ERIZZO, Nicolò
Detto Marcantonio, secondo dei figli maschi di Nicolò, detto Andrea, e di Caterina Grimani del cavaliere Marcantonio, nacque a Venezia il 28 apr. 1723.
Questo ramo degli Erizzo, che risiedeva a S. Martino, nel sestiere di Castello, era allora considerato il più prestigioso nell'ambito della casata (ad esso era appartenuto il doge Francesco, morto nel 1646), ma non disponeva di grandi ricchezze: una fonte studiata da Georgelin gli attribuisce, agli inizi del terzo decennio del '700, un'entrata annua di 10.000 ducati, e circa trent'anni più tardi il Nani lo collocava tra le famiglie "che hanno il loro bisogno", ossia di medie fortune.
Pure, lungo tutto il corso del secolo, ogni generazione ebbe almeno un suo rappresentante che venne chiamato a ricoprire le più alte (e costose) cariche dello Stato; non solo, ma probabilmente grazie ad un'accorta politica matrimoniale ed al personale sacrificio di molti di questi Nicolò (tutti i maschi portarono tale nome, per via di un fidecommesso), che intrapresero una disagevole, ma a quanto pare redditizia carriera nell'ambito dell'apparato militare marittimo e terrestre, gli Erizzo di S. Martino risultarono, a partire dagli anni '70, tra i più cospicui acquirenti di beni delle corporazioni ecclesiastiche soppresse.
Di questa complessa, ma infine fortunata, strategia familiare l'E. fu uno dei principali interpreti. La sua giovinezza trascorse a più riprese fuori di Venezia: sappiamo che fu educato a Pisa, dove studiò morale e diritto; che si recò poi a Potsdam, presso la reggia di Federico il Grande; che quindi al seguito del padre ambasciatore fu a Costantinopoli e a Vienna. Morto costui mentre si trovava alla corte di Maria Teresa (1746), e pervenuto di lì a poco l'E. alla maggiore età, intraprese il tradizionale cursus honorum riservato ai giovani delle migliori famiglie ricoprendo il saviato agli Ordini dall'ottobre del 1749 al marzo successivo, carica alla quale venne confermato pure l'anno dopo; in seguito fu ininterrottamente savio di Terraferma per il semestre aprile-settembre tra il 1751 ed il '56, quasi sempre esercitando le mansioni di cassiere del Collegio; e poi ancora savio di Terraferma, col compito di sovraintendere alla Scrittura, dall'ottobre del '57 al marzo '58: la qual cosa significava in pratica occuparsi della gestione economica delle truppe della Repubblica, una materia che l'E., sulla scorta dei numerosi esempi domestici, poteva affrontare con particolare sensibilità e competenza.
Negli anni attorno alla metà del secolo i dibattiti monetari e finanziari erano al centro dell'attenzione del governo, e diverse strade furono esperite nel tentativo di ridimensionare il grave deficit causato dalle guerre contro il Turco e dalle successive neutralità armate; si attuarono così le conversioni del debito pubblico e si intervenne sul fronte della spesa, tagliando anzitutto i bilanci militari. Quest'ultima scelta non fu condivisa dall'E., che la previde foriera di ulteriori forme di lassismo, non solo militare, ma anche politico, della patria, e il suo atteggiamento in proposito è chiaramente espresso in alcune lettere al comandante generale dell'esercito, lo scozzese William Greeme.
Una di esse, scritta il 5 giugno 1756 quando ancora l'E. ricopriva la carica di cassiere del Collegio, stigmatizza duramente gli effetti di tale neghittosa condotta sull'efficienza delle truppe: "La lunga pace, e una mal intesa economia hanno ridotto le cose a quegli estremi in cui esse si trovano presentemente... Non credo che ci sia parte alcuna nel mondo, nella quale siano così mal pagati gl'ufficiali, né governo in cui si castighi meno di questo, e qual sorpresa poi se non v'è disciplina, dove non si conosce né premio né castigo?".
Accanto agli impegni politici, le esigenze della "ragion famigliare". Poiché il fratello maggiore non aveva avuto figli dal suo matrimonio, l'E. dovette a sua volta pensare di accasarsi, onde evitare l'estinzione del casato (ovviamente l'oculato equilibrio che presiedeva alle nozze era rigorosamente applicato anche alle femmine: delle tre sorelle dell'E., due si monacarono ed una si sposò in base al principio dell'assoluta parità tra doti in entrata e doti in uscita); il 31 ag. 1758 dunque prendeva in moglie Matilde Bentivoglio di Guido: una famiglia, questa, che, pur non risiedendo stabilmente a Venezia, era però iscritta al patriziato lagunare e per di più disponeva di grandi ricchezze.
Tale scelta, che testimonia ancora una volta la formazione e l'indole non angustamente limitate dell'E., si rivelò felice: la donna, le cui doti intellettuali e morali vengono sottolineate da più fonti, gli dette tre maschi (di cui uno, Nicolò detto Guido, sarebbe diventato una delle più interessanti personalità veneziane in età napoleonica) e due figlie, Caterina e Maria Licinia, colta e brillante traduttrice di opere francesi, inglesi e tedesche.
Quanto alla carriera politica, per quasi un decennio essa continuò a svolgersi a Venezia, su un piano di assoluta regolarità; fra il '58 ed il '66 l'E. fu savio di Terraferma, con funzione di cassiere, dal 1º ottobre al 31 marzo successivo, alternandosi per il restante semestre in cariche di natura economica e finanziaria, queste ultime spesso collegate con l'amministrazione militare: divenne così provveditor all'Armar nel '58, aggiunto ai sopraprovveditori alle Pompe l'anno seguente, depositario del Banco Giro nell'estate del '60, savio alla Mercanzia nel '62 e nel '64; fece parte del collegio della milizia da Mar nel '63 e fu ancora provveditor all'Armar nel '65. Questo serrato, ma in sostanza tranquillo esercizio politico si interruppe il 5 marzo 1767, allorché fu nominato ambasciatore presso la S. Sede, col compito di succedere al fratello.
Il primogenito Nicolò, infatti, dopo aver rappresentato la Repubblica presso le corti di Parigi, Vienna e Roma, tornava in patria decorato della veste procuratoria, che gli era stata concessa un mese prima: il prestigio della famiglia ne usciva consolidato, mentre la sua continuità fisica poteva dirsi assicurata. Sul piano privato, logico quindi pensare ad un'inversione dei ruoli tra i due fratelli e su quello pubblico la successione di due Erizzo nella stessa sede diplomatica può essere spiegata alla luce dell'influenza di cui i Bentivoglio potevano disporre presso la Curia, giudicata particolarmente utile in un momento così difficile e delicato per i rapporti Stato-Chiesa, e soprattutto per quelli tra Venezia e Roma, tradizionalmente ispirati a reciproche diffidenze e gelosie.
L'E. giunse a Roma nell'estate del '67, quando l'offensiva antiecclesiastica era in pieno sviluppo, e mentre anche a Venezia il partito giurisdizionalista, nel quale sostanzialmente egli si riconosceva, stava preparando i decreti abrogativi delle manomorte.
Sin dall'8 agosto il nuovo ambasciatore non esitava a render noto, in termini insolitamente decisi, il proprio convincimento: "È dunque, Principe eccellentissimo, giunto il momento, nel qual li sovrani senza contrasto né timore possono da sé ricuperar ad esercitar quei diritti che per il passato da taluni erano stati perduti o se li avevano lasciati pregiudicare per sola ignoranza, della quale seppe così bene approfittare questa Corte ricoprendo ogni sua pretesa, sotto il specioso manto della Religione. Chi frattanto dell'opportunità presente non sappia coglierne il dovuto profitto, non avrà che da lagnarsi di sé, se mai le cose prendessero un nuovo aspetto". Nessuno spunto di irreligiosità nell'E., ma soltanto l'adesione (tradizionalmente irrinunciabile nel patriziato lagunare) alla fondamentale lezione sarpiana; un anno più tardi (27 ag. '68), quando ormai l'ondata giurisdizionalista sembrava inarrestabile, egli così esprimeva al Senato le sue perplessità: "...son tali e tante le riforme ecclesiastiche fatte dai sovrani per rimediare ai pretesi abusi della Chiesa che, Iddio non voglia, volendosi dalla podestà temporale sopprimerli tutti, ne nasca la pessima e triste conseguenza che ne venga pregiudicata la nostra santa e vera religione".
Di lì a qualche giorno, con l'emanazione del decreto 7 sett. 1768, la Repubblica si sarebbe posta addirittura alla testa delle rivendicazioni antiromane, e l'E. certo non ignorava quanto andasse maturando in Senato: è dunque possibile leggere tra le righe di questo dispaccio un invito alla prudenza, a non rompere decisamente col Papato? No, perché la sua fiducia nello spirito di moderazione e giustizia dello Stato marciano è ancora tanto forte da fargli ritenere auspicabile per Venezia ciò che altrove sarebbe forse stato dannoso, al punto che, alla fine del mese, egli rassicurava il Senato circa l'improbabilità di una paventata reazione pontificia all'emanazione del decreto:
"Ad ognuno che vi riflette è nota la somma prudenza con la quale si è sempre la Repubblica regolata, e perciò crede che se mai nelle nuove relazioni vi fosse una qualche cosa, alla quale gli effetti non corrispondessero alle rettissime sue intenzioni, e ne fossero per derivare dei mali, prontamente la pietà di vostra Serenità vi porrebbe riparo, il che forse non succederebbe negli altri Principati, una volta che fossero addottati simili provvedimenti".
La morte del veneziano Clemente XIII e l'elevazione al soglio del più conciliante L. Ganganelli, papa Clemente XIV, resero meno difficile la missione dell'E., che dal nuovo papa ottenne anzi, in cambio della composizione della vertenza relativa al cardinale Molin, reo di non aver voluto applicare nella sua diocesi bresciana talune deliberazioni giurisdizionaliste, il permesso di portare a termine il restauro di palazzo Venezia e, sul piano personale, la nomina a cavaliere.
Al ritorno in patria l'attendeva l'ingresso alle maggiori cariche dello Stato: divenne infatti savio del Consiglio nel 1771, '72 e '73 per il semestre 1º ottobre - 31 marzo dell'anno successivo; fu poi consigliere ducale dal 1º ott. '74 al 30 sett. '75 (il 18 febbr. 1775 era stato anche nominato ambasciatore straordinario a Roma, ma la missione non ebbe luogo), esercitando nei periodi della contumacia magistrature di natura economica e finanziaria, come quella di deputato alla Provvision del danaro (1773), di savio alla Mercanzia (1774), di revisore e regolatore alle Entrate pubbliche (1776); l'ordinato succedersi delle nomine conobbe una breve interruzione nell'aprile del '77, allorché venne eletto alla podesteria di Padova: rifiutò, e fu proclamato bandito. Per tre anni dunque non ebbe più alcuna carica, ma dal luglio 1780 riprese in pieno la sua attività, ricoprendo il saviato del Consiglio per il secondo semestre dell'anno, fino al 1783, ed occupandosi nei restanti mesi nell'apparato finanziario dello Stato.
Non è tuttavia in questa pur intensa e prestigiosa carriera che si devono ricercare i tratti peculiari della personalità e dell'azione politica dell'E., quanto piuttosto nel ruolo da lui ricoperto nell'ambito della politica interna veneziana: amico di A. Tron, che aiutò a sbarazzarsi di P. A. Gratarol, e suo fiancheggiatore nell'elaborazione del programma giurisdizionalista (ma a questo proposito è da tener presente che l'E., in unione al fratello, si assicurò vaste proprietà fondiarie già appartenute ai monasteri soppressi e poste in vendita dalla Deputazione ad pias causas), l'E. tuttavia non si riconobbe se non parzialmente nella politica espressa dal "paron", rappresentandone invece, in qualche misura, il superamento: si coglie infatti un'ansia di nuovo nella sua visione economica e sociale, come ad esempio nel tentativo, riuscito, di liberalizzare il commercio dell'olio corcirese proprio a favore di quegli ebrei che il Tron, un anno prima (1771), aveva voluto escludere; oppure nelle sue aperture verso gli armatori greci ed i capitalisti borghesi.
È anche questo, in fondo, il significato della sua ultima azione politica, la più incisiva e importante, che si svolse a Corfù, dove egli fu inviato il 15 febbr. 1784, in qualità di provveditore straordinario alle isole del Levante.
Si trattava di una magistratura che veniva eletta saltuariamente, quando cioè si rendeva improcrastinabile il riassetto dell'apparato amministrativo e giudiziario - tradizionalmente inefficiente - nei territori più lontani dalla Dominante.
Qui, in margine alle usuali incombenze (spedizione dei molti processi giacenti, rifornimenti di uomini e mezzi alla squadra navale, allora impegnata nella guerra con i Tunisini, repressione del contrabbando), l'E. per più di tre anni procedette ad una fitta serie di interventi di ordine economico e politico-sociale: non si trattò di una riforma organica (una simile iniziativa sarebbe risultata estranea alla prassi veneziana), ma di una capillare sistematica revisione dei principali settori nei quali si articolava l'assetto di quelle Comunità.
A cominciare dall'economia: convinto che la posizione geografica di Corfù, "e tanti altri vantaggi potrebbero agevolmente ridurre questa una Scala di florido traffico, e il centro delle confluenze non solo della prossima terraferma, ma anco delle parti superiori del Levante", l'E. promosse la costruzione di un fontico di grani, migliorò la rete viaria, consentì agli ebrei - che nell'isola godevano di una maggiore libertà rispetto ai correligionari di altre parti del dominio veneto - di dedicarsi alla mercatura; quindi si volse a razionalizzare la struttura delle arti e delle corporazioni, infine provvide a rafforzare l'autorità del "protopapa" ortodosso e dei Consigli cittadini, appoggiandosi al capitalisti locali. Né furono soltanto le sue convinzioni a spingerlo in questa direzione, ma anche ragioni di opportunità politica, vale a dire il tentativo di porre in atto una sorta di captatio benevolentiae nei confronti dei notabili, per contrastare la crescente influenza della Russia presso quelle popolazioni.
La morte lo colse a Corfù, il 7 dic. 1787, quando ormai era imminente il rimpatrio.
A testimonianza della sua popolarità fra i Greci, restano le due orazioni funebri recitate nei Consigli di Corfù e di Cefalonia, dove pur tra le inevitabili declamazioni neoclassiche, si avvertono accenni sinceri di gratitudine; ancora, quando nel 1826 l'antica parrocchiale fu destinata ad ospedale, le sue spoglie vennero traslate nel duomo latino con una solenne cerimonia seguita da tanta folla.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Misc. codd., I, Storia veneta 19: M. Barbaro-A. M. Tasca, Arbori de' patritii…, III, p. 420; Ibid., Segretario alle Voci. Elezioni dei Pregadi, reg. 23, cc. 15 ss., 23, 29; reg. 24, cc. 6, 12-15, 22 s., 40, 44, 51, 69, 73, 98, 103; reg. 25, cc. 4 ss., 8 s., 31, 35, 46 s., 72, 92, 116, 120, 128 s., 138, 147, 180, Ibid., Segretario alle voci. Elezioni del MaggiorConsiglio, reg. 31, cc. 5, 120; reg. 32, c. 137; Ibid., Miscellanea codici. Elez. del Consiglio dei dieci, reg. 68, c. 50r; Padova, Bibl. universitaria, Mss., 914: J. Nani, Saggio politico del corpo aristocratico della Repubblica di Venezia per l'anno 1756, c. 3; le lettere al Greeme, in Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 1912 (= 8328): Milizia veneta, cc. 773r-774r; per l'ambasceria romana, Arch. di Stato di Venezia, Senato. Dispacci Roma, ff. 286-290 (lettere dal 4 giugno 1767 al 3 ag. 1771); Ibid., Expulsis papalistis, f. 43 (tutta dell'E.); I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, VIII, Venezia 1914, pp. 195, 199; S. Teotochi, Elogio di S.E. N.E. II cavalier..., Venezia 1788 (ristampato in Orazioni funebri recitate nelle due città di Corfù e di Cefalonia ... in morte di... N.E. II…, Firenze 1788).
Cfr. inoltre: P. V. Radonić, Die Klosterreform in Venedig (1767-1770), Sibenik 1935, pp. X, 20, 22 ss., 70 s., 74 ss., 78, 94 s.; S. Ciriacono, Olio ed ebrei nella Repubblica veneta del Settecento, Venezia 1975, p. 80; F. Venturi, Settecento riformatore, II, La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti. 1758-1774, Torino 1976, pp. 186, 233; J. Georgelin, Venise au siècle des lumières, Paris-La Haye 1978, pp. 482, 491; A. Maggiolo, Isoci dell'Accademia patavina dalla sua fondazione (1599), Padova 1983, p. 114; G. Boccotti, La fuga di P. A. Gratarol nobile padovano a Braunschweig: una loggia massonica negli intrecci politici della Venezia tardosettecentesca, in Studi veneziani, n. s., VIII (1984), pp. 322, 326; F. Trentafonte, Giurisdizionalismo illuminismo e massoneria nel tramonto della Repubblica veneta, Venezia 1984, p. 38; P. Ulvioni, Politica e riforme a Venezia nel secondo Settecento. Il "piano daziale", in Profili di storia veneta. Sec. XVIII-XX, a cura di U. Corsini, Venezia 1985, p. 92; Il palazzo di Venezia a Roma, in Venezia e la Roma dei papi, Milano 1987, p. 67; P. Litta, Le famiglie celebri italiane, sub voce Erizzo, tav. III; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica..., XIIC, pp. 593, 602 ss.