579 il fratello Paolo concordò con un gruppo di patrizi genovesi che questi sottoscrivessero una storia di Genova sin dalle origini, da commissionare al F. dietro conveniente compenso, un terzo del quale doveva essere subito anticipato. Il F. finì per redigere, pertanto, non la storia commissionatagli dal governo, bensì quella finanziata da patroni privati.
Il 1° luglio 1581 il F. annunciò al governo di aver completato l'opera Historiae Genuensium libri XII, e di volergliela dedicare, cogliendo anche l'occasione di polemizzare astiosamente con P. Bizzarri, autore di una mediocre storia di Genova stampata nel 1579.
Il F. morì però improvvisamente a Roma il 5 sett. 1581.
Sia il fratello Paolo sia il governo chiesero al residente genovese a Roma monsignor Marc'Antonio Sauli di recuperare le sue carte. La storia dei Genovesi sino al 1527 era già in mano del Sauli e il 28 maggio 1584 fu affidata dal governo a Paolo perché ne curasse la stampa e la traduzione dietro compenso di 50 (poi 60) lire annue. Non avendo ottenuto dal governo un ulteriore contributo alle forti spese di stampa, Paolo si rivolse a Gian Andrea Doria, dedicando a lui l'opera, uscita da G. Bartoli nel 1585. Paolo chiese, sempre inutilmente, nel 1589, un compenso anche per la sua traduzione, che non venne apprezzata. Egli la affidò pertanto al fiorentino Francesco Serdonati, che la completò nel 1590. Fu stampata però solo nel 1597 (Genova, eredi Bartoli), con dedica al doge e al Senato, a cura di Giambattista, figlio di Paolo venuto a morte nel frattempo.
Divisa in dodici libri, l'opera ripercorre le vicende genovesi dalle origini romane al 1527, cioè alla vigilia del cambiamento di campo di Andrea Doria. In appendice Paolo inserì alcune notizie raccolte dal fratello sulla famiglia Cibo, verosimilmente per ricavarne una ricompensa. Nonostante l'atteggiamento sufficiente del F. nei confronti degli annalisti suoi predecessori, Giustiniani incluso, l'opera attingeva larghissimamente a loro, anche se ne integrava le lacune e, soprattutto, aggiungeva di originale l'attenzione per le grandi svolte istituzionali (introduzione dei podestà, avvento del capitano del Popolo, dogato popolare) e un mal dissimulato spirito antinobiliare, per altro comprensibilmente attenuato rispetto al dialogo del 1559. Fra i tratti sorprendenti dell'opera sono la ripresa quasi letterale del giudizio di Machiavelli sul Banco di S. Giorgio, e la scarsissima attenzione per la caduta di Costantinopoli.
Le altre carte del F. erano rimaste a Roma presso i cardinali Luigi d'Este e Michele Bonelli. Dei suoi scritti il F. aveva lasciato erede il futuro cardinale Benedetto Giustiniani, il quale li sollecitò al cardinale Luigi d'Este e poi a Cesare d'Este: ma questi ne negò la restituzione, perché "si parlava assai male della Corte di Francia, et massime della Regina madre, et... non si mostrava né anche più amorevole che tanto alla Ser.ma Casa d'Este" (Peruzzi, in Campori, p. 205).
Verso il 1560 il F. aveva avuto un figlio naturale, Agostino, ascritto al patriziato genovese nel 1598. Da lui discese una lunga progenie, che restò nelle file del patriziato povero della Repubblica, impiegata negli uffici minori e nelle forze armate.
Fonti e Bibl.: Per le edizioni delle opere del F., si rimanda alla sistemazione fattane da R. Scrivano in La letteratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), I, Genova 1992, pp. 59 ss.; Istruzioni e relazioni degli ambasciatori genovesi, a cura di R. Ciasca, Spagna, I (1494-1617), Roma 1951, ad Indicem; Il (1619-1635), ibid. 1955, ad Indicem. Si veda inoltre: G. Ferrari, Corso sugli scrittori politici italiani, Milano 1862, pp. 283-285; G. Campori, Documenti per la vita di U. F., in Atti e mem. delle R. Deputaz di st. patria per le prov. modenesi e parmensi, V (1870), pp. 199-207; A. Neri, Notizie e documenti inediti intorno a U. F. e Metro Bizaro, in Giorn. ligustico, III (1876), pp. 421-450; G. Bertolotti, Tracce di U. F. negli archivi di Roma, in Nuova Rivista. V (1884), pp. 289-293; U. Cutignoli, U. F. Notizie biografiche e bibliografiche, in Giorn. stor. e lett. della Liguria, VI (1905), pp. 121-175; S. Salomone Marino, Spigolature storiche siciliane... U. F. e la Sicilia, in Arch. stor. sicil., XXXII (1907), pp. 543 s.; P. Simoncelli, Il caso Reginald Pole. Eresia e santità nelle polemiche religiose del Cinquecento, Roma 1977, pp. 135 s.; C. Costantini, La Repubblica di Genova nell'età moderna, in Storia d'Italia (UTET), IX, Torino 1978, ad Indicem; R. Savelli, La pubblicistica politica genovese durante le guerre civili del 1575, in Atti della Soc. lig. di storia patria, XCIV (1979), pp. 82-105; Id., La Repubblica oligarchica. Legislazione, istituzioni e ceti a Genova nel Cinquecento, Milano 1981, ad Indicem; E. Cochrane, Historians and historiography in the Italiari Renaissance, Chicago-London 1981, ad Indicem; G. G. Musso, La cultura genovese nell'età dell'umanesimo. Genova 1985, ad Indicem; A. Pacini, I presuppostipolitici del "secolo dei genovesi", in Atti della Soc. lig. di storia patria, CIV (1990), 1, ad Indicem; R. Scrivano, O. F., in La letteratura ligure, cit., I, pp. 58-81; C. Bitossi, Città, Repubblica e nobiltà nella cultura politica genovese fra Cinque e Seicento, I, Genova 1992, pp. 9-35.