DEL GRANDE, Natale
Nacque a Roma il 9 dic. 1800 da Luigi, membro di una delle maggiori famiglie di mercanti di campagna dell'Agro romano, e da Rosa Fabri.
La figura del mercante di campagna, caratteristica dell'economia agricola dello Stato pontificio e da taluni considerata come la prova più valida dell'esistenza di un embrione di borghesia nelle antiquate strutture economiche dello Stato della Chiesa, aveva in realtà nella gran parte dei casi contorni prevalentemente affaristici, limitandosi essa ad un impiego non dinamico dei capitali a fini di speculazione. Meno intraprendente e spregiudicato di quanto si possa supporre, il grande affittuario era, nella sua versione più diffusa, un commerciante e un mediatore che traeva il lucro maggiore dal subaffitto dei pascoli ai pastori e non aveva né l'intenzione né l'interesse ad incidere in modo significativo sull'assetto proprietario delle campagne o a sperimentare nuove tecniche di conduzione.
Se questa era la norma, bisogna dire che il D., spirito abbastanza anticonformista, se ne differenziò affiancando alle attività tradizionali del suo ceto d'origine una politica di acquisto e sfruttamento di alcune vigne e prestando un'attenzione particolare all'allevamento del bestiame. Ciò era sufficiente per inserirlo di diritto nel pallido riformismo romano dei primi anni '40.
Le premesse per tale orientamento, che sfocerà in una visione auspicante il rilancio di una agricoltura, come la romana, malata al punto da non trovare più sollievo in episodici interventi di incoraggiamento, erano già in una personalità che si dedicava con passione alla coltivazione dei campi in un rapporto di quasi quotidiana presenza. Più di un aneddoto è rimasto a testimoniare la familiarità del D. con i contadini e la conoscenza, profonda pur se venata di paternalismo, della loro psicologia e dei loro problemi. Ma ciò che lo angustiava di più era lo stato di abbandono in cui versava quella agricoltura, povera di stimoli e attardata su forme e sistemi medievali. Sollecitato da questa consapevolezza, nel 1844 il D. aderì alla Società agraria romana, sorta l'anno prima per iniziativa di alcuni privati, i quali però, malgrado il patrocinio del cardinale F. S. Massimo, non riuscirono, per l'ostracismo e la diffidenza della Curia, a tradurre in pratica il loro programma di sperimentazione e diffusione di nuove tecniche di coltura e di zootecnia. Alla base di tale tentativo c'era il desiderio, comune a tutti gli associati, di ridare vigore a strutture - considerate vitali - che languivano per il disinteresse di un governo timoroso di novità sino a non vedere i vantaggi che, per un'economia come quella pontificia largamente dipendente dalle importazioni, sarebbero potuti scaturire da una politica di incoraggiamento dell'agricoltura. Il D. personalmente curò l'istituzione di un podere modello in un terreno messo a disposizione dal principe Marcantonio Borghese, ma, anche per i numerosi ostacoli frapposti, i risultati non furono pari agli sforzi profusi.
L'esperienza fatta parve tornare comunque utile nel clima aperto dall'avvento di Pio IX, allorché il riformismo trovò lo spazio prima negatogli; e anche in questa occasione il D. si segnalò come uno dei più pronti ad intervenire nel dibattito sull'agricoltura rilanciato da un papa che, diversamente dal suo predecessore, si mostrava sensibile alle istanze di rinnovamento e patrocinava la fondazione del Pontificio Istituto statistico agrario e di incoraggiamento (21 marzo 1847): una minore improvvisazione, un più avvertito richiamo all'accumulo di cognizioni scientifiche preliminari e di dati statistici erano i caratteri che lo distinguevano dalla Società agraria romana, ma a farne parte c'era anche chi, come l'avvocato A. Gennarelli, direttore del giornale dell'Istituto, svolgeva i temi tipici del riformismo fino a caratterizzare in senso più radicale i contenuti dell'iniziativa auspicando la messa in discussione dell'assetto proprietario e della sua più vistosa manifestazione, il latifondo. Erano propositi poco più che personali, irrealizzabili almeno in quelle condizioni politiche, ma ciò non toglie che se ne prendessero in esame i presupposti e si avviasse un lavoro di studio. Membro della commissione nominata all'uopo, il D. stese per il VI fascicolo del Giornale del Pontificio Istituto (1847, pp. 247-55) un Rapporto relativamente all'Agro romano, in cui si attribuiva alle inadempienze dei passati governi lo stato di grave dissesto che affliggeva l'agricoltura romana, con riflessi negativi per tutti coloro che vi si dedicavano, e si indicavano come soluzioni praticabili, insieme ad altre misure, la modifica del regime contrattuale degli affitti - la cui durata il D. chiedeva venisse estesa dai nove anni usuali a trentasei - e il rimborso, da parte dei proprietari, delle migliorie introdotte dai fittavoli nei terreni loro affidati. Era chiaro che al D., portavoce delle richieste di una classe rispetto alla quale pure per molti aspetti si differenziava, interessavano soprattutto la stabilità delle condizioni di lavoro e un sistema di incentivi capace di sviluppare in tutti - proprietari, affittuari e braccianti - l'attaccamento alla terra: introdurre in questa sua elaborazione altri elementi di proposta o ventilare ipotesi di attacco al latifondo sarebbe stato forse, più che intempestivo, lontano dal suo orientamento politico che era quello di un moderato che mirava, nell'ambito di una visione gradualistica, a conseguire risultati concreti; ma che al fondo di alcune sue posizioni, poi respinte dalla commissione, ci fossero una sorta di antagonismo verso i grandi proprietari e la insofferenza per chi si preoccupava solo di trarre dalla terra le proprie rendite è innegabile. D'altra parte la riflessione del D. su tali temi durava già da qualche tempo e tra il 1846 e il 1848 si riversava in tre opuscoli, la cui sostanza si coglie sin dai titoli: il primo presentava infatti un Progetto per incoraggiare l'agricoltura nell'Agro romano (Roma 1846), il secondo un Progetto agrario (Roma 1848) e il terzo un Progetto per dare nel corso di un decennio agli abitanti di Roma il pane a tariffa in ragione di scudi 10 a rubbio, e per ottenere in pari tempo una maggiore coltura di grano nell'Agro romano (Roma s. d.); e ciò conferma quanto, a differenza di altri mercanti di campagna, il D., oltre ad avere a cuore l'ammodernamento delle tecniche, puntasse su uno strumento come la coltura intensiva che invece intimoriva i grandi proprietari, per i quali il necessario ricorso alla colonizzazione avrebbe messo in serio pericolo il latifondo. Non a caso proprio sul D. il Tomassetti avrebbe imperniato il suo rimpianto per la figura del mercante di campagna, spazzato via dalla realtà sociale emersa all'indomani dell'Unità.
Dal campo agricolo, l'interesse e l'entusiasmo del D. per il nuovo corso inaugurato da Pio IX si estesero presto ad altri settori della vita associata, in cerca di quelle occasioni che un potere meno arcigno veniva via via offrendo ai propri sudditi: l'istituzione della guardia civica lo vide tra i primi a rispondere, con un contributo anche personale, all'appello di chi voleva fare di quel corpo uno strumento che garantisse i cittadini dagli arbitri polizieschi. Più ancora piacquero al D., suddito fedele e devoto di Pio IX, i preparativi per la guerra messi in atto dopo le insurrezioni nel Lombardo-Veneto, nel convincimento che ci fosse un nesso preciso tra l'immobilismo economico, quello dello Stato pontificio in particolare, e la presenza austriaca, diretta o indiretta, nella penisola. Appena avuta notizia della guerra, il D. si arruolò nella divisione Ferrari che, con i suoi civici e volontari, doveva affiancarsi a quella dei regolari pontifici comandata da Giov. Durando. La divisione lasciò Roma il 26marzo 1848; il D., che aveva generosamente provveduto all'equipaggiamento di una colonna di militi, fu posto col grado di colonnello a capo della I legione; ma non tardarono a venire alla luce la precarietà dell'organizzazione e la mancanza di mezzi e rifornimenti, segno delle incertezze con cui da Roma si appoggiava e nello stesso tempo si ostacolava l'intervento armato. A tale situazione, aggravata da episodi di indisciplina frutto del malcontento e del disagio, il D. cercò di porre riparo facendo leva sull'ascendente di cui godeva presso le truppe e su una certa tollerante condiscendenza verso le esigenze dei volontari, senza peraltro nascondere, nei rapporti al ministro delle Armi, la necessità che il papa appoggiasse con decisione lo sforzo bellico del Piemonte e che il Durando accettasse senza remore la collaborazione dei corpi franchi. Tali elementi, affiorati già durante la lunga marcia di avvicinamento al Veneto, non si erano ancora chiarificati nel maggio, allorché la legione guidata dal D. vagò da una destinazione all'altra - da Montebelluna a Padova, a Mestre - senza conoscere con precisione il settore in cui sarebbe stata impiegata.
Finalmente il 1° giugno fu chiamata dal Durando a Vicenza per la difesa della città dagli attacchi del Nugent: quando cominciarono gli assalti il D. era schierato a porta Padova, uno dei punti più battuti dal fuoco nemico, e lì cadde il 10 giugno 1848 colpito da un proiettile di rimbalzo. Dopo la resa di Vicenza la salma ricevette gli onori funebri a Ferrara e fu quindi trasportata a Roma.
Bibl.: Un breve profilo biogr. del D., incentrato sulla partecipazione alla guerra nel Veneto, in Ceccarius [G. Ceccarelli], Un romano del '48: N. D., in Strenna dei romanisti, IX (1948), pp. 67-78. Altre notizie e testimonianze dirette su questo stesso momento stor. in M. Montecchi, Fatti e docc. riguardanti la divis. civica e volontari ..., Capolago 1850, pp. 16, 100; R. Giovagnoli, Ciceruacchio e Don Pirlone ..., Roma 1894, pp. 327, 341, 468 ss., 472, 525 ss., 531, 538; Id., P. Rossi e la rivoluz. romana su docc. nuovi, I, Roma 1898, p. 224; II, ibid. 1911, pp. 111, 406, 417; G. de Toth, Per un dimenticato. N. D., Roma 1908; E. Ovidi, Roma e i Romani nelle campagne del 1848-49 per l'indipendenza ital., Roma-Torino 1903, pp. 20, 52, 56, 86, 97, 117 ss., 327 ss.; P. Moderni, I Romani del 1848-49, Roma 1911, ad Ind.; N. Costa, Quel che vidi e quel che intesi, a cura di G. Guerrazzi Costa, Milano 1927, pp. 28 s., 31 s., 39, 42-46. Sugli aspetti profess. della vita del D. si rinvia a C. De Cupis, Saggio bibliogr. degli scritti e delle leggi sull'Agro romano, Roma 1903, p. 51; O. Majolo Molinari, La stampa periodica romana dell'Ottocento, Roma 1963, I, ad Ind.; R. De Felice, Aspetti e momenti della vita econ. di Roma e del Lazio nei secc. XVIII e XIX, Roma 1965, ad Ind.; E. Metalli, Usi e costumi della Campagna romana, Bologna 1976 (ristampa anastatica dell'ediz. del 1924), pp. 79 s.; G. Tomassetti, La Campagna romana antica, medievale e moderna..., a cura di L. Chiumenti - F. Bilancia, Firenze 1979, ad Ind. Particolarmente informato è C. M. Travaglini, Il dibattito sull'agric. romana nel sec. XIX (1815-1870). Le Accademie e le Società agrarie, Roma 1981, ad Ind.