DOLFIN, Nicolò
Unico figlio di Nero (1561-1592) di Giuseppe e della sua seconda moglie Paolina di Giovanfrancesco Grimani, nasce a Venezia il 28 genn. 1592 e si sposa, ancora adolescente, il 5 febbr. 1610, con Elisabetta di Angelo Priuli, dalla quale avrà tra il 1611 e il 1630, otto maschi e una femmina, Maria, sposa quest'ultima, nel 1637, ad Andrea Badoer e, rimastane vedova, nel 1642 a Michele Morosini, fratello del futuro doge Francesco.
Protetto dallo zio paterno il cardinale Giovanni, che lo favorisce nei suoi testamenti - a cominciare da quello dell'11 marzo 1611 ove gli lascia la sua "possession" polesana "della Pincara" che rende d'affitto 950 ducati annui, 150 dei quali vanno ad un altro suo zio paterno Daniele (1549-1623), già capitano di Verona nel 1602-1604 - come erede universale, è nel palazzo, appunto da quello acquistato, alla fine del 1621, a S. Pantalon, che il D. va a vivere con tutta la sua famiglia. E, morto lo zio cardinale nel 1622, il D. gli erige un grandioso monumento sepolcrale nella chiesa di S. Michele in Isola. A iniziata, nel frattempo, la carriera politica del D. (da non confondere, ad ogni buon conto, con quell'omonimo Niccolò Dolfin che, bandito dalla Repubblica, risiede a Londra; e alla cui testimonianza contro Antonio Foscarini il Consiglio dei dieci esclude si debba prestar fede [A. L. Zorzi, A. Foscarini, Roma 1941, p. 12]) che ricopre il suo primo incarico di rilievo come capitano di Vicenza dove giunge, il 17 dic. 1623, deciso "ad amministrar giustitia indifferente", vale a dire, imparziale, e ad "liaver vigilantissimo riguardo alli pubblici interessi et a questi confini".
Poiché "il denaro è il nervo della guerra et il sostentamento della riputatione de' prencipi", egli esplica tutto il suo zelo nell'allestire l'elenco completo dei "pubblici debitori" degli ultimi anni, nel fronteggiare i "disordini" e gli "inconvenienti" verificatisi nella "materia" dei dazi, specie relativamente alla "macina", cercando d'arrestare il tendenziale declino dei gettiti puntando su appalti il più possibile sostenuti. Ma alquanto faticoso, però, risulta attestare sui 29.000 ducati l'"incanto" del dazio della seta. E la sottrazione alla sua competenza delle "decime del clero", in quanto "papalista" - non è solo nipote del cardinale da poco defunto, ma è anche parente d'ecclesiastici viventi; è, in particolare, suo zio paterno il vescovo di Vicenza Dionisio (1556-1626), le cui "diferenze" coi canonici il D., ad ogni modo, s'adopera, col podestà Giorgio Emo, d'appianare - ridimensiona il suo ardore in fatto d'"essatione del denaro di publica ragione". Solerte nell'attendere alla "mostra" delle "compagnie" presidianti la città, il D., assieme a Cosimo Del Monte e a Francesco Caldogno, ispeziona, all'inizio del 1625, con un'accurata "revisione" la "militia di Pedemonte et nei Sette Comuni". Un'esperienza diretta di cui v'è eco nella relazione presentata - una volta lasciata, il 2 novembre, omaggiato da IlDelfino. Poema (Vicenza 1625) di Pomponio Montanari, Vicenza - a Venezia sul suo rettorato. In questa il D. da un lato esprime un giudizio negativo sulla milizia dell'altopiano di Asiago ("gente insolente disobediente interessata mal disciplinata" dedita al contrabbando), dall'altro suggerisce un'intensificazione dell'addestramento delle cernide e, nel contempo, un loro più rapido avvicendamento si da non distogliere troppo a lungo dal lavoro e dalla casa siffatta recalcitrante "soldatesca".
Seconda incombenza di rilievo del D. - che, il 6 luglio 1626, rafforza la propria posizione economica ottenendo dal cugino Daniele (1593-1631), figlio d'un altro suo zio paterno Benedetto (1543-1603) l'usufrutto dei beni lasciati a quest'ultimo dal vescovo di Vicenza Dionisio; e il fatto che il D. acquisti, il 9 apr. 1660, "beni posti sotto Chioza" evidenzia la sua preferenza per gli investimenti immobiliari - la rapida puntata di "brevi giorni" in una Mantova ancora desolata e tramortita dal tremendo sacco di due anni prima. In un palazzo ducale reso spettrale dalla scomparsa delle "suppellettili" e "pitture", spoglio d'ogni arredo ed ornamento, il D. appura la "parzialissima devozione" per Venezia di Carlo I Gonzaga Nevers, del quale schizza - nella relazione al Senato del 5 ag. 1632 - un ritratto non privo d'accenni sarcastici: mostra meno dei suoi anni, però s'aiuta con "capigliatura posticcia"; ha "tratto" compito, eloquio forbito, ma purtroppo a siffatte qualità non corrispondono tangibili "essecuzioni". Quanto alle voci di matrimonio, al quale a corte lo si sollecita, manca una precisa candidatura, mentre la nuora - vedova di suo figlio - "sta ferma in desiderare" o che non si sposi o che, piuttosto, "lo faccia con lei".
Eletto (poco prima della costituzione, del 31 ag. 1642, della lega di Venezia col granduca mediceo e col duca estense), il 7 giugno, provveditore ai Confini in Polesine, il D., superando, come scrive egli stesso il 4 giugno 1644, le "violentissime infermità impresse nelle mie viscere dalla malignità di quest'aria" (alla quale per qualche tempo si sottrae riparando, per ristabilirsi, a Venezia, sostituito, durante la sua assenza, da Sebastiano Venier), per circa "due anni", sorveglia e ricaccia gli "andamenti del nernico", vigila guardingo in terra e in mare "per la conservatione di questi posti", sequestra imbarcazioni pontificie, sovrintende a lavori di fortificazione, rassegna truppe, sferrando, inoltre, ogni tanto efficaci mosse offensive. Con un ingegnoso stratagemma - fa accostare il naviglio da pescherecci carichi di soldati travestiti da pescatori i quali, fingendo di vendere pesce, vengono ingenuamente accolti a bordo - cattura nelle acque di Goro un'"orca fiammenga" armata di tutto punto e carica di grano e l'invia a Venezia dove il carico viene confiscato. Conquista di sorpresa il "forte delle Buchette, posto importantissimo - spiega, il 7 giugno 1643, Fulvio Testi a Maria d'Este, moglie di Francesco I - ... poco discosto" dalla sacca di Goro, dove un coraggioso soldato, fingendosi disertore, s'è introdotto per abbassare - quando, nottetempo, i commilitoni l'assaltano - il ponte levatoio. Agevole poi, per il D., impadronirsi delle due "torri, una detta dell'abbatia e l'altra di Goro", fortificate che cedono senza resistere. Immediata segue la resa d'Ariano, la cui popolazione lo scongiura di poter rimanere sotto la Repubblica, mentre il Senato, a riconoscimento della sua felice impresa, l'elegge savio grande. Reso baldanzoso dal successo, il D. non si limita alla sorveglianza e, notato, a "Capo di Goro", un concentramento di truppe barberiniane ivi trinceratesi, temendone un'azione offensiva, la previene attaccandole e sbaragliandole, E, di li a poco, fuga un altro contingente pontificio nei pressi d'Ariano. Ulteriore duro colpo al nemico la fulminea dispersione d'un distaccamento di fanti e cavalli. Ma è ormai in atto, grazie alla missione di Bichi, la ricomposizione e il D., appresa "con infinito ... giubilo" la "pace conclusa", il 31 marzo 1644, a Ferrara, s'affretta a desistere dalle operazioni aggressive e licenzia "li guastadori che lavorano alla Mesola". Partito da Ariano il 22 giugno, rientra a Venezia. Qui, quando è ormai prossima la guerra col Turco (un nemico ben più temibile delle ridicole truppe barberiniane, delle quali il D. nelle sue penetrazioni nel Ferrarese, s'è potuto burlare), il D. viene designato, assieme a Leonardo Foscolo, provveditor straordinario in Dalmazia, dov'è provveditore generale Andrea Vendramin. Partito, col collega, il 14 ag. 1645, il D. giunge a Zara il 18, ben presto esprimendo - e con lui concorda Foscolo - il suo dissenso coi propositi di sgombero totale, demolizioni, distruzione "d'olive, vide e piante" avanzati, nell'eventualità d'un attacco ottomano, da Vendramin. Da un lato il Turco può già rifornirsi nei propri territori, dall'altro così si demoralizzano le popolazioni infliggendo loro una "barbarie" analoga a quella che si suole attribuire all'infedele. Quanto all'ordine dato al barone d'Enghelfelt, colonnello e comandante delle fanterie, di respingere i Turchi - questi, spintisi sin quasi a Spalato, ne erano stati ricacciati - senza però inseguirli oltre confine, il D. non lo condivide, per quanto dettato dalla speranza il conflitto sia ancora ricomponibile e vadano, perciò, evitati inasprimenti, quasi a blandire il bassà -di "Bossina", il cui "esercito" si sta vistosamente ingrossando e sempre più preme sulle linee di demarcazione.
Secondo il D., la nave "Badoera", anziché contemplare passiva la ritirata nemica, avrebbe dovuto cannoneggiarla con tiri ben mirati. Poco fruttuoso - sostiene il D. a proposito delle sortite dei Turchi - "questo sistema di non toccarli", come vuole Vendramin, "sul suo, et essendoli in tiro mostrarli questo rispetto, dopo che ci hanno" offeso. È un comportamento che "mostra troppa viltà et non conferisce né alla dignità pubblica né a quel poco di vigore" che è opportuno - in ogni caso - esibire, specie all'inizio della "guerra". Né ciò "pregiudica", anzi giova alla stessa "speranza" - peraltro ritenuta dal D. "dubia e vana" - del riassorbimento rapido del conflitto. Un conto, argomenta il D., dilazionare - e ciò sarebbe giustificato - la rottura esplicita, un conto, come nel caso delle scorribande armate ottomane, impantanarsi nella "circospettione" e nei "rispetti", quando, invece, è doveroso reagire a provocatorie "ingiurie" ed "aggressioni ... sul suo". R proprio l'energia della reazione che può, semmai, indurre l'aggressore a più miti consigli. E il D. - che con zelo ispeziona, organizza, anima soprattutto a Spalato, ma anche in altre località come Zara, Traù, Lesina, Almissa - si scontra ulteriormente con Vendramin perché, in titubante attesa di esplicite istruzioni senatorie, non impone, spaventato dalle proteste degli abitanti di Sebenico San Nicolò Spalato-e Novegradi, l'immediato trasferimento dei loro cannoni di maggior calibro a Zara che pare la più minacciata. Né è d'accordo con Vendramin laddove questi vorrebbe trattenerlo a Spalato, mentre, secondo il D., è più utile la sua presenza a Zara. Ma, al di là dello specifico contrasto, l'insofferenza del D. per la condotta oscillante e timida del provveditor generale esprime pure una critica al metodo - che si sta già rivelando dannoso - del comando plurimo e, insieme, un pressante invito al Senato perché sappia e voglia precisare e distinguere i compiti, definire le responsabilità e le competenze all'interno d'un coordinato quadro operativo ove le gerarchie abbiano una funzionale definizione. Un incitamento vano, ché gli inconvenienti dal D. lamentati sono, appunto, conseguenza dell'incapacità, in seguito aggravatasi, del consesso senatorio di produrre una consapevole e non improvvisata, linea direttiva.
Pel momento il Pregadi - che, ancora il 2 settembre, ha nominato, al posto di Vendramin, provveditore generale in Dalmazia Foscolo - concede al D., il 25 novembre, visto che così è "rimasto solo e senza collega", il rimpatrio, per nominarlo, non appena ritornato, il 15 dicembre, consigliere, con Giovanni Cappello, del doge Francesco Erizzo preposto al comando generale della flotta. Ma questi muore, il 3 genn. 1646, mentre fervono i preparativi per allestirla. Vien meno, così, questa prestigiosa carica del D., mentre l'ormai irreparabile inasprirsi del conflitto fa rientrare la successiva nomina a bailo a Costantinopoli.
Eletto, il 3 maggio, provveditore generale ed inquisitore nelle isole in Levante, il 2 giugno il D. si porta al Lido, donde, il 7, salpa alla volta di Corfù, dove, il 27, si insedia. Mentre rapida è la visita ad Avo e Zante (qui s'occupa dell'assassinio per furto d'un mercante) e breve è l'ispezione a Cefalonia dove persiste un "sospetto" d'epidemia, è soprattutto a Corfù che il D. - anche se afflitto da "dolori colici et di stomaco" e, in seguito, da "furia di catarro con febre impetuosa" - s'applica nell'andar "vedendo questa piazza e queste fortezze" per disporre le "riparationi" più urgenti, nel verificare "il denaro effettivo ... che si attrova nella cassa di raggion pubblica" della "camera fiscale", nell'inventariare "robbe" e "monitioni". E a dei capitani di brigantini messinesi, per quanto fregiati di titoli nobiliari, impone la liberazione degli schiavi che risultino sudditi veneti fatti corseggiando nelle coste turche. Nell'apprendere d'essere stato eletto, il 14 novembre, provveditor generale a Candia, scrive, il 3 dicembre, al Senato che solo per spirito d'obbedienza accetta una "carica" che, nell'attuale situazione, è "la più grave". Assicura di prodigarsi con tutte le sue forze in un "servitio così horribile" che lo pone "a fronte della vasta potenza ottomana, festosa d'acquisti et vittorie ... che, con la presa di Rettimo e fortezza, s'è già resa patrona della campagna e s'è facilitata et aperta la vita per il conquisto di Candia", la capitale cioè, dove la difesa è inadeguata, dove la peste sta infierendo. "Inutile", paventa, in una condizione così disperata, ogni suo sforzo. Ciò non toglie - ribadisce - che farà completamente la sua parte. In ogni caso, fa presente, non sara sua responsabilità il prossimo "evento non felice".
Trattenutosi a Corfù sino alla fine di febbraio del 1647, fatta sosta nel marzo, a Zante, il D., all'inizio d'aprile, assume il comando della difesa della città assediata, ove la "pestilenza", pur in via di ripiegamento, continua a mietere vittime assottigliando il "numero de' diffensori". V'è, inoltre, penuria di "farine", essendo addirittura quasi spariti, nel fontego, i "formenti", di cui solo "li benestanti sono provisti". Disperante, soprattutto, la "total mancanza di denaro" - e con una punta di lugubre ironia il D. spiega al Senato: "potrò ben senza danaro perder con la città la mia vita", ma non sostenere la difesa di quella - che il D. fronteggia coll'affannoso ricorso al prestito di mercanti, nobili locali, ecclesiastici. Certo ne abbisogna, se non altro per la "mancia" a quei "soldati" e "villici" che o fanno prigionieri dei turchi o ne esibiscono, a prova d'averli ammazzati, le "teste".
Esiziali, per la truppa, il ritardo nei pagamenti e la fame che provocano lo stillicidio, pressoché quotidiano, di "fughe infami" al nemico, la rendono poco combattiva, infingarda, indisciplinata. Capita che, in una scaramuccia, un'intera "compagnia" getti "l'armi in terra, dicendo che morivano di fame et che senza danaro non volevano farsi amazzare". Ciò mentre il nemico, concentrato a Rettimo, continua ad "infestar casali e la campagna sino a soli 10 miglia di qua discosto". Il D., per parte sua, è instancabile nella, vigilanza non senza disporre qualche sortita offensiva. "Si va facendo, con queste poche forze, tutto quello che si può" scrive al Pregadi.
Troppo baldanzosa, purtroppo, il 19 giugno, l'uscita allo scoperto della fanteria agli ordini del francese "Gil d'As" e della cavalleria a quelli di Vincenzo Della Marra, volta ad incalzare i Turchi e a ricacciarli dalla "Messarea". Questi, in effetti, dapprima arretrano sinché un repentino e ingiustificato voltafaccia della cavalleria - correrà il sospetto ne sia responsabile Della Marra ingelosito degli evviva indirizzati al collega dalle truppe avanzanti - rianima i Turchi, i quali si ricompattano e passano all'offensiva gettandosi sulla fanteria veneta e mettendola in fuga. Invano si prodiga per arrestarla il giovane Marcantonio Dolfin (è nato il 25 genn. 1627), che ha seguito il padre a Candia. Inascoltati i suoi incitamenti; rimasto solo, il giovane tenta, a sua volta, di salvarsi, ma, nel galoppo, il cavallo cade, egli viene sbalzato a terra e gli inseguitori lo catturano portandolo a Rettimo. Grande, nella città assediata, la delusione per il mancato successo, mentre sconforto e scoraggiamento dilagano tra le truppe e la popolazione.
Si fa strada la convinzione sia impossibile proseguire la resistenza. Corre voce - senza che il D. riesca ad individuarne "Pauttore" - la Serenissima addirittura desideri "si perdi Candia da sé, per non cederla volontariamente con pregiudicio della reputatione". Allora, si insinua, "bisogna che quei di Candia habbiano cervello". Alla diceria che allarga il solco tra l'elemento greco e quello veneziano e inasprisce i reciproci sospetti s'aggiunge, all'interno del secondo, il montare d'un crescente malanimo nei confronti del Dolfin. Si sa che suo figlio è ben trattato (occorrerà tenti, più tardi, la fuga, perché la sorveglianza si faccia più rigida), che "Cusseim" pascià è con lui riguardoso. Un trattamento di favore che taluno, astiosamente, calunniosamente, va dicendo non senza contropartite da parte del D., il quale avverte "ogni giorno" il propalarsi di tali "mali humori". Né si sparla solo di lui, ma anche della Repubblica. Il sospetto quest'ultima non intenda impegnarsi più che tanto nel puntellare la difesa si combina con quello che il D., suo massimo esponente nell'isola, ricattato da "Cusseim" nei suoi sentimenti paterni, non voglia, a sua volta, battersi più che tanto. Chiacchiere con sentore d'insubordinazione, cui il D. reagisce aspramente, "ma col tirarmi addosso un odio immortale", specie quando fa arrestare Giovanmatteo Dandolo, un "gentilhuomo" veneziano che "spargeva concetti strani, pernitiosi contro il governol contro rappresentanti e contro capi militari e seminava tra quest'ultimi zizanie e rancori". Inoltre - denuncia il D. - "andava inveliendo a' semplici" e "a' popolari che si voglia donar al nemico il regno e la piazza e che non vi sia più rimedio".Ma la reclusione dell'intrigante calunniatore, lungi dal tacitare le voci ostili, aumenta il flusso della maldicenza. Attanagliato dalle "solite angustie di denaro", il D., che s'arrabatta per ottenere prestiti a destra e a manca, viene per questo volutamente accusato di peculato, viene dipinto come un malversatore. Bersagliato dalle "freccie" della malignità, trafitto dai "fulmini" d'odiose contumelie, il D. è avvilito ed esasperato ad un tempo. Anche per questo s'aggrava il suo "stato di poca salute" e, perciò, il 22 ottobre, chiede, con tono accorato, "licenza" di rimpatrio che gli viene accordata. Sicché, alla fine di febbraio 1648, lascia Candia e, in trentotto giorni, passando per Corfù, arriva a Venezia, essendovi però - proveniente com'è da una località non ancora liberatasi dall'epidemia - trattenuto in lazzaretto. Ma, visto che sia egli sia i suoi compagni di viaggio sono immuni dal contagio, chiede, il 12 aprile, per sé e per gli altri, il permesso d'uscirne anticipatamente.
Restituito al dibattito senatorio, il D. è tra quanti più autorevolmente sostengono l'opportunità d'una rapida conclusione della guerra, a costo di cedere Candia. Una posizione non esente - agli occhi dei colleghi - da motivazioni personali. Torturante, in effetti, per il D. l'assillo per la sorte del figlio Marcantonio, che continua a rimanere in mano turca, vani risultando tutti i ricorrenti tentativi di riscatto. "Affare ... circondato di spine e scabrosità" quello della sua liberazione che il Senato, sensibile al tormento del D., fa proprio raccomandando, nelle istruzioni ai provveditori che via via si succedono a Candia, d'adoperarsi per il "sollevo" di Marcantonio, al quale, in qualche modo, si fa arrivare del denaro e dal quale s'hanno notizie da trasmettere alla famiglia non prive di cenni sulla situazione del campo turco. L'11 giugno 1654 il provveditore generale dell'isola Andrea Corner conferma che è sempre a Rettimo, in "deplorabili angustie", prostrato da "un'infermità gravissima" al punto da suscitare "ne' barbari qualche favilla d'humanità". Ridotto agli "estremi del vivere", sono i Turchi a fornirgli opportuni "medicamenti" e a permettere che Corner gli invii "uno dei migliori" medici per curarlo. Sfuma, purtroppo, nell'estate del 1656, la proposta di scambio avanzata da Venezia che offre il pascià visir Mehemet, zio del sultano, catturato nel luglio - in occasione della presa di Tenedo - da Barbaro Badoer. S'incupisce nel frattempo il D. che - savio del Consiglio e, nel 1655, correttore della promissione ducale - via via si distacca dalla politica attiva.
"È un senatore d'anni 70 (così di lui, attorno al 1660, in un'anonima panoramica sul patriziato veneziano], riputato uguale ai primi savii grandi quando stava sulla riga di essi; ma ora si è ritirato dal maneggio, né vuol saper altro. Il concetto di troppo interessato gli ha cagionato discapito, massime per la rissa havuta" con Francesco Querini (1605-1667) di Filippo, patrizio povero in fama d'"integerrimo", il quale, redarguendo, in veste di savio grande, quanti intaccano "l'azienda del pubblico", audacemente aveva fatto il nome del D., "uno dei primi savi grandi e (toltane l'avarizia che alcuni chiamano rapacità) non secondo ad alcun senatore". Querini non esita - così sempre nella relazione dell'anonimo - ad accusarlo "si fosse usurpato per cinquanta mila scudi di fondi del pubblico, per via di certe compere illegittime", delle quali poi il D. "fu spogliato". Ma Querini, a detta della stessa fonte, paga cara la sua denuncia ché l'assassinio d'un suo "villano" - deve trattarsi, con tutta probabilità, del delitto di cui sarà ritenuto responsabile il suo servitore Domenico Santi, bandito, per questo, in contumacia - viene, per pressione del D. e dei suoi aderenti, a lui imputato, per quanto proclami a gran voce la sua "innocenza". Per poco - adoperandosi in tal senso anche l'avogadore, amico del D. - Querini non viene condannato. L'episodio, così raccontato, non depone certo a favore del Dolfin. "Per altro - prosegue la relazione - è uomo vivace, profondo, ardente, politico, gran brogliesco", cioè immerso sino al collo nel controllo - tramite broglio - pilotante le elezioni alle varie cariche. "Molto autbrevole - precisa, infine, l'anonimo - appresso di lui" il procuratore di S. Marco Andrea Pisani, uomo del pari già dedito a "coltivare con tutto lo spirito il raggiro de' brogli" e, ciò malgrado, in seguito atteggiantesi, "benché vaglia poco", a "Catone" dalle "poche", ma austere "parole".
Continua, nel frattempo, la prigionia di Marcantonio che, portato in dono al sultano da "Cusseim" e rinchiuso nelle costantinopolitane "Sette Torri" (dove generosamente s'interessa di lui l'ambasciatore inglese alla Porta Heneage Finch conte di Winchelsea), vi muore il 16 ott. 1668. Ed è in riconoscimento della "schiavitù" subita dall'infelice per "pubblico servitio" che a Daniele Dolfin, l'ultimogenito del D. nato il 15 febbr. 1631, e ai suoi due figli vengono dispensati "dall'obbligo dell'età" si da poter essere "ballottati a tutti gli onori e cariche" sia in Senato sia in Maggior Consiglio.
Quanto al D. sopravvive di poco alla scomparsa di Marcantonio, morendo, il 5 marzo 1669, a Venezia.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, 56, c. 98v; 89, c. 6; 90, c. 7; 382/1; 3827/13; Ibid., Capi del Consiglio dei dieci. Lett. di rettori e altre cariche, buste 227/174, 175, 179-182, 191, 193, 194, 197, 198, 200-204, 209-213, 215-219, 222-225, 236, 237 e 293/90-93; Ibid., Senato. Mar, regg. II, cc. 2r, 68r; 12, c. 77r; 13, cc. 367v-368r; 104, cc. 268v-269r; 105, cc. 149r, 186r, 195v-196r, 215v-216r, 307v; Ibid., Senato. Terra, regg. 94-96, 125-127, passim; Ibid., Senato. Dispacci . Firenze, f. 57, lett. n. 44; Ibid., Senato. Lett. provv. da Terra e da Mar, filze 255, lettere del D. del 21 febbraio-21 giugno 1644; 461, passim da lettera, del 16 ag. 1645, a firma del D. e Leonardo Foscolo; 798; 805, lettere dell'11 giugno e 20 luglio 1654 relativamente al figlio Marcantonio; 1157; Ibid., Senato. Lett. rettori Rovigo, Badia e altri; f. 30, lettere del 6 giugno del rettore di Adria Andrea Zen, del 13 luglio del D., del 14 dic. 1643 del rettore di Adria Marco Manolesso; Ibid., Senato. Lett. rettori Vicenza e Visentin, filze 15, da lettere del 17 dic. 1623 e 16, sino a lettera del 19 nov. 1625; Venezia, Bibl. d. Civ. Museo Correr, Codd. Cicogna, 2290, pp. 33-34 e 3277/3/d,g; Ibid. Mss. P.D., C, 2479/XV, cc. 51r-55r; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 844 (8923), 845 (8924), 847 (8926): Raccolta de' Consegi, XXXII, ce. 184r, 209r e XXXIII, c. 52r e XXXV, c. 235v; G. Galilei, Le opere (ed. naz.), XIII, pp. 99-100; XX, p. 433; Relazioni dei rettori, a cura di A. Tagliaferri, VII, Milano 1976, pp. XXXVIII, 303, 305, 307-311, 313, 314; F. Testi, Lettere, a cura di M.L. Doglio, III, Bari 1967, p. 368; Relaz. degli ambasciatori veneti.- a cura di A. Segarizzi, I, Bari 1912, pp. 173-200, 300; V. Siri, Del Mercurio..., III, Lione 1652, pp. 374-375, 471, 767, 880; F. Sansovino, Venetia..., a cura L. Moretti, Venezia 1968, pp. 675-685 passim; Il carteggio di Giovanni Tiepolo amb.... in Polonia..., a cura di D. Caccamo, Varese 1984, p. 482; L. Crasso, Elogii de ... letterati. I, Venetia 1666, p. 207; G. A. Manzoni, Documenti ... consecrati all'illustriss. ... Daniele Doffin..., Venetia 1675, pp. 75-76; B. Nani, Hist. della Rep. ven., 1 Degl'ist.. delle cose veneziane, VIII e IX, Venezia 1720, rispettivamente alle pp. 734-735 e 111, 127, 128, 182 (nonché, relativamente a Marcantonio, 409, 444, 576); A. Valier, Storia della guerra di Candia, Trieste 1859, pp. 43, 107-109, 117-119; Calendar of State papers relating to English affairs ... in Venice, XXXV-XXXVI, a cura di A. B. Hinds, London 1935-37, relativamente a Marcantonio, rispettivamente alle pp. 225, 324, 331 e 1; A. Bocca, Annali adriesi, a c. di A. Lodo Rovigo 1985, pp. 155, 257; A. Arrighi, De vita ... F. Mauroceni, Patavii 1749, pp. 63-64 (per Marcantonio); E. A. Cicogna, Delle inscriz. ven., IV, Venezia 1834, p. 633; A. Medin, Venezia nella poesia, Milano 1904, p. 358; L. Dolfin, Una famiglia... i Doffin..., Genova 1904, pp. 38-39; P. Andreis, Storia ... di Traù..., Spljet 1908, p. 255; G. Ferrari, Le battaglie dei Dardanelli, in Mem. stor. militari, IX (1913), p. 154 (per Marcantonio); P. Molmenti, Curiosità di storia veneziana, Bologna 1919, pp. 379, 396, 402-403, 449; B. G. Dolfin, IDolfin..., Milano 1924, pp. 37, 156-170 passim, 307, 330, 372; H. Kretschinayr, Geschichte von Venedig..., III, Stuttgart 1934, p. 323; C. Argegni, Condottieri, I, Milano 1936, p. 304; F. Sassi, Le campagne di Dalmazia, in Arch. ven., s. 5, XX (1937), pp. 226 (ma il D. non è procuratore di S. Marco), 229, 237; F. Antonibon, Le relaz. ... di amb. ven., Padova 1939, p. 83; V. Meneghin, S. Michele in Isola..., I, Venezia 1962, p. 340; F. Anselmo, G. Delfino, Messina 1962, pp. 9, 42, 57, 132; F. Zen Benetti, La libreria di G. F. d'Acquapendente, in Quaderni per la storia dell'Univ. di Padova, IX-X (1976-77), p. 164 n.; G. Trebbi, La Cancelleria veneta.... in Annali della Fondazione L. Einaudi, XIV (1980), pp. 108-109; Archivio... Querini Stampalia..., a c. di D. V. Carini Venturini-R. Zago, Venezia 1987, pp. 36, 211.