MANUCCI, Nicolò
Nacque a Venezia il 19 apr. 1638 da Pasqualino e da Rosa Bellini, primo di cinque figli (gli altri furono Andrea, Angela, Franceschina e Pierina). La condizione sociale della famiglia era modesta: il padre esercitava il mestiere di macinatore di pepe e di altre spezie che arrivavano nella Serenissima dall'Oriente. Forse nella bottega del padre imparò a mescolare, usando mortaio e pestello, le droghe, che gli diedero la fama di medico e di "speziale".
Quando non aveva ancora compiuto 14 anni il M. si trasferì presso uno zio mercante a Corfù, da dove s'imbarcò clandestinamente su una nave battente bandiera inglese diretta a Smirne. In questa sua prima avventura scampò al rischio di essere gettato in mare dal capitano, grazie all'intervento di Henry Bard, visconte di Bellomont.
Bellomont era un nobile cattolico inglese e un profondo conoscitore del Medio Oriente. Aveva partecipato alla guerra civile del 1640-49 schierandosi con il re Carlo I e aveva perso in combattimento l'uso di un braccio. Era stato poi nominato da Carlo II, in esilio in Francia, ambasciatore in Persia, India e in altre monarchie orientali. Lo stesso M. racconta l'inizio del rapporto con Bellomont: "il tale cavaliero me ne dimostrò particolare affectione e me ne domandò se lo volevo accompagnare […] al quale io servivo con molto amore, vedendo che mi stimava come un figlio" (Storia, ed. Falchetta, I, p. 24).
Al seguito di Bellomont, attraversò la penisola dell'Anatolia e nell'agosto 1654 giunse a Qazvīn, città sulle sponde del Caspio; poi si fermò in Isfahàn, allora capitale della Persia, dove il soggiorno si prolungò fino al settembre 1655.
Le relazioni di Bellomont con le autorità persiane, riferite dal M., al di là di alcune date imprecise sono estremamente dettagliate e, almeno in parte sono confermate dalle notizie contenute nelle fonti della collezione India Office della British Library di Londra.
Le osservazioni del M. su Isfahàn sono accurate: annota l'esistenza di giardini ricchi di alberi da frutto, è attratto dalle case esternamente poco piacevoli (perché costruite in argilla) ma all'interno belle e decoratissime, si sofferma su usi e costumi degli abitanti, sulle loro feste, l'alimentazione e il modo di trattare gli ospiti.
Nel gennaio 1656 il M. e Bellomont approdarono a Sūrat, porto principale dell'India, dove era già pervenuta la notizia del prossimo arrivo dell'ambasciatore. Da Sūrat, penetrando nell'interno dell'Impero del Gran Mogòl, i due arrivarono nella città di Āgrā, dove furono ospiti del locale governatore e degli inglesi presenti in città. Tuttavia il caldo intenso li indusse a dirigersi a Delhī, ma poco prima di giungervi Bellomont morì improvvisamente il 20 giugno. Il M., rimasto privo del protettore, non si perse d'animo: si procurò un colloquio con il principe Dārā Shikōh, primogenito dell'imperatore Mogòl Shāh Giahān, nel corso del quale mostrò di conoscere il turco e il persiano. In seguito al colloquio, il principe gli offrì di arruolarsi nell'esercito Mogòl come artigliere (un incarico prestigioso con uno stipendio di 80 rupie mensili) e, per dimostrargli il suo favore, ordinò per lui una veste d'onore (serapa) e altri doni, e lo affidò a uno degli eunuchi, Khwājiah Miskīn. In aggiunta il M. poteva contare su 10 rupie al giorno, entrata derivante dalla concessione di distillare alcolici, beneficio di cui godeva in quanto era al servizio della Casa regnante.
Alla fine del 1656 nell'Impero del Gran Mogòl scoppiò una guerra di successione: profittando della malattia del vecchio imperatore Shāh Giahān, Awrangzēb, il terzo figlio, e Murād Bakhsh, il quarto, mossero con il loro esercito verso Āgrā con lo scopo di scalzare il primogenito Dārā Shikōh, il quale fu sconfitto nella battaglia di Sāmugarh (29 maggio 1658). Il M. fuggì e, mescolandosi con i soldati di Awrangzēb, raggiunse Dārā Shikōh in Lāhōr, e trovò rifugio nella fortezza di Bhakkar, dove, al comando dell'eunuco Basant, fu nominato responsabile dell'artiglieria. A seguito di un tradimento, però, il principe Dārā Shikōh fu catturato da Awrangzēb, consegnato a un suo tribunale e condannato a morte. Così, mentre la fortezza cedeva all'assedio e anche Basant veniva ucciso insieme con altri difensori, il M. riuscì ancora una volta a salvarsi, fuggendo, quasi nudo, per le strade di Lāhōr. Awrangzēb, imperatore dal 1658 al 1707 con il titolo di 'Ālamgīr ("conquistatore del mondo"), riservò un trattamento generoso agli europei che avevano militato al servizio di Dārā Shikōh, offrendo loro l'arruolamento nel suo esercito. Tutti accettarono tranne il M., che considerava Awrangzēb un usurpatore.
In quel periodo il M. si trovò senza lavoro, per cui si mise, ignorato, al seguito della grande carovana imperiale in marcia verso il Kashmī'r. Deviando tuttavia verso Āgrā (1662), visitò i vecchi amici europei della fortezza di Bhakkar, quindi decise di recarsi nel Bengala, che considerava una regione con molte possibilità per i forti stimoli all'economia derivanti dalla presenza di numerosi europei. Gli amici di Āgrā lo presentarono al comandante del forte, che gli chiese di lavorare per lui e gli offrì lo stesso trattamento che gli aveva usato Dārā Shikōh. Ma il M. rimase fermo nella decisione di dirigersi nel Bengala. Di ciò profittò il rettore tedesco del collegio dei padri gesuiti, Henriques Roa (Heinrich Roth), per pregarlo di condurre con sé due frati francescani, allora presenti nel collegio.
Messosi in viaggio, dopo aver visitato Allāhābād e Benares, il M. giunse a Patnā, il cui governatore Dā'ūd Khān era stato amministratore del principe Dārā Shikōh. A Dāccā, il principale centro del Bengala, dove erano presenti molti cristiani, il M. conobbe l'inglese Thomas Pratt, costruttore di navi e di cannoni per conto del governatore Mīr Jumlah. In seguito, viaggiando attraverso la foresta Sundarban, in quaranta giorni arrivò a Hūglī, dove trovò ospitalità presso i padri gesuiti, che gli chiesero di intercedere presso il governatore Mīrzā Gūl, affinché concedesse loro il permesso di costruire una chiesa. La visita di cortesia del M. al governatore (che aveva collaborato con il principe Shujā', secondogenito di Shāh Giahān) sortì l'effetto auspicato, tanto che i religiosi, convinti di avere trovato in lui un prezioso collaboratore, capace di trattare con le autorità Mogòl, si adoperarono per trattenerlo in Hūglī, proponendogli un matrimonio vantaggioso.
Fallito il progetto, il M., che non aveva mai cessato di studiare le scienze mediche, tornò sopra un'idea già accarezzata: rientrare nelle regioni centrali dell'Impero Mogòl per praticarvi l'arte medica. Partito da Hūglī, passando per Qāsim Bāzār e Rājmahal, si fermò a Patnā, dove trascorse alcuni giorni con amici inglesi e olandesi residenti nella città. Poi attraversò di nuovo Allāhābād e si stabilì in Āgrā. Qui nel 1663 con l'aiuto di un chirurgo olandese, un certo Jacob, riuscì a operare con successo il governatore, sofferente per una fistola, e il sogno di praticare medicina e chirurgia parve realizzarsi.
Ma ancora una volta il M. fu coinvolto in una guerra provocata sia dalla reazione induistica alla politica poco tollerante dell'islamico 'Ālamgīr sia dal disegno di questo di unificare tutta l'India - in primo luogo la parte meridionale nota come penisola del Deccan - sotto il governo Mogòl. Un forte ostacolo alla sua politica l'imperatore incontrò nel Marāthā Śīvājī, che aveva trasformato i suoi sudditi in formidabili guerrieri e campioni di induismo. Per piegare la resistenza di Śīvājī, che aveva già sconfitto il generale Bījāpūr Afzal Khān e saccheggiato Sūrat, 'Ālamgīr nominò governatore del Deccan il miglior uomo d'arme a sua disposizione, Rājput Jāī Singh, il quale volle con sé il M. come comandante dell'artiglieria e ingaggiatore di mercenari europei (1664). Il M. può essere considerato uno degli artefici della sconfitta di Śīvājī perché, grazie alla conoscenza del persiano e delle lingue indiane, riuscì a convincere gli alleati di Śīvājī ad abbandonarlo e a collaborare con l'imperatore 'Ālamgīr. Il resto fu opera di Jāī Singh e del suo esercito di 100.000 uomini, che costrinsero il leader Marāthā ad arrendersi.
Dopo altre avventure e guerre, il M. fruì di un periodo di meritato riposo a Delhī, protetto da Kīrat Singh, il figlio più giovane di Jāī Singh (morto nel 1667). Quando nel 1670 questi si recò a Kābul, il M. si trasferì a Lāhōr, dove abbandonò il mestiere delle armi per dedicarsi finalmente alla professione di medico.
Si fece precedere da una grande propaganda, che annunciava l'arrivo in città di un famoso medico faranghi (europeo) dotato di esperienze, conoscenza di lingue e di buone maniere. In sei-sette anni accumulò una discreta ricchezza, che decise di investire nella mercatura. Lasciò pertanto Lāhōr e si stabilì in un'isoletta sopra Bombay (1676), dove conobbe un certo Ignacio de Taide, portoghese, al quale affidò una nave carica di mercanzia acquistata con i suoi risparmi. Il progetto fu un totale fallimento: il M. perse il capitale, si ammalò e dovette tornare nel Gran Mogòl per recuperare salute e fortuna. Giunto a Delhī nel 1677, ebbe l'incarico di curare una delle mogli del principe Shāh 'Ālam, secondo figlio di 'Ālamgīr, e così, riacquistata la fama, fu ingaggiato come medico al servizio del principe, il quale gli offrì il titolo di mansabdār (funzionario di rango nobiliare) con uno stipendio di 300 rupie al mese.
Nel 1683, stanco dei continui spostamenti al seguito del principe, il M. riuscì a ottenere un permesso per recarsi a Sūrat, dove dall'amico François Martin, delegato della Compagnia francese delle Indie orientali, ottenne un passaggio per Goa, minacciata dall'esercito di Sambhajī, figlio di Śīvājī. Anche in questo caso l'abilità diplomatica del M. salvò la piccola enclave portoghese ed egli ricevette in compenso l'onorificenza di cavaliere di S. Jago (29 genn. 1684). Intanto, la fama di medico e guaritore si era estesa in tutta l'India, per cui fu chiamato a curare anche i membri della famiglia del sultanato di Golconda, che i Mogòl cercavano di conquistare.
Dietro consiglio di amici come Martin e di alcuni frati cappuccini, abbandonò l'idea di fare ritorno in Europa e nel 1686 accettò la proposta di matrimonio con Elizabeth Hartley, vedova cattolica, figlia di Christopher e di Aguid Pereyra. Il M. cominciò allora una vita più tranquilla, dedicando gran parte del suo tempo all'esercizio della medicina, senza disdegnare, tuttavia, qualche operazione politico-diplomatica richiestagli da europei: grazie al suo intervento, nel 1703 Madras, enclave inglese sulla costa orientale del Deccan, fu liberata dall'assedio dell'esercito del Gran Mogòl.
Dopo la morte della moglie, avvenuta nel 1706, il M. si trasferì nei pressi dello scalo francese di Pondichéry, sulla costa orientale del Deccan. Secondo un'informazione del doge Marco Foscarini, il M. morì in una località detta Monte Grande, vicino Pondichéry, nel 1717, data su cui concordano molti studiosi.
Furono le sue memorie ad accrescere la fama postuma del M., al di là della notorietà che si guadagnò in vita.
La storia delle memorie è molto complessa. Dietro suggerimento di Martin, il M. cominciò a dettarle nel 1698 a una dozzina di amanuensi usando la lingua meglio conosciuta da ognuno di loro. Il manoscritto, in tre volumi più uno di miniature (libro rosso), vero pasticcio linguistico - ma forse uniformato nella lingua portoghese da qualche revisore finale -, fu affidato ad André Bureau Deslandes (alto funzionario della Compagnia francese delle Indie orientali) e fu portato a Parigi nel 1700. Finito nel 1703 nelle mani del gesuita François Catrou, il testo fu da questo manipolato abbondantemente, tagliato, integrato e dato alle stampe nel 1705 con il titolo di Histoire générale de l'empire du Mogol depuis sa fondation, sur les mémoires portugais de M. Manouchi, vénitien; con tale menzione Catrou riconosceva che il manoscritto del M. gli era servito solo di base mentre il resto era di propria mano. Il libro ebbe un enorme successo e fu tradotto in numerose lingue europee fino al 1836. Intorno al 1703, il M. aveva avuto notizia che il suo manoscritto non era stato pubblicato per intervento di Luigi XIV, come egli aveva sperato, e si rimise al lavoro rielaborando il testo precedente. Ne vennero fuori cinque volumi (di cui uno di miniature, detto libro nero). Questa seconda redazione, articolata in tre sezioni scritte rispettivamente in italiano, portoghese e francese, fu inviata al Senato di Venezia per il tramite dell'ambasciatore della Serenissima a Parigi Lorenzo Tiepolo, al quale fu consegnata dal cappuccino Eusebio di Bourges, proveniente da Pondichéry. Il manoscritto giunse a Venezia il 24 luglio 1706 e fu trasmesso dal Senato ai Riformatori dello Studio di Padova. Dopo un lungo periodo di riflessione, il testo fu affidato nel 1712 a Stefano Neves Cardeiraz, giurista portoghese insegnante nello Studio padovano, incaricato di tradurre in italiano le sezioni portoghese e francese. La stampa della traduzione, benché arricchita da un quinto volume in lingua italiana, fu bloccata per intervento della Compagnia di Gesù. La prima redazione dell'opera del M. rimase nella biblioteca del collegio parigino dei gesuiti fino al 1763; l'anno seguente i volumi furono venduti e, dopo una serie di passaggi, giunsero a G. Meerman, al collezionista T. Phillipps (1824) e alla Biblioteca reale di Berlino (1897), dove W. Irvine scoprì i testi del M., che tradusse in inglese e pubblicò tra il 1907 e il 1908 come Storia do Mogor or Mogul India (1653-1708), avendo visionato anche quanto conservato alla Marciana di Venezia. Nel 1986 P. Falchetta ha pubblicato in italiano, sotto il titolo di Storia del Mogol, un estratto in due volumi, uno di testo e uno di miniature tratte da entrambi i libri (Milano 1986).
Fonti e Bibl.: G. Coggiola, Sulla nuova integrale pubblicazione della "Storia del Mogol" del veneziano N. M., Venezia 1908; G. Ponti, N. M. veneziano e la "Storia del Mogol". Aspetti di vita indiana nel volume delle figure, Venezia 1929; N. Manucci, Usi e costumi dell'India dalla "Storia del Mogol", a cura di G. Tucci, Milano 1963, pp. 11-27; D. Bredi, L'immagine di un grande impero musulmano secondo un testimone italiano: la "Storia do Mogor" di N. M., in La conoscenza dell'Asia e dell'Africa in Italia nei secoli XVIII e XIX, I, 1, a cura di U. Marazzi, Napoli 1984, pp. 373-395; P. Falchetta, Per la biografia di N. M. (con postilla casanoviana), in Quaderni veneti, III (1986), pp. 85-112; Id., Autobiografia e autobiografismo indiretto nella "Storia del Mogol" di N. M., in Annali d'italianistica, IV (1986), pp. 130-139; N. Manucci. Un Vénitien chez les Moghols, a cura di F. de Valence - R. Sctrick, Paris 1995; J.H. Cook, recensione a F. de Valence, Médecins de fortune et d'infortune: des aventuriers français en Inde au XVIIe siècle: témoins et témoignages, in Bulletin of the history of medicine, LXXVI (2002), pp. 818 s.; R. Ballester, Fabulous Orients: fictions of the East in England 1662-1785, in Review of English studies, LVII (2006), pp. 420-423.