CONTARINI, Nicolò
Nacque a Venezia il 26 sett. 1553, dal ramo della grande casata patrizia che aveva sede a S. Maria Nova, in calle della Testa. La sua era famiglia di limitate risorse economiche. Suo padre, Zan Gabriel di Nicolò, morto ancor giovane nel 1572, non aveva avuto nella sua carriera cariche di particolare rilievo. Sua madre, Giovanna, era una Morosini, del ramo di S. Boldo, figlia di Andrea. Il C. compì i primi studi probabilmente assieme a Paolo Sarpi e al cugino Andrea Morosini, ossia con due dei futuri protagonisti della vita politica, religiosa e culturale di Venezia; passò successivamente allo Studio di Padova, la città che egli era solito definire ampollosamente e affettuosamente la seconda Atene. Vi rimarrà a lungo, approfittando del fatto che il suo debutto nella pubblica amministrazione veneziana lo farà, appena ventenne, quale camerlengo di quel reggimento. A Padova farà anche il suo debutto ufficiale nel mondo culturale, diventando, nel 1573. membro dell'allora istituita Accademia degli Animosi.
I suoi primi passi padovani, racconterà lo stesso C., erano stati presso maestri "peripatetici", "quod de eorum doctrina" spiegava "apud omnes maxima esset opinio". Li aveva lasciati quando si era accorto che essi dissentivano "tum ab Aristotele, tum ab ipsa veritate", e si era avvicinato a docenti che seguivano la dottrina di Platone. Finalmente aveva conosciuto Giulio Carrarese, che sarà il suo vero maestro, in quanto l'aveva tratto a studiare anche le "divinae litterae" e la "caelestis doctrina".
Nel 1576 era in grado di pubblicare a Venezia il frutto di questi suoi studi giovanili, il libretto De perfectione rerum, ristampato a Lione nel 1587.
Recava la dedica a Leonardo Donà, un patrizio che egli assumeva a suo ideale di vita e che gli aveva fatto comprendere con il suo esempio come dei buoni studi costituissero una premessa utilissima per chi volesse poi dedicarsi alla vita pubblica. "Trattatello di filosofia generale", "molto scolastico", che non rivela nel suo autore la tempra del filosofo, ha scritto del De Perfectione rerum A. Tenenti. Né era peculiare il suo platonismo, dato che opere analoghe di patrizi veneziani ebbero in quegli anni lo stesso orientamento (è da ricordare, tra l'altro, che propugnavano il piatonismo cerchie filosofiche veneziane e padovane facenti capo alla Compagnia di Gesù). C'è qualcosa, però, che a detta del Tenenti distingue l'operetta contariniana: le sue pagine "più umane, le più suggestive sono proprio quelle in cui la filosofia propriamente detta cede il passo al sentimento religioso ed alla sensibilità morale" pagine che "costituiscono una delle più preziose, anche se sommarie, testimonianze del sentimento dei divino nel secolo XVI".
Verso questa operetta il C. ostenterà più tardi un disincantato distacco, facendo dire dall'amico Paolo Sarpi al giurista francese Jacques Leschassier, che si informava dei De perfectione, cheegli aveva presto dimesso gli interessi giovanili per dedicarsi ad altri, "altioribus et utilioribus studiis": intendeva, crediamo, la vita politica, gli impegni di una carriera iniziata subito nel modo più intenso, in un periodo irto di crescenti difficoltà e di profonda trasformazione per la Repubblica di Venezia.
Apparentemente, col suo rigoglio economico e commerciale, col persistere dei suo splendore artistico e culturale, con la scelta definitiva di una politica di neutralità, Venezia sembrava rimarginare nello scorcio del Cinquecento le ferite provocate dalla guerra di Cipro, la perdita dell'isola e il pesantissimo onere finanziario che aveva dovuto sostenere. In realtà, a parte il fatto che la neutralità non significava sicurezza, né in Italia né Oltremare, e che per cercare di garantirla era necessario uno stillicidio di spese militari, la guerra di Cipro aveva comportato per la Repubblica un prezzo politico che sì dimostrava irrecuperabile: per reggere allo sforzo militare essa era stata costretta a cedimenti compromissori nei confronti degli elementi più inquieti e protervi sia del proprio patriziato, sia della sempre più riottosa nobiltà della Terraferma, cittadina e feudale, nel settore della giustizia penale, il più delicato, il più suscettibile di coinvolgere nella sua crisi la stessa autorità dello Stato. A questo si accompagnava la crisi dell'aristocrazia veneziana. Da un lato essa sembrava non comprendere più il senso della propria funzione, o del servizio che era tenuta a rendere allo Stato (ne erano conseguenza lo scadimento dell'attività amministrativa e il logoramento del complesso congegno costituzionale); dall'altro, essa stava rinunziando a svolgere direttamente quell'attività mercantile che era stata sempre il supporto, o ancor più l'integrazione, della sua attività politica. C'era chi reagiva all'infiacchimento morale e del costume, all'atteggiamento rinunziatario della Repubblica nella politica estera, all'accondiscendenza che i responsabili di essa rivelavano verso la Sede apostolica e la Spagna, ritenute le maggiori beneficiarie del nuovo corso della politica veneziana, ed erano soprattutto, per usare una definizione di comodo e spesso indebitamente forzata, i "giovani", o cosiddetti tali, almeno polemicamente, in quanto gioventù era sinonimo di azione irriflessiva e spericolata. In "taluno di questi e giovani", era possibile cogliere l'affiorare della esigenza di una spiritualità raccolta e interiore che, con quella di un profondo rinnovamento della Chiesa, costituisce uno dei motivi più interessanti della vita religiosa veneziana nel Cinquecento: e tale era il caso dei C., così come del capo ideale di quella parte, Leonardo Donà. Sul piano della politica interna, i "giovani" attingevano allo spirito repubblicano la loro protesta contro i maggiorenti della Repubblica, o "vecchi", se ci si vuol valere ancora della formula ormai tradizionale, ai quali si imputava di volersi arroccare, in virtù della potenza loro e delle loro famiglie, nei massimi organi dello Stato, a cominciare dal Consiglio dei dieci e dalla sua zonta, considerati ormai da tempo come gli strumenti fondamentali di chi puntasse a realizzare un'oligarchia. Uno dei momenti più importanti nella politica veneziana sul finire del Cinquecento sarà appunto la correzione del Consiglio dei dieci del 1582-83 la quale, oltre ad abolire la zonta, restituirà lo stesso Consiglio al suo ruolo primigenio di organo supremo della giustizia penale, togliendogli quei poteri che gli avevano permesso di dominare sin dalla fine del Quattrocento ogni branca della politica veneziana. Difficile stabilire in che misura siano stati proprio dei "giovani" a causare questa importantissima svolta nel corso di essa; addirittura impossibile è il dire se il C., allora ai suoi debutti, abbia militato in favore o contro la correzione. Certo egli, così attento ai problemi dello Stato e della sua autorità, avrà largamente modo di riflettere, nel corso della sua carriera, sulle conseguenze di questo fatto, che, ridimensionando il Consiglio dei dieci, non riuscirà per contro a far sì che altri organi, a cominciare dal Senato che ne era il tradizionale antagonista, potesse sostituirglisi nell'efficacia dell'azione politica.
La prima, grande palestra sarà costituita per il C. dalla sua elezione all'Avogaria di Comun, magistratura giudiziaria con competenza su tutto il dominio, ma soprattutto organo cui era affidata la salvaguardia della legalità repubblicana. Era stato in precedenza savio agli Ordini, poi officiale alle Rason Nove, poi uno dei Dieci savi alle decime di Rialto. La prima elezione ad avogadore di Comun gli era giunta nel maggio del 1591; la seconda alla fine di febbraio del 1595. Nell'intervallo tra l'una e raltra era cominciata la sua destinazione a un settore che diventerà un po' la sua specialità, quello delle acque, e su cui si soffermerà ampiamente nelle sue Historie. Nel novembre del 1593 era eletto tra i Dieci savi sopra le acque del Chiampo; nel 1598, fu chiamato tra i sei nobili aggiunti ai Savi ed esecutori alle acque; nel marzo del 1599 era tra coloro cui toccava affrontare la questione del corso del Po, controversa fra la Repubblica e lo Stato pontificio. Nel 1600, dopo esser tornato ad interessarsi del Chiampo, riceveva il compito onerosissimo di sovraintendere al riattamento dei lidi, dopo che una furiosa mareggiata aveva sconvolto la laguna veneta. Nel 1596, aveva assunto la luogotenenza della Patria del Friuli: in Friuli tornerà anche qualche anno dopo, come provveditore alla Sanità, col compito di . pedire che la peste, manifestatasi in Carinzia, si infiltrasse nello Stato veneto. Tra i due soggiorni in Friuli la sua carriera aveva fatto un grande progresso, in virtù della elezione a membro del Consiglio dei dieci, avvenuta nel 1599. Gli era stato assegnato un incarico delicato, far parte di una commissione che avrebbe dovuto riordinare la legislazione dello stesso Consiglio, dato che, nella sua farraginosità, essa rendeva difficile precisarne le competenze e la prassi e alirnentava perciò i sospetti che molti continuavano a nutrire nei suoi confronti. Quasi contemporaneamente, tra 1599 e 1600, lo si chiamava ad altre tre commissioni, sulle "biave", sul sale, sul debito pubblico. Il C. era ormai maturato per l'ingresso nel Collegio, l'organo cui toccava di definire tutta la politica della Repubblica: vi entrò nel 1601, e nell'ufficio più alto, quello di savio del Consiglio. Gli mancava, per completare la sua esperienza, il cimentarsi nella politica estera: lo farà nel 1605, quando sarà mandato a Rovereto a trattare con i rappresentanti degli arciduchi d'Austria una controversia tra gli abitanti di Laste Basse, sudditi veneti, e quelli di Folgaria, sudditi arciducali, circa diritti di pascolo e di taglio di legna.
L'interesse preminente del C. era sempre volto al problema della sovranità dello Stato, insidiata non solo dalla debolezza dell'apparato governativo, e dalla riottosità che si manifestava qua e là nel dominio o in seno alla stessa classe dirigente, ma dalle pretese della Sede apostolica, nonché dalla difficoltà che si aveva ad applicare la legge a personaggi e istituti ecclesiastici i quali godevano l'appoggio di buona parte dei patriziato più ricco e potente.
Nel 1602 il C. era stato eletto soprintendente alle decime del clero assieme all'amico Antonio Querini, certo perché si sapeva con quale vigore essi avrebbero esercitato un compito così spinoso.
Nelle sue Histirievenetiane, il C. ricorderà lo sdegno allora provato nel constatare che l'aggravio fiscale cadeva sulle spalle dì poveri preti, mentre ne erano esenti i ricchi e massime i cardinali, possessori di enormi ricchezze. Nell'aprile del 1606, spiegando al preposito generale della Compagnia di Gesù come e perché era stato possibile che la Repubblica ingaggiasse contro la Sede apostolica la contesa dell'interdetto, il padre Antonio Possevino, che risiedeva a Venezia da qualche anno segnalava quali responsabili assieme a Leonardo Donà, assurto al dogado, il C. e Antonio Querini, che definiva senz'altro "emissari" del primo: quale documento del clima religioso ormai creatosi sulle lagune, il Possevino indicava un libro a stampa sulla "riforma del Senato", di cui sarebbe stato autore lo stesso Leonardo Doná e nel quale, soggiungeva con scandalo, egli non aveva trovato "mentione mai di Dio, né della Chiesa". È da chiedersi se questo libro, che sarebbe utilissimo ritrovare, sia per l'importanza dell'argomento, sia pcr la comunanza di idee esistente tra il C. e il Donà, non fosse legato alla questione della riforma del Senato, sollevata nel giugno del 1601 allorché taluni tra i patrizi più influenti della Repubblica avevano proposto di dare a quel Consiglio una connotazione politica più precisa, restringendone almeno in parte l'accesso a patrizi selezionati per il curriculum di magistrature già coperte.
Quando, tra il finire del 1605 e la primavera del 1606, la Sede apostolica aveva ingiunto alla Repubblica di revocare delle leggi e dei provvedimenti giudiziari da essa emanati perché lesivi della libertà ecclesiastica, minacciando, in caso contrario, di fulminare la scomunica contro il Senato e l'interdetto contro il territorio dello Stato veneto, la funzione dei patrizi del gruppo del C. non era stata solo quella di propugnare la resistenza ad oltranza, ma soprattutto di elevare questa vicenda, che di per sé poteva ridursi a una qualsiasi questione giurisdizionale, al rango di una contesa spirituale di risonanza europea, in cui erano in gioco tutta una concezione della Chiesa, dei contenuti e dei limiti del suo magistero, dei rapporti tra temporale e spirituale.
Erano stati patrizi come il C. che avevano fatto affidare il compito dì patrocinare sul piano teologico le ragioni della Repubblica a un religioso ormai inviso alla Sede apostolica come Paolo Sarpi, e a garantirgli il loro appoggio, quando nei suoi scritti affermerà la nullità della scomunica e dell'interdetto pontifici, nonché la superiorità del concilio sul papa, sostenendo perfino che l'ottemperare alle ingiunzioni del papa sarebbe stato peccare gravemente contro Dio e mettersi contro l'antica e vera dottrina cristiana, cosa ben più importante dell'autorità pontificia. "Senatore che sin dal principio di questa difficultà era stato di più acerrimi fautori e che con maggior calore aveva sostentato le opinioni rigide", si scriverà del Contarini.
Era stato infatti eletto savio del Consiglio - carica di durata semestrale - il 24 sett. 1605, il 31 marzo 1606, il 31 marzo 1607. Le trattative di accordo, condotte nella primavera del 1607 con la mediazione del re di Francia, vedevano così il C. sempre in primo piano; in tale occasione egli con altri due amici, Sebastiano Venier e Agostin da Mula, aveva proposto che per la revoca del "protesto", emanato un anno prima dalla Repubblica contro la Sede apostolica, s'adotcasse una formula di dichiarazione nella quale era accuratamente messo in chiaro che la Repubblica trattava su un piano di assoluta parità, senza alcuna soggezione, e men che meno resipiscenza, nei confronti della sua antagonista.
La questione dell'interdetto aveva rappresentato per la Repubblica, e in particolare per coloro che ne avevano guidato l'azione, una grande vittoria morale. Non si poteva dire che, almeno alla lunga, fosse stato un successo politico. La controversia aveva prodotto una frattura non facilmente colmabile nell'ambito della classe dirigente veneziana. Una frattura altrettanto e ancor più forte si era creata tra la città dominante e la Terraferma, che si era vista imporre di autorità una polifica proprio nel campo in cui è più difficile sopportarlo e capirlo, quello spirituale: chi, come molta nobiltà della Terraferma, mordeva il freno contro il dominio veneziano, aveva ora un'occasione per aizzare i sudditi a contestarne l'autorità. I compiti che si presenteranno ai governanti veneziani nel periodo successivo alla conclusione dell'interdetto saranno dunque dei più ardui. Bisognava cioè, secondo il C. e gli uomini che ne condividevano gli orientamenti, riuscire a conservare in seno ai consessi direttivi della Repubblica un rapporto di forze che consentisse dì impedire ai loro antagonisti di mutare il corso della politica, reinstaurando atteggiamenti di compromesso o peggio dì sottomissione nei riguardi della Sede apostofica, dì intesa con la Spagna e gli Asburgo d'Austria e dell'Impero, anziché cercare un avvicinamento con i principi o Stati che, come il duca di Savoia e il re di Francia tra i cattolici, il re d'Inghilterra e le Province Unite tra i protestanti, potevano esser d'aiuto nello sforzo di tutelare la propria indipendenza verso i primi due, miranti entrambi ad imporre sull'Italia il loro assoluto predominio.
Il C. restò sempre sulla breccia. Tra il 1607 e 1609 si parlò addirittura di lui, che era scapolo e di vita e costumi integerrimi, come il futuro patriarca di Venezia, da eleggere in luogo dell'attuale. Prospettiva che spaventava moltissimo le autorità ecclesiastiche, per le quali essa poteva significare una Chiesa veneziana con pretese di autonomia. Non se ne fece nulla: lo stesso C. si schermirà nelle sue Historie di aver mai nutrito ambizioni di cariche ecclesiastiche. I suoi avversari riuscirono tra 1608 e 1610 a tenerlo fuori dai Collegio. Quando egli vi rientrò 1 si fece paladino, di un'iniziativa destinata a metter scompiglio fra i benpensanti quasi quanto la prospettiva di una sua elezione al patriarcato, quella di accogliere a Venezia, riconoscendo loro pieni diritti per svolgervi attività commerciale, forestieri anche di religione riformata (si sarebbe trattato, in particolare, di inglesi ed olandesi). Non ebbe successo: come non avrà successo l'altra iniziativa, che prenderà qualche anno dopo come riformatore allo Studio di Padova (tra 1614 e 1616), di istituire un tipo di laurea che consentisse agli studenti acattolici e acristiani di addottorarsi senza dover fare la professiofidei imposta dalla Sede apostolica.
Non erano manifestazioni di eterodossia: il C., crediamo lo si possa dire con sicurezza, se auspicherà un rinnovamento della Chiesa, in capite et in membris, come queì riformatori cattolici dì cui era un epigono, si guarderà dall'auspicare l'introduzione della Riforma protestante nello Stato veneziano. Era piuttosto, oltre che un sentimento di giustizia, come in quest'ultimo caso, il frutto di una valutazione senza pregiudizi dell'interesse collettivo, economico e culturale, espressione di simpatia per certe nazioni straniere, per il vigore che rivelavano, per la fermezza e la solidità dei loro caratteri, che in taluni casi traevano beneficio da un particolare sentire religioso o, meglio, dallo sprone che da esso veniva al comportamento politico e religioso e militare. Era. d'altro canto, sfiducia nella nazione italiana, fiacca, rilassata, priva di ardore.
Così, in un campo cui il C. guardava con particolare interesse, quello militare, egli preferiva di gran lunga come soldati uomini d'Oltralpe, in particolare gli olandesi, e d'Oltremare, come albanesi e dalmati. Ne sarà prova anzitutto la guerra che la Repubblica di Venezia combatterà contro gli arciduchi d'Austria, onde portar a soluzione il problema della pirateria uscocca, fomentata, a detta dei Veneziani, dagli stessi arciduchi, nonché dall'Impero e dalla Spagna, per logorare la navigazione e il potere veneto in Adriatico. Guerra che, iniziata nell'autunno del 1615 e conclusa nel settembre del 1617, era considerata un po' come la guerra personale del Contarini. Voluta con particolar fervore da lui, nel quadro della politica estera antispagnola e antipontificia promossa dal C. e dai suoi amici, per contrapporre alle tergiversazioni diplomatiche, dispendiose e defatiganti, la risolutezza di un'azione militare, più efficace sul piano politico, più stimolante su quello morale. Combattuta anche da lui, perché, all'inizio del 1617, egli veniva inviato al fronte come provveditore in campo, nella speranza che col suo esempio e il suo ardore riuscisse a portare a compimento, con quella vittoria che si era inutilmente inseguita per mesi e mesi. le operazioni militari.
Era stata, in realtà, una delle delusioni più cocenti: la controprova di quella profonda crisi che la Repubblica attraversava. Uno spettacolo di corruttela, di indifferenza, di codardia, particolarmente sconcertante nei patrizi veneziani, cui toccavano compiti logistici o politico-militari: se qualche spiraglio di luce c'era stato, il merito spettava a qualche reparto di soldati d'Oltralpe. Fortunatamente, e ironicamente, le cose erano andate meglio sul piano diplomatico, dopo la cessazione delle ostilità, nel convegno svoltosi a Fiume e a Veglia all'inizio d'estate del 1618: vi partecipò anche il C., eletto in un secondo momento in sostituzione di uno dei due commissari veneziani, che nel frattempo era stato elevato al dogado.
Non sarà, questa della guerra contro gli arciducali, l'unica esperienza militare del C.: né l'amarezza avuta allora sarà l'unica riserbatagli da questo settore. Nel 1621 - era ormai iniziata la guerra che sarà poi detta dei Trent'anni - egli veniva eletto provveditore oltre il Mincio, col compito di sorvegliare la frontiera con lo Stato di Milano, una frontiera "calda", per la minaccia che gli Spagnoli continuavano a tenervi viva e per il frequente ricorrere di incidenti.
In uno di questi, la pretesa di un reparto spagnolo di passare per un tratto di strada che i Veneziani ritenevano compreso nel proprio territorio e gli Spagnoli di comune diritto, il C. si era trovato a sostenere un comandante militare veneziano che, nei confronti di questi ultimi, aveva osato assumere un atteggiamento di spavalda fermezza. Aveva avuto contro non solo il suo collega provveditore generale di Terraferma, Andrea Paruta, ma anche Paolo Sarpi, l'amico di tutta una vita, zeppur con intenti del tutto diversi, entrambi avevano sostenuto esser inutilmente rischioso, in quel momento, far degenerare a casus belli un episodio modesto come quello. Il C. si era difeso con vigore, ma aveva chiesto di essere rimpatriato, adducendo la necessità di star vicino alla famiglia, la cui precaria situazione economica era peggiorata dopo la scomparsa del fratello Agostino che ne aveva preso cura. La spiegazione dei rifiuto oppostogli costituiva comunque per lui un motivo di soddisfazione. Era troppo necessario che stesse a quella frontiera, essendo, si diceva, in una lettera dell'11 nov. 1621, "esperimentato nel valore e nel zelo, ardentissimo della dignità e della difesa delle cose nostre". Inoltre, riconoscendo che le sue private fortune non andavano "del paro con la pienezza del suo affetto, prontissimo ad esporsi sempre ad ogni fatica, disagi e pericolo per publico servizio", si decideva di accordargli un appannaggio speciale.
Il C. rientrò a Venezia un mese dopo, nella seconda metà di dicembre, e poté trascorrere da quel momento sino alla primavera del 1623 un periodo di requie: un periodo che assorbirà nella preparazione delle sue Historie venetiane, poiché nel 1620 era stato eletto alla carica di "pubblico storiografo".
Nel riesaminare e risistemare i documenti (tra i suoi compiti, c'era anche quello di metter ordine nella Cancelleria segreta), nel ripercorrerli, nel cogliervi spiegazioni e illuminazioni per la interpretazione del presente, egli poteva esprimere e alimentare l'amore per la sua patria, il rimpianto per il passato, le aspirazioni e le delusioni per il presente. Tutta una inesausta passione "civile", dunque, che sul piano dell'azione Politica aveva dato il meglio di sé nella difesa dell'autorità dello Stato, della sua indipendenza e della sua sicurezza, nonché, soprattutto, dei suoi ordinamenti giudiziari, nel cui funzionamento il C. riconosceva il banco di prova della capacità dì governo della classe dirigente veneziana.
Il C. vi ci si era sperimentato direttamente, quando, come tra il 1608 e il 1612, era stato nel Consiglio dei dieci e tra gli inquisitori di Stato (aveva contribuito alla condanna a morte di un abate omicida e alla condanna ancor più dura di un patrizio veneziano accusato di intelligenza con principi stranieri). Nel febbraio del 1609 aveva lanciato, insieme con i due colleghi capi dei Consiglio dei dieci, un vibrante grido d'allarme sul progressivo, e drammatico degradare dell'ordine pubblico nella Terraferma.
Qui non si potevano più contare "omicidii, rapine, rapti, violenze, sforzi, incendii et assassinamenti", così che né mercanti né viandanti potevano più transitare liberamente per le pubbliche strade, né esser sicuri dei loro beni. Responsabili, dicevano senza ambagi i tre capi dei Consiglio, erano sì "persone di mal fare", ma che "sono spalleggiate, protette e tenute in casa da soggetti di qualità grandi e potenti, per fazzione, seguito e per ogni altro requisito". Particolarmente importante, dal punto di vista politico e costituzionale, era la loro affermazione che non bastava, per risolvere il problema, l'azione repressiva giudiziaria condotta direttamente o indirettamente dal Consiglio dei dieci, ma che si richiedeva un'azione politica di fondo, la quale non poteva esser svolta che dal Senato, "che governa la Repubblica", si sottolineava: il Senato, cioè, doveva provvedere quello "che conoscerà conveniente e sommamente necessario per sicurezza e mantenimento de' sudditi suoi, per interesse della giustizia e per dignità della grandezza e reputazione della Repubblica nostra".
Doveva esser convincimento del C. che per il buon andamento della giustizia, così come, del resto, di tutta l'ammiriistrazione pubblica e della vita sociale, la legislazione dovesse essere chiara, ordinata e facilmente reperibile e maneggevole. Si era già interessato del problema durante la sua prima esperienza come consigliere dei Dieci. Nel 1609 riceveva con un altro patrizio, Cristoforo Zane, l'incarico di trattare con il giurista Giovanni Finetti, "per vedere il modo che doverà esser tenuto per dar ordine a tutte le leggi".
Dopo il colloquio col Finetti, essi proponevano di accettarne il programma di sistemazione della legislazione veneziana, perché, spiegavano, ora le leggi "sono disperse in molti volumi con molta confusione et oscurità, sì che spesso causavano varietà del giudizii et incertezze di tutte le cose, dipendendo frequentemente dalla fortuna o dall'arbitrio d'uno solo che si manifesti overo s'occulti una legge che dà fondamento ad una decisione contraria alla precedente".
Anche questa volta, come in passato e in futuro, una riforma generale ed effettiva della legislazione veneziana cadrà nel nulla, in quanto l'attuarla presupponeva un mutamento profondo della stessa concezione del diritto da parte della classe dirigente veneziana, mutamento che era un fatto politico, non di mera tecnica legislativa. Più efficaci potevano essere le "correzioni" parziali, di questo o quell'istituto, fatte o mediante la "correzione della promissione ducale", ossia alla morte di un doge e in attesa di eleggerne un altro, o mediante apposite "correzioni" compiute da cinque patrizi eletti all'uopo col nome di "correttori". Il C. parteciperà alla "correzione della promissione ducale" del 1612 e del 1615, nel corso delle quali non solo si proporranno specifiche riforme di leggi, ma anche di far sì che i vari magistrati e il doge stesso ritrovassero, nel recupero di certe tradizionali dignità formali, un incentivo pr sentire più altamente il loro ruolo. Il C. entrerà poi nelle "correzioni" che si faranno tra 1618-1620 e tra 1623-24, entrambe importantissime, ma particolarmente la seconda, che giungeva in un periodo di minacce belliche e quando da ogni angolo dello Stato veneto arrivavano notizie disperate sulla situazione dell'ordine pubblico, nonché sulla carenza pressoché assoluta dei pubblici poteri nel tentativo di porvi rimedio.
Vi si tratterà ampiamente di "correggere" l'Avogaria di Comun, accusata di essere, a causa del modo con cui era gestito il suo compito istituzionale, quello di tutelare il rispetto dei diritti dei sudditi e delle leggi, la vittima, se non addirittura lo strumento, delle gherminelle dei malfattori.
Si stava già profilando, poi, in seno stesso al patriziato veneziano, una sorta di sommossa, di poveri contro ricchi, di esclusi dal potere contro coloro che sembravano detenerne l'esclusiva, una sommossa che avrà a suscitatore un patrizio che era stato vicino al C. e ai suoi amici, Renier Zeno, e che dopo essersi trascinata per qualche anno si concluderà nel 1628 con la "correzione", perorata dallo Zeno, del Consiglio dei dieci. Anche il C. sarà tra i protagonisti di questa vicenda, l'ultima della sua carriera di magistrato.
Renier Zeno voleva che si compisse l'opera della precedente correzione del 1582 mettendo in discussione anch e il potere che il Consiglio esercitava nel campo giudiziario penale, sia in virtù dell'uso di una procedura sommaria e segreta che era sua prerogativa, ma di cui poteva conceder ad altri magistrati l'autorizzazione a valersi, sia per il fatto che ad esso facevan capo, e ne dipendevanos talune magistrature satelliti, aventi competenza su vasti settori della vita sociale: i patrizi veneziani potevan esser giudicati solo dal Consiglio e da queste magistrature. In particolare, si diceva che, essendo il Consiglio in mano alla gente più ricca, la sua era, per così dire, una giustizia di parte, e la sua procedura, uno strumento di oppressione che doveva esser eliminato. Si aggiungeva, poi, che la forza maggiore del Consiglio stava nella collusione esistente tra i suoi membri e la grande burocrazia della Repubblica, vera depositaria dei segreti dello Stato e della sua legislazione, e beneficiaria, pertanto, della confusione legislativa.
Il C. era stato eletto a correttore col più alto numero di voti, in quanto riscuoteva la fiducia anche, o particolarmente, del patriziato minore, memore di atteggiamenti che aveva preso contro fl Consiglio (anche di recente, quando questo aveva condannato a morte ingiustamente un patrizio amicissimo dello stesso C., Antonio Foscarini) e della protesta levata contro la farragine legislativa e contro chi Poteva servirsene. In realtà, nel momento in cui aveva l'impressione che tutto lo Stato veneziano si stesse sfaldando, quando la guerra si faceva sentire alle porte sempre più pressante, l'esigenza maggiore era, per il C., quella di salvaguardare quanto ancora restava di autorità dello Stato. Farà discorsi aspri, polemici; si alienerà molte delle simpatie che gli avevano procacciato l'elezione a correttore; contribuirà comunque, anche se meno brillantemente ed efficacemente di altri più dotati di lui negli accorgimenti dialettici e nelle tattiche politiche, a contenere al minimo le lesioni recate dalla "correzione" al Consiglio dei dieci. Verrà infine, il 2 genn. 1630, la sua elezione al dogado.
Un'elezione di compromesso, in fondo, dovuta alla difficoltà di mettersi d'accordo sui candidati più attesi; un'elezione, probabilmente, inaspettata da lui, oltre che dagli altri; un ruolo determinante sembra che avesse avuto proprio Renier Zeno, lo sconfitto della "correzione" del 1628. Il nunzio apostolico a Venezia, che era rimasto turbato dal successo di colui che era sempre considerato il capo morale degli antipapalini veneziani, l'avversario irriducibile del ritorno a Venezia dei gesuiti che ne erano stati cacciati nel 1606, traeva conforto solo all'idea che il C. era ormai vecchio dì settantasette anni. Eran rimasti sconcertati anche coloro che ricordando il bellicismo del C., temevano che egli approfittasse della congiuntura internazionale e della sua carica per buttar Venezia a capofitto nella guerra. Se ne erano rallegrati per contro i militari, e massime gli stranieri. Una prova eloquente dell'ostilità di cui il C. era oggetto da parte dei maggiorenti della politica veneziana, era offerta all'indomani dell'elezione dogale. Il C. avrebbe gradito che l'avvenimento fosse festeggiato con il suo divertimento preferito, il "corso alla quintana" e aveva ordinato che ne fossero fatti i preparativi in piazza S. Marco. All'ultimo momento del 6 febbraio, i capi del Consiglio dei dieci gli avevano comunicato che in base a una legge del 1473, nonché a una del 1442, simili giochi dovevano essere autorizzati dal loro Consiglio. Il C., pur non condividendo l'interpretazione di quelle leggi, aveva preferito rinunziare senz'altro, onde evitare che lo smacco di un pubblico diniego fosse dato proprio a lui, che aveva fatto del rispetto della legge l'insegna della sua vita.
Dogado breve, dogado tragico, quello del Contarini. La Repubblica entrerà nella guerra ma quel tanto che basterà per vedere il suo esercito messo in fuga, con certi patrizi suoi capi alla testa: il C. si farà sentire, per reclamare una giustizia esemplare. La peste, ad ogni modo, costituirà lo sfondo più tremendo; una peste tra le più gravi che avessero mai colpito Venezia e tutto il suo Stato. rl C. mori a Venezia il 1° apr. 1631, quando ancora la pestilenza non era estinta.
Ebbe, negli ultimi momenti della sua vita, una reazione risentita contro un confessore che pretendeva da lui una ritrattazione di quanto aveva operato in vita nei confronti della Chiesa romana. Era sempre stato "uomo dabene", gli avrebbe risposto: l'avevan sempre sorretto, ricordava nel suo testamento, volgendosi ai nipoti, "il timor di Dio, ch'è 'l fondamento di ogni bene", e "l'amor della Patria, a cui tanto siamo tenuti". Nello stesso testamento, aveva anche ricordato che un altro dei punti fermi della sua vita era stato l'amore per i libri, "da quali" diceva proprio sul finire, con una grafia Ormai tremula "conoscemo doppo Dio ogni nostro bene et ogni tranquillità d'animo". Non sappiamo se gli credi, cui i libri erano destinati, li abbiano conservati, come il C. avrebbe voluto; né, a quel che ci risulta, sono noti libri recanti l'exlibris del C.; non possiamo dire, pertanto, di che biblioteca si trattasse, quali fossero gli interessi del C. lettore, quali opere e quali argomenti, in altre parole, avessero costituito, almeno presumibilmente, il suo conforto.
Nel testamento, il C. non faceva menzione agli credi del manoscritto delle Historie venetiane che egli lasciava loro. Un manoscritto incompiuto (si interrompeva al 1604), ed evidentemente non ripreso in mano dall'autore per una revisione finale. Opera farraginosa, se si vuole, con lungaggini e ripetizioni, con una certa rigidità nei passaggi, dovuta alla sistemazione annalistica del materiale: malgrado tali limiti, rimane un'opera di poderoso respiro storiografico, scritta con una prosa che sa trovare, accanto a narrazioni di plasticità e ritmo guicciardiniani, scorci di personaggi e di situazioni tratteggiati con uno stile asciutto, di un'incisività efficacissima, a volte pungente fino alla corrosione.
La storia della Repubblica è collocata in un contesto vastissimo, che va dall'Irlanda alla Turchia, viene intesa e spiegata nella correlazione con le vicende di altri paesi; né l'avvenimento storico si esaurisce nei maggiori fatti politici e militari, ma questi vengono visti spesso col contrappunto di vicende particolari, minute, che danno loro l'effettiva misura o li condizionano - si pensi ad esempio agli episodi di pirateria -, o di disamine di strutture statali o economiche o religiose, che pur possono permettere di intendere più profondamente i grandi fatti: ricordiamo quanto è detto del rapporto politica-religione nell'Impero ottomano, o le pagine sulle lagune e sui fiumi veneti, o quelle dedicate a questioni monetarie, e così via. Solo nel 1638 i nipoti del C. si decidevano a consegnare il manoscritto delle Historie al Consiglio dei dieci per una loro eventuale pubblicazione. Interpellati privatamente, due consultori della Repubblica si erano detti perplessi sulla possibilità che fosse pubblicato. "L'Historia presente" essi scrivevano, "è fatta da auttore versatissimo et che è intervenuto ne' fatti che scrive... Quest'Historia si vede cavata dai puri fonti delli archivi della Screnissima Republica et perciò ha per compagna inseparabile la verità, che ivi sta come nella propria sede... Lo stile... è libero, anco dove si tratta di Prencipi grandi, lo stesso dove si tratta di religiosi et della Chiesa. Contiene massime molto intime del governo, che per verità non sapiamo se sia bene divolgarle". I Riformatori dello Studio di Padova confermeranno nel 1645 questo giudizio. Il Consiglio dei dieci deciderà allora di non pubblicare l'opera, ma di conservarne il manoscritto nella Cancelleria segreta.
Rimarrà, a ricordo del suo dogado, la chiesa della Salute, la cui costruzione era stata iniziata il 25 marzo 1631, pochi giorni prima della sua morte, per propiziare l'aiuto della Vergine contro la peste. Sembrava un'ironia della sorte che la mernoria del doge antipapalino, del "Contarinetto gran di pevere", come l'avevan soprannominato i suoi avversari ecclesiastici, fosse affidata a un'opera di pietà.
Delle opere del C. a stampa c'è solo il De perfectione rerum, Venetiis, Ioan. Baptista Somaschus, 1576 e Lugduni, apud Francisc. Fevracum, 1587. Quanto alle Historie venetiane rimaste finora inedite, eccezion fatta per taluni brani apparsi in appendice a G. Cozzi, Il doge N. C. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi dei Seicento, Venezia-Roma 1958, pp. 308 ss. Si è fatta ora, da T. Zanato, l'edizione critica di gran parte di esse, nel vol. Storici e politici ven. del Cinquecento e del Seicento, a cura di G. Benzoni e T. Zanato, della serie "La letteratura italiana - Storia e testi", Milano 1982, pp. 133-442.
Le Materie politiche 1602, diario in due tomi, conservato nella Biblioteca Correr, con la segnatura Cod. Cicogna 1993-1994, sono state attribuite al C. da G. Cozzi, Ildoge, cit., pp. 62 ss., confermando un'ipotesi affacciata da E. A. Cicogna (cfr. le sue annotazioni al cod. 1993). Una più approfondita valutazione induce ora a ritenere che, malgrado l'importanza degli elementi che avevano indotto a formulare tale opinione, essi non siano sufficienti per assegnare al C. la paternità delle Materie politiche. Unica sicurezza che si può avere è che questo diario sia opera di un patrizio del suo gruppo e che esso sia uno dei documenti più importanti, del travaglio di idee politiche e di sentimenti religiosi che pervadeva all'inizio del secolo la classe dirigente veneziana. E. A. Cicogna ha pubblicato, in calce alla densa nota biobliografica da lui dedicata al C., in Delle Inscrizioni Veneziane, III, Venezia 1830, pp. 287 ss., una lettera latina inviata dal C. al cugino Andrea Morosini.
Fonti e Bibl.: Ci limitiamo a segnalare quelle ms:: non utilizzate nel vol. Il doge. cit., e di cui ci i è valsi in questa sede: Archivio di Stato di Venezia, Consigliodei dieci, Comuni, filza 153, scrittura del C. in data 31 ag. 1583; rr. 41, 42, 46; Avogadori di Comun, Lettere, reg. 698/34, 709/45 e 710/46; Luogotenenza della Patria del Friuli, Ducali, bb. 290 e 291, e Investiture, bb. CLXXXVII e CLXXXVIII; Consigliodei dieci, Secreta, r. 15, 9 e 11 febbr. 1609; Senato, Terra, r. 91, 11 nov. 1621; sul C. come "pubblico istoriografo" e sovraintendente della Cancelleria segreta, cfr. Consiglio dei dieci, Comuni, r. 76, 22 apr., 27 maggio e 4 ott. 1626; filza 391, 28 apr. 1629; Consiglio dei dieci, Secreta, r. 17, del 14 dic. 1620. Per le "correzioni" alla promissione ducale e alle leggi cui aveva partecipato il C., cfr. Maggior Consiglio, regg. 34 e 35 (un'ediz. parziale delle "parti" deliberate nelle "correzioni" è inserita negli Statuti veneti, ad es. in Noviss. statutorum ac Venetarum Iegum vol. Venetiis 1729); e cfr. in Bibl. dei Civico Museo Correr, Fondo Donà dalle Rose, b. 151 n. 26 e b. 40, e Cod. Cicogna 2534, n. 31. La vicenda del mancato "corso alla quintana" del febbraio 1630 è esposta in una relazione ai capi del segretario dei Consiglio dei dieci. probabilmente uno degli ispiratori dell'atto ostile nei riguardi del nuovo doge: Archivio di Stato di Venezia, Consiglio dei dieci, Secreta, filza 38 alla data 6 febbr. 1529 m.v. La relazione di A. Possevino al preposito generale della Compagnia di Gesù, in Arch. romano della Compagnia di Gesù, Ven. 109, cc. 239 ss.: il passo sul libro "della riforma del senato" è a c. 239 v.; da tener presente che il Possevino dice essergli stato "riferito" che era stato "scritto e stanipato" dal Donà; quanto al C., egli è nominato solo come "uno di casa Contarini", ma non credo possa esserci dubbio che si tratti proprio di lui, dato che in questo periodo egli è sempre associato al Dorià e soprattutto ad Antonio Querini. Sul Possevino e Venezia, e sul suo fallito tentativo di pubblicare il libro contro Venezia di cui nella relazione dà il sunto, cfr. P. Pirri, L'Interdetto di Venezia del 1606e i gesuiti, Roma 1959, pp. 140-305. Nella stessa busta Ven. 109, c. 03, è conservato un elenco di "senatori che vanno di Pregadi", del 1620, con l'indicazione, accanto a ciascun nome, di un segno indicante se era a favore o meno della Compagnia di Gesù, ossia del suo ritorno nella Repubblica: il C. è uno dei pochissimi ad avere una doppia c ("cc"), cioè contrarissimo. Èsempre da vedere inoltre la cit. nota di E. A. Cicogna, in Delle Inscr. Venez., cit., anche per i rinvii che vi si trovano a poemetti o raccolte di poesie fatte in lode del C. in occasione dei suoi soggiorni in Friuli, nonché della sua elezione al dogado, e passi di vari autori sullo stesso C. utilizzati dal Cicogna. Dopo il più volte cit. vol. Ildoge N. C., G. Cozzi si è soffermato sul C. e i suoi amici particolarm. nei saggi raccolti nel volume Paola Sarpi tra Venezia e l'Europa, Torino 1978, nonché nel saggio Una vicenda della Venezia barocca: Marco Trevisan e la sua eroica amicizia, in Boll. d. Ist. di st. d. soc. e d. Stato veneziano, II (1960), pp. 83, 88, 97, 109 ss., 115 s., 118, 121, 125, 129, 145, 154. Si veda poi, a cura di G. e L. Cozzi, il vol. Paolo Sarpi, Opere, Milano-Napoli 1969. Sul De perfectione rerum, cfr. A. Tenenti, Il "De Perfectione rerum" di N. C., in Boll. d. Istit. di st. d. soc. e d. Stato veneziano, I (1959), pp. 155-66. Cfr inoltre: F. Seneca, Il dage Leonardo Dond. La sua vita e la sua preparazione polit. prima del dogado, Padova 1959, passim;W. J. Bouwsma, Venice and the defense of republican liberty. Renaissance values in the age of Counter Reformation, Berkeley-Los Angeles 1968, pp. 235, 253, 255 s., 259, 275, 359, 384, 411, 506, 509 s., 557, 561, 563, 568, 598; S. Secchi. Antonio Fascarini, un Patrizio veneziano del '600, Firenze 1969, passim;G: Benzoni, I "teologi" minori dell'Interdetto, in Archivio veneto, s. 5, XCI (1970), pp. 31-108; Id., Venezia nell'età della Controriforma, Milano 1973, ad Indicem;M. J. C. Lowry, The reform of the Council of X: an unsettled problem?, in Studi veneziani, XIII (1971), pp. 275-310; P. Burke, Venice and Amsterdam. A Study of Seveneteenth-Centurv élites. London 1974, passim;L. v. Ranke. Venezia nel Cinquecento, a cura di U. Tucci, Roma 1974, passim;accenni alle Historie venetiane sono in P. Preto, Venezia e i Turchi, Firenze 1975, pp. 313, 320-24; G. Santinello, Il "Depriscorum sapientum Placitis" di L. Pesaro, in Medioevo e Rinascimento veneto. Con altristudi in on. di L. Lazzarini, Padova 1979, pp. 182-86. Sulle Historie venetiane v. in particolare T. Zanato, per l'edizione critica delle "Istorie Veneziane" di N. C., in Studi veneziani, n. s., IV (1580), pp. 129-138, che fornisce, oltre a indicazioni preziose sui manoscritti, di esse, notizie nuove e precise sulle vicende della mancata pubbl. delle Historie. Cfr. poi il vol. Storicie Politici veneti del Cinquecento..., cit.. pp. 133-442, con ampia nota, storica e filologica, e note di commento, dei due curatori. G. Benzoni e T. Zanato.