GIANSIMONI, Nicola
Figlio di Domenico, nacque verosimilmente a Roma nel 1727 circa (Roma, Arch. stor. del Vicariato, Ss. XII Apostoli, Stati delle anime, 1761-1800; Ibid., Arch. dell'Accademia di S. Luca, v. 159, c. 150).
Secondo Milizia, ricevette la prima formazione di architetto da Nicola Salvi. Il suo nome compare, una delle prime volte, nel 1747, in occasione di alcune ricognizioni del Tribunale delle strade che egli condusse come architetto del collegio della Dottrina Cristina in S. Maria in Monticelli (Bonaccorso, 1991). Tra il 1748 e il 1750 è citato come architetto del Monte di pietà in altre due perizie del Tribunale. Probabilmente in questa carica successe a Salvi; questi, a causa della grave malattia che lo aveva colpito, negli ultimi anni della sua vita si era fatto sostituire sistematicamente dal suo giovane collaboratore. Il G. venne ufficialmente nominato architetto della Congregazione del Monte di pietà l'8 marzo 1751, circa un mese dopo la morte di Salvi avvenuta il 9 febbraio. Nel periodo compreso tra il 1750 e il 1753, il G. riedificò a Roma il palazzo del Montevecchio, originaria sede del Monte, modificando sostanzialmente la struttura del vecchio edificio (Pantanella, pp. 211-223).
Operando all'interno della tipologia del casamento ad appartamenti, il G. regolarizzò il perimetro dell'area edificabile compresa tra la via dei Coronari e il vicolo di Montevecchio e rese simmetrici i prospetti principali. Suddiviso in quattro piani più le botteghe a pian terreno, il palazzetto alterna a una zona basamentale in bugnato liscio - comprendente il mezzanino -una zona superiore caratterizzata da una superficie intonacata. In particolare sullo stretto fronte dei Coronari, il G. collocò centralmente il portale d'ingresso, a sua volta affiancato da botteghe laterali. La nuova facciata, organizzata così su tre assi verticali di bucature, è inquadrata da pilastri aggettanti rivestiti nella parte inferiore da bugne rustiche e in quella superiore da bugne lisce. L'aspetto finale rimanda a un gusto neocinquecentesco tra l'altro presente anche in alcune precedenti opere di Ferdinando Fuga.
Il G. successe a Salvi anche nella direzione della fabbrica del Monte di pietà nell'omonima piazza a Roma, dove terminò, pare su suo progetto, dal 1750 al 1752 la facciata principale inserendo il motivo del bugnato e intervenendo sull'orologio. Tuttavia, la prima commissione integralmente attribuibile al G. sembra essere l'ampliamento di palazzo Bolognetti limitrofo alla chiesa della Madonna di Loreto, realizzato tra il 1756 e il 1763 a Roma.
Con il nuovo edificio, che occupa l'area retrostante del palazzo già Bigazzini, il G. trasformò una serie di piccole abitazioni di proprietà del committente in un edificio ad appartamenti da cedere in affitto (Pancotto). In seguito, il palazzo passò ai Torlonia e fu demolito con l'ala seicentesca su piazza Venezia (opera di Carlo Fontana) per la costruzione dell'edificio delle Assicurazioni Generali (1902-06). L'intervento del G. ci è noto quindi solo parzialmente attraverso un'incisione, conservata nel fondo Uggeri presso la Calcografia nazionale di Roma, che ha per soggetto palazzo Imperiali, poi Valentini, della fine del Settecento. Costruita su incarico del conte Giacomo Bolognetti, la facciata sul vicolo dei Fornari presentava ancora un'alternanza tra un blocco bugnato liscio comprendente il piano terra e il mezzanino superiore da quello soprastante intonacato, a sua volta scandito da snelle lesene comprendenti le bucature dei tre piani superiori; la facciata si concludeva con un piano terminale posto sopra uno sporgente cornicione contenente alte finestre dotate di ringhiera.
Nel 1758 il G. successe a Gabriele Valvassori quale architetto della chiesa di S. Maria dell'Orto ed è menzionato nei documenti fino al 1798. Per la medesima committenza tra il 1761 e il 1765 operò un intervento conservativo nella facciata della chiesa arricchendola di un orologio sotto il timpano terminale. Negli stessi anni fu incaricato di erigere i catafalchi impiegati nelle feste delle Quarantore (Berna, pp. 358 s.).
La progettazione di apparati effimeri connotò buona parte della carriera del Giansimoni. La prima commissione importante in questo senso sembra essere stata l'erezione di una complessa macchina allegorica dinanzi al palazzo Ottoboni-Fiano realizzata a Roma nel 1759, in occasione del ritiro del cappello cardinalizio da parte del vescovo veneziano Antonio Marino Priuli (Moroni, LV, p. 255).
Ancora per il Monte di pietà tra il 1759 e il 1764 il G. eseguì modifiche nel seicentesco palazzo già dei Barberini ubicato fra la via dei Pettinari (poi Arco del Monte) e la via dei Giubbonari, dove progettò pure lo scalone e l'atrio d'ingresso.
Gli interventi erano tesi alla creazione di nuovi uffici, come il Banco dei depositi, gli archivi e la Depositeria generale della Camera apostolica, i quali venivano direttamente collegati al palazzo del Monte attraverso un cavalcavia. In particolare, il G. ristrutturò il prospetto sulla piazza ed eseguì l'ampliamento verso via dei Pettinari, dove venne collocato il nuovo atrio ovoidale contente la rampa (1759-62); l'architetto eliminò, tra l'altro, il precedente ingresso realizzato da Francesco Contini, creando una nuova apertura verso destra.
Nucleo dell'edificio, l'atrio contenente lo scalone sintetizza la funzione del vestibolo con quello del collegamento verticale. La sua struttura è formata da un ambiente centrale vuoto, circondato da un ambulacro anulare; i due spazi sono divisi da un giro di pilastri su cui grava una volta costituita da una crociera affiancata da due semicalotte decorate da membrature, che proseguono - rastremandosi in alto - le linee delle paraste. La parete che avvolge a tenaglia il nucleo centrale è quindi continuamente forata da aperture disposte lungo gli assi cartesiani e da passaggi strombati, che al pari delle soprastanti camere di luce intersecano l'ovale secondo direttrici diagonali. Le fonti di questa soluzione compositiva sono da ricercare in alcuni modelli iuvarriani, guariniani e vanvitelliani. L'interno dell'atrio è caratterizzato da un linguaggio decorativo semplificato, che affida alla purezza dell'intonaco e al raffinato disegno delle aperture le uniche connotazioni dell'organismo. Questo gusto minimalista nella realizzazione degli elementi architettonici ha portato ad accostare l'opera a quelle esperienze artistiche che trovano origine nell'ultima parentesi della tendenza arcadica (S. Benedetti, Guarini ed il barocco romano, in G. Guarini e l'internazionalità del barocco, Atti del Convegno… Torino… 1968, I, Torino 1970, pp. 725 s.). Abbiamo diversi elementi per collegare poi l'atrio del palazzo giansimoniano a modelli spaziali della tradizione barocca: il motivo della valva dalla quale penetra la luce nell'area centrale sembra riconnettersi alle aperture rimodellate da Clemente Orlandi nella chiesa romana di S. Maria degli Angeli, mentre l'idea della scala in curva sembra far riferimento al sacello dei Falconieri realizzato da Francesco Borromini in S. Giovanni dei Fiorentini. Come sottolineava Porro (p. 101), un ulteriore confronto può essere colto nell'opera di Domenico Gregorini e Pietro Passalacqua, i quali nella basilica di S. Croce rielaborano il tema dell'ovale in un atrio con ambulacro e pilastri.
Sempre a Roma nel 1765 circa, il G. elaborò una pianta della casa in via dell'Arco dei Banchi per i padri della Congregazione dell'Oratorio (Ferri). Dal 1766 è documentato come architetto del principe A. Ottoboni: come tale il 27 apr. 1789 redasse una minuziosa relazione tecnica sulla stabilità di alcuni ambienti del palazzo Ottoboni Fiano in via del Corso (Mancinelli, p. 323). Secondo Borghese (pp. 172, 178), nel 1766 su incarico dell'Arciconfraternita del Ss. Salvatore, il G. redasse una stima del valore di una casetta di proprietà dell'istituzione religiosa che la famiglia Serlupi Crescenzi voleva acquistare per ampliare il suo palazzo in via del Seminario. Quanto alle occasioni fuori città, nel 1763 è documentata la sua presenza a Firenze nell'inaugurazione della cappella Falconieri nella chiesa dell'Annunziata (Chracas, 19 sett. 1763). Secondo Angeloni (p. 193), inoltre, eseguì a Velletri, in un periodo non precisato, il ponte chiamato "rosso". Sempre a Velletri (paese di cui era originaria la famiglia), progettò la ricostruzione della casa della famiglia Filippi in piazza "da basso" (1766) e il tracciamento della "nuova via Romana" (1770). Negli stessi anni poi, il G. fu accolto dapprima nella Compagnia dei Virtuosi al Pantheon (1766) e successivamente venne giudicato dai minori conventuali dei Ss. Apostoli come uno dei più celebri architetti di Roma (1768), al pari di Carlo Marchionni e Paolo Posi (Bonaccorso, 1992).
Nel 1769, in occasione della nomina a cardinale dell'arcivescovo di Siviglia Francesco De Solis, il G. realizzò la facciata effimera eretta nel palazzo Piombino a piazza Colonna in Roma (Porro, p. 105).
Come testimonia l'incisione di G. Ottaviani, conservata nel fondo Lanciani della Biblioteca dell'Istituto di archeologia e storia dell'arte di Roma, è evidente la nitida interpretazione giansimoniana dei modelli del classicismo barocco (da G.L. Bernini a L. Levau, da C. Perrault a C. Lebrun), attentamente rielaborati per giungere a risultati compositivi di aulica ma composta eleganza. La facciata si può suddividere in tre parti: un corpo centrale aggettante, composto da un piano basamentale scandito da lesene binate addossate a pilastri e da un secondo ordine loggiato; due ali laterali arretrate di ridotta ampiezza contenenti una sola fila di bucature. Tutta la composizione, e in modo particolare l'attico, contenente statue e bassorilievi allegorici, mostra una notevole affinità con i precedenti progetti di Salvi per la fontana di Trevi, non mancano inoltre riferimenti a Giovanni Battista Piranesi per il ricco apparato decorativo.
Sempre nei medesimi anni (1768 circa) il G. si dedicò al rilievo dei principali monumenti dell'antichità, in questo coadiuvato da numerosi suoi aiuti (Loukomsky, p. 483). Nello stesso periodo rinunciò all'incarico di ricostruire la chiesa di S. Scolastica a Subiaco a favore del suo allievo G. Quarenghi, il quale stese un progetto, poi eseguito tra il 1770 e il 1774 (Porro).
Il G. doveva, quindi, aver già acquistato una certa notorietà quando nel 1770, per incarico del cardinale Giovanni Francesco Stoppani, progettò l'ampliamento del suo palazzo (poi Vidoni) in via del Sudario a Roma.
Il G. ridefinì il prospetto, prolungando i bracci laterali e modificando fatalmente il disegno complessivo cinquecentesco; aggiunse un nuovo attico e trasformò l'arco centrale dell'ingresso sulla strada del Sudario, introducendo in luogo dell'antica apertura a tutto sesto una a profilo semiellittico (Berna, pp. 362, 368). I lavori d'ampliamento furono realizzati in più fasi e terminarono con il completamento dell'attico solo un anno dopo la morte dell'architetto (1801), come afferma Francesco Azzurri in un carteggio conservato presso l'Accademia di S. Luca (v. 159, cc. 151, 150, 121, 117). L'aspetto odierno della facciata verso corso Vittorio, tiene conto delle modifiche apportate nel corso degli sventramenti operati per l'apertura della nuova arteria stradale.
Nel 1771 fu incaricato dalla chiesa di S. Caterina dei Funari di verificare i lavori effettuati da un capomastro muratore (Michel, p. 552).
L'11 nov. 1772 il G. divenne "accademico di merito" presso l'Accademia di S. Luca, della quale sarebbe stato più tardi (1779-80, 1784-86) nominato sindaco e in seguito (1987-89) censore (Arch. dell'Accademia di S. Luca, ms. 54, cc. 50v, 76).
Nonostante l'intensa attività che caratterizzò la sua presenza nell'istituzione romana, il G. non raggiunse mai il principato. Probabilmente il suo interesse si concentrò maggiormente sull'insegnamento, come è del resto indirettamente testimoniato dai significativi riconoscimenti ottenuti nei concorsi da alcuni dei suoi migliori allievi e collaboratori: prima della sua nomina accademica, nei concorsi clementini vennero premiati sia Giuseppe Subleyras (1762), sia Giacomo Quarenghi (1771); dopo la nomina del G., sia Domenico Lucchi (1773), sia Pietro Maggi (1792) si distinsero con successo nei concorsi Balestra (Marconi - Cipriani - Valeriani). Nel 1780, insieme con Domenico Corvi, Nicolò La Piccola e Agostino Penna, il G. contestò la regolarità della nomina a principe dello scultore Andrea Bergondi, non incorrendo tuttavia in alcuna sanzione (Lo Bianco). Nei documenti accademici il suo nome compare ancora nel 1798, quando donò il suo ritratto, tuttora non chiaramente identificato (Berna, p. 357).
Nel 1772 si recò a Velletri dove fornì ai padri somaschi un progetto per la ricostruzione della loro chiesa dedicata a S. Martino, secondo il quale fu costruita la chiesa attuale terminata nel 1776, con la sola eccezione della facciata realizzata da Matteo Lovatti nel 1822.
Il G. intervenne modificando l'impianto a croce latina dell'edificio preesistente, adottando una forma particolare a croce greca, con i bracci longitudinali più lunghi di quelli trasversali. La navata unica, preceduta da un endonartece e terminante in un abside semicircolare in parte derivato dal precedente, al centro accoglie una cupola senza tamburo poggiante su quattro pilastri. L'impronta vanvitelliana in questo edificio è riconoscibile nell'adozione di soluzioni dedotte dalla chiesa degli olivetani di Perugia.
Ancora tra il 1772 e il 1776, per i conti Antonelli, costruì la cappella privata della loro villa nella contrada di Morice nei pressi di Velletri.
Essa venne edificata su pianta a croce greca inscritta in un quadrato che in un certo modo viene anticipata dalla cappella Bolognetti realizzata da Salvi nel 1741; mentre il motivo dell'ingresso, raccordato per mezzo di due colonne allo spazio centrale, richiama l'analoga soluzione adottata dal G. sia in S. Martino, sia nell'atrio del palazzo del Monte ai Giubbonari. Un'impronta neocinquecentesca è riconoscibile nella facciata, la quale presenta una significativa analogia con il vignolesco S. Andrea sulla via Flaminia, nonché con la sobria facciata barocca del duomo di Albano realizzata tra il 1715 e il 1720 da Carlo Buratti.
A Velletri, nel 1773, restaurò la fontana di gusto berniniano in piazza "da basso" (l'attuale piazza Mazzini) e, l'anno dopo, la cantonata pericolante della porta S. Lucia (distrutta nel 1857). In questo periodo elaborò un progetto per la ristrutturazione dell'appartamento del cardinale Gianfrancesco Albani nel palazzo pubblico della cittadina laziale, messo in opera tra il 1776 e il 1779 e oggi irrimediabilmente alterato (Remiddi, 1972, p. 40).
Sempre a Velletri, e simultaneamente ai lavori al palazzo, il G. ricorse all'impianto longitudinale, questa volta a tre navate, per la chiesa dei Ss. Pietro e Bartolomeo iniziata nel 1775 (Moroni, LXXXIX, p. 233; Remiddi, 1972, p. 132). Per certi aspetti la facciata, composta da lesene binate scanalate che inquadrano l'ingresso sormontato da un sopraluce circolare e da un timpano triangolare, segue la tradizione piranesiana inaugurata nel 1764 con la chiesa di S. Maria del Priorato (Porro, pp. 104 s.).
Nel 1780, i padri mercedari di S. Adriano a Roma affidarono al G. il restauro manutentivo della loro chiesa.
Di quest'ultima, privata all'inizio del Novecento di tutti gli ornamenti seicenteschi per riprodurre l'antica facies della Curia romana, abbiamo a tutt'oggi numerosi rilievi e copie fotografiche che ci inducono a circoscrivere l'apporto del Giansimoni. Come afferma Varriano (p. 290), effettuando una comparazione dei disegni di rilievo stilati nel 1762 e conservati presso l'Accademia di S. Luca con le foto ottocentesche, appare evidente che non vi è la benché minima alterazione agli interni e agli esterni realizzati tra il 1653 e il 1656 da Martino Longhi il Giovane.
Nel 1785 realizzò l'apparato funebre per la morte di Maria Antonietta di Borbone Spagna regina di Sardegna nella chiesa del Sudario, nel quale il G. impiegò la forma di un "gran dado quadrato" sormontato, in maniera assai inconsueta, dalle due Virtù che lasciavano spazio nel centro a un cuscino sul quale era collocata la corona reale. Sopra questo dado una serie di plinti animavano verticalmente il catafalco che si concludeva in alto con la statua della regina nell'atto di contemplare il cielo. Alla volta era appeso un baldacchino nero che completava la composizione (Memorie per le belle arti, II, Roma 1786, pp. 41-43).
Alcuni anni più tardi, intorno al 1790, la commissione capitolare della cattedrale di Ferrara interpellò il G. per il completamento del campanile; egli fornì due progetti che però non trovarono esecuzione, sebbene, secondo Samoggia (pp. 78-81), la commissione - denominata "Fabbrica del Campanile" - avesse scelto i suoi elaborati preferendoli a quelli di almeno altri tre architetti.
La proposta del G. si compone di tre fogli: il primo e il secondo inerenti una soluzione che anticipa forme illuministiche, il terzo fornisce "altra idea" che segue invece la tradizione dell'alto barocco romano, riprendendo linee fontaniane e vanvitelliane. I disegni, denominati progetto "H", vengono attribuiti al G. sia per affinità linguistiche sia in considerazione dell'uso dei palmi romani (gli altri lavori sono in piedi ferraresi), nonché in base al Manifesto del 1791 il quale ricorda come la "torre" fosse stata "riservata […] ad avere l'ultimo compimento dal sommo architetto di Roma Sig. Niccola Giansimoni" (ibid., p. 78).
Al 1792 risale invece il progetto per la realizzazione dell'oratorio pubblico della chiesa della Ss. Trinità di Cori, terminato nel 1832 molti anni dopo la morte del G. e distrutto sotto i bombardamenti del secondo conflitto mondiale. Si tratta dell'ultima opera nota, cui il G. lavorò gratuitamente.
Dai documenti si ricava che fu attivo come architetto sino al gennaio 1798 (Arch. dell'Accademia di S. Luca, v. 159, c. 121), quando ormai colpito dalla cecità dettò il testamento, rogato il 5 febbraio di quell'anno dal notaio Lelio Mannucci (Porro, p. 105).
Il G., che viveva dal 1761 con il fratello Giuseppe in un appartamento al secondo piano del palazzo Bolognetti in via dei Fornari, morì a Roma il 14 nov. del 1800 (Pancotto, p. 168).
Dotato di vasta cultura, secondo la descrizione di Loukomsky (p. 484), il G. era attratto dall'antico, come attesta la campagna di rilevamento dei monumenti di Roma e la vicinanza al salotto culturale di Maria Pizzelli Cuccovilla, che si teneva all'interno del palazzo Bolognetti, probabilmente lo aveva messo in contatto con A. Canova, G. Ceracchi, J.W. Goethe, l'archeologo E.Q. Visconti, le pittrici Angelika Kauffmann e Marianna Dionigi, V. Monti, V. Alfieri, A. Verri, il matematico gesuita R. Boscovich (Pancotto, pp. 165-174), frequentazioni che potrebbero spiegare certe sue scelte stilistiche vicine alla corrente neoclassica. Riesaminandone brevemente il percorso professionale, ne emerge un talento caratterizzato da una molteplice flessibilità linguistica. Seguendo dapprima le coordinate del suo maestro N. Salvi, il G. si mosse partendo da posizioni classicheggianti coniugandole, in gioventù, con una ricerca spaziale vicina alle tematiche barocche e arcadiche; sapeva proporre con garbo e buon gusto svariate ispirazioni, passando poi da un linguaggio spiccatamente neoclassico a uno più vicino a tendenze illuministiche.
Oltre ai rapporti intercorsi con i colleghi Salvi e Subleyras, degna di menzione è l'amicizia con l'architetto Tommaso Bianchi appartenente, tra l'altro, alla cerchia vanvitelliana, al quale il G. fu debitore, sino alla morte nel 1766, di 116,42 scudi (Sera, p. 102). Il nome del G. appare diverse volte, quale maestro, accanto al già citato Quarenghi, e a numerosi allievi che parteciparono tra il 1772 e il 1792 ai concorsi dell'Accademia di Parma, come Luigi Campovecchio, Giovanni Hamerani, Domenico Lucchi, Pietro Maggi e Pietro Taglioretti (Pellegri - Furlotti, pp. 54-80). Oltre agli architetti citati, furono suoi aiuti Camillo Astolfo, Filippo Billi, Antonio Brunetti, Sante Guidi e Giuseppe Mazzotti (Porro, p. 105).
Un non meglio identificato Filippo Giansimoni viene citato come suo assistente da Chracas (19 sett. 1763) in occasione della già ricordata inaugurazione della cappella Falconieri nella chiesa dell'Annunziata a Firenze.
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