Musicoterapia e psicomusicologia nelle fonti antiche
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Rimedio al confine tra magia e medicina, nel mondo greco antico la musica è considerata strumento in grado di curare il corpo e l’anima, ammaliandoli e purificandoli. Parte di una concezione ben radicata che tende a enfatizzare i poteri della musica, l’impiego terapeutico del canto e dei suoni è presente in numerose fonti antiche e dà vita, nelle opere dei filosofi, a un’ardita impresa intellettuale tesa a comprendere i meccanismi con cui la musica raggiunge l’anima e se ne prende cura.
L’idea che la musica eserciti un’eccezionale influenza sulla natura umana costituisce un aspetto cruciale dell’antica cultura musicale greca, ben attestato da fonti letterarie e filosofiche. Dai poemi omerici fino al De musica di Aristide Quintiliano, passando per il pitagorismo, le tragedie, i dialoghi di Platone, le opere di Aristotele e degli studiosi di teoria musicale, il percorso è segnato da numerosi riferimenti all’idea che la musica possa guarire ferite del corpo e dell’anima, formare il carattere ed esercitare un’azione persuasiva. Tale convinzione assume, soprattutto per opera dei filosofi, forma teorica, ma all’origine essa è collegata a tradizioni magiche e rituali religiosi e la sua espressione è affidata al linguaggio del mito. Al suono della lira di Anfione le pietre si muovono e si compongono a formare le mura di Tebe; oggetti inanimati, animali e persone sono attratti e soggiogati dalla musica di Orfeo che riesce persino a commuovere e persuadere gli dèi degli inferi, abbattendo il confine tra la vita e la morte.
Alcuni di questi racconti adombrano temi fondamentali nella riflessione sui poteri della musica, come l’influenza sull’assetto sociale e politico, il rapporto con la medicina, il controllo della sfera psichica. In un passo (1146b) del De musica attribuito a Plutarco si narra che, per mezzo della musica, Terpandro avrebbe ristabilito l’ordine in una Sparta turbata da disordini civili, mentre Taleta di Creta l’avrebbe liberata dalla peste. In un celebre aneddoto, riportato tra gli altri da Giamblico, Pitagora sarebbe riuscito a calmare un innamorato ubriaco, ulteriormente eccitato dall’ascolto di una melodia frigia suonata da un aulos, semplicemente chiedendo all’auleta di passare a una melodia più composta (La vita pitagorica, 112).
Di un impiego terapeutico della musica si parla già nei poemi omerici: nel nono libro dell’Iliade (IX, 182-188) Achille cerca tranquillità in un canto intonato al suono della phorminx; nell’Odissea (XIX, 455 ss.) si ricorre, e con successo, a un’epode, un canto magico, per fermare il sangue che sgorga dalla ferita di Odisseo.
Se l’uso della musica per la cura della psiche trova ampio sviluppo nella riflessione filosofica, il ricorso a espedienti musicali per la cura del corpo ha a sua volta una certa fortuna fino alla tarda antichità. Apollo, il dio che presiede sia alla musica che alla medicina, è l’emblema di questo nesso tra le due arti, e il peana, il canto legato ai culti apollinei, si rivela anche strumento terapeutico. L’impiego di pratiche musicali, nell’ambito di un approccio magico-religioso alla malattia, è testimoniato dalla polemica che l’autore del trattato ippocratico Male sacro (cap. 1) ingaggia contro coloro che pretendono di curare l’epilessia con purificazioni e incantesimi (epodai). Nel Teeteto (149c-d) Platone annovera l’incantesimo tra le pratiche comunemente impiegate dalle ostetriche per destare o sedare i dolori del parto. Il motivo del “cantare sopra/verso” (qualcuno o qualcosa) a scopi magici e terapeutici (azione espressa da verbi quali epado, katauleo, katado) ricorre in contesti in cui la musica entra in gioco sia concretamente sia in funzione metaforica: l’ambito della medicina, come si è detto, ma anche la dimensione della persuasione e della psicagogia, ottenute mediante espedienti retorici e pratiche filosofiche. Il motivo dell’incantesimo, e quello della purificazione a esso legato, riguardando tanto la dimensione corporea quanto quella psichica, hanno un ruolo centrale nelle relazioni tra i diversi ambiti in cui la musica assume valore terapeutico e psicagogico.
Al pitagorismo è tradizionalmente attribuita un’opera di teorizzazione e sistematizzazione delle antiche pratiche e convinzioni relative all’uso terapeutico della musica, quindi la creazione di una vera e propria musicoterapia. In realtà, tale immagine è per gran parte costruita sulla base di due opere neoplatoniche sul pitagorismo, le Vite pitagoriche di Porfirio e di Giamblico, non del tutto affidabili poiché tendenti a proiettare sul primo pitagorismo idee elaborate in seguito, sovrapponendovi in particolare contenuti platonici.
Queste opere non possono quindi essere assunte come descrizioni fedeli delle pratiche diffuse presso i primi pitagorici, ma hanno senz’altro un valore come testimoni di una lunga tradizione di impiego terapeutico della musica. Il quadro che si profila, mettendo insieme le due fonti, descrive un uso abituale e codificato della musica (nelle sue varie componenti di ritmo, armonia, danza e nella sua veste magica di incantesimo) nell’ambito di una cura basata su una purificazione e un riequilibrio psicofisici. In maniera sapiente, Pitagora impiega le giuste melodie, come fossero psicofarmaci, per manipolare passioni ed emozioni, mutandole nei loro opposti, oppure bilanciandole in intensità. La cura è di carattere allopatico: la musica introduce stimoli contrari alle affezioni sulle quali si intende intervenire. La scelta oculata delle musiche appropriate sembra di estrema importanza: aspetto che sarà cruciale anche nelle successive riflessioni sull’impiego filosofico della musica. La correttezza della musicoterapia pitagorica è garantita dalla stessa figura di Pitagora e dalla sua straordinaria capacità di percepire una musica perfetta: le melodie che egli somministra ai propri discepoli sono “immagini” dell’armonia delle sfere.
A dispetto della frequenza con cui il nome di Damone ricorre nei discorsi sulla musica greca antica, ben poco si conosce delle sue teorie. A parte le testimonianze tarde di Ateneo e Aristide Quintiliano, che gli attribuiscono l’idea di una interazione tra musica e anima, sulla base di una certa affinità tra movimenti musicali e psichici, la principale fonte è Platone, il quale, tuttavia, rielabora non poco le teorie damoniane alla luce delle proprie riflessioni sulla musica e l’anima. È ragionevole, comunque, attribuire a Damone, legato alla cerchia di Pericle e politicamente impegnato, un particolare interesse per il ruolo che la musica gioca nei meccanismi di aggregazione sociale e nelle dinamiche politiche, come mezzo in grado di forgiare la coscienza collettiva di una comunità.
Le teorie damoniane, così come quelle pitagoriche, confluiscono nell’opera platonica e sono ripensate e approfondite alla luce dei principali temi dei dialoghi: questioni etiche, politiche, cosmologiche e metafisiche. La riflessione platonica costituisce, allo stato delle nostre conoscenze, la prima articolata analisi filosofica delle relazioni tra anima, corpo e musica. I progetti di educazione musicale elaborati nella Repubblica e nelle Leggi si basano sull’idea che la musica possa rappresentare specifici contenuti emotivi ed etici – come il coraggio, la temperanza – e indurre l’anima ad acquisirli. La musica è un potente strumento per modellare la sensibilità dei cittadini, attraverso una sottile operazione di persuasione (non a caso nelle Leggi definita proprio un incantesimo) che agisce sulle componenti più profonde della psiche umana. La spiegazione di un’interazione così coinvolgente e proficua tra anima e musica è da cercarsi nella nozione di movimento e in un’affinità tra strutture e dinamiche psichiche e musicali cui Platone dedica sofisticate analisi in alcuni luoghi del Timeo.
L’idea che la musica possa formare il carattere e contribuire alla costituzione e al mantenimento di un assetto sociale è raccolta da Aristotele che, tuttavia, opera una distinzione all’interno della sfera dei poteri e degli scopi della musica, contemplando e ammettendo anche finalità diverse da quella educativa. Questo gli permette il recupero e il reimpiego, anche a scopi filosofici, di quella musica tenuta da Platone ai margini dell’assetto statale, in quanto inadatta a espletare una funzione educativa in senso stretto. Le musiche che provocano un’eccitazione estatica possono contribuire al buon equilibrio dell’anima, favorendo una disintossicazione dalle emozioni negative, attraverso una sollecitazione di quelle stesse emozioni. Si tratta della teoria della catarsi, cui Aristotele accenna nella Politica (1341b 32 ss.) e nella Poetica (1449b 24-28), e che sembra aver giocato un ruolo rilevante nelle teorie musicali di Teofrasto, le quali spostano decisamente l’enfasi sul rapporto tra musica ed emozioni.
Per Teofrasto, infatti, la natura stessa del fenomeno musicale coincide con i movimenti che l’anima compie nel momento in cui si libera delle emozioni dannose (fr. 716, 130-132 Fortenbaugh): la funzione terapeutica della musica non potrebbe essere affermata in maniera più radicale.
L’attenzione allo stretto legame tra musica ed emozioni caratterizza anche le teorie di Aristide Quintiliano, nella cui imponente opera sulla musica confluiscono molti dei temi psicomusicologici sin qui illustrati. L’intervento musicoterapico richiede sia la conoscenza della natura delle emozioni (alcune possono essere eliminate in un solo trattamento, altre richiedono un intervento graduale), sia la capacità di individuare il tipo di musica adatto in ogni circostanza. Il consiglio di procedere, nei casi in cui sia difficile diagnosticare lo stato psichico su cui intervenire, applicando una qualsiasi melodia per poi approssimarsi a quella più adatta, correggendo il tiro, sembra teorizzare una sorta di musicoterapia sperimentale. E l’antica idea che la musica abbia eccezionali poteri rivive nella ricerca fiduciosa di una melodia in grado di curare e calmare.