MONETARISMO
(App. IV, II, p. 499)
Dagli anni Cinquanta all'inizio degli anni Ottanta la teoria economica nota con il nome di m. ha rappresentato la principale alternativa critica alla dominante teoria di determinazione del reddito d'ispirazione keynesiana. Nel corso del tempo la critica monetarista alla teoria keynesiana si è sviluppata su diversi fronti. In un periodo iniziale (gli anni Cinquanta e Sessanta), oggetto principale di critica è stato il ruolo di secondo piano attribuito alla moneta nella spiegazione keynesiana delle fluttuazioni nell'attività economica. Secondo tale teoria, l'impulso generatore del ciclo economico è da attribuirsi a variazioni nelle componenti della domanda aggregata, e in particolar modo negli investimenti privati. Il m., invece, sostiene l'importanza della quantità di moneta nel determinare il livello di attività reale dell'economia nel breve periodo e il livello dei prezzi (o il tasso d'inflazione) nel lungo periodo. Da qui anche la critica alle misure di politica economica di stampo keynesiano, basate sulla manovra della domanda aggregata (demand management) − attraverso soprattutto la spesa pubblica − in funzione anticiclica, a cui il m. contrappone la crescita programmata degli aggregati monetari come strumento per ottenere il controllo del livello dei prezzi, lasciando al settore privato dell'economia − ritenuto intrinsecamente stabile − la determinazione del livello reale di attività.
Dalla fine degli anni Sessanta la critica monetarista s'indirizza principalmente nei confronti dell'interpretazione keynesiana del legame inverso fra inflazione e disoccupazione, considerato fino a quel momento come una forte regolarità empirica, sintetizzata nella nota ''curva di Phillips''. Secondo tale interpretazione, un'espansione della domanda aggregata, comportando aumento della produzione e diminuzione della disoccupazione, determina tensioni sul mercato del lavoro che si traducono in un aumento del livello dei salari nominali e, conseguentemente, dei prezzi dei prodotti. La risultante relazione inversa fra disoccupazione e inflazione, ritenuta stabile anche nel lungo periodo, permetterebbe ai responsabili della politica economica di scegliere la combinazione desiderata delle due variabili (un ''punto'' sulla curva di Phillips), ottenibile poi mediante l'opportuna regolazione della domanda aggregata.
L'esistenza di una stabile intersostituibilità (trade-off) fra inflazione e disoccupazione è radicalmente criticata da M. Friedman e da altri monetaristi, i quali sostengono che tale relazione inversa è un fenomeno solo temporaneo e che l'inflazione è destinata inevitabilmente ad accelerare nel corso del tempo, in risposta a un'espansione della domanda aggregata, per effetto delle aspettative inflazionistiche, fino a che il tasso di disoccupazione non sia tornato al suo livello definito ''naturale'', nella terminologia di Friedman. In corrispondenza di tale tasso il numero di posti di lavoro vacanti è uguale al numero dei disoccupati, determinando la sostanziale uguaglianza di domanda e offerta di lavoro. Il ruolo delle aspettative nel determinare il comportamento degli agenti economici e l'efficacia delle misure di politica economica inizia così ad assumere un ruolo centrale nell'analisi, ruolo che verrà ulteriormente rafforzato, come si vedrà, dagli sviluppi teorici degli anni seguenti.
Durante gli anni Settanta, il manifestarsi congiunto di elevata inflazione e disoccupazione crescente genera una profonda crisi di fiducia nelle possibilità esplicative della teoria keynesiana e nelle prescrizioni di politica economica da essa derivate. Il m., invece, con la sua enfasi sul controllo della crescita monetaria come semplice strumento per contenere l'inflazione, acquista crescente importanza nella conduzione effettiva della politica economica, tanto che in numerosi paesi europei, oltre che negli Stati Uniti, vengono adottate, a partire dalla metà degli anni Settanta, politiche monetarie direttamente ispirate ai precetti monetaristi. Parallelamente, e fino alla metà degli anni Ottanta, nasce e si sviluppa una corrente teorica che riprende alcuni temi di fondo del m. (in particolare la fiducia nella stabilità del settore privato dell'economia e l'importanza attribuita alla formazione delle aspettative da parte degli agenti economici) sviluppandoli però in maniera diversa e giungendo a conclusioni nuove e più radicali sull'efficacia delle azioni di politica economica. Tale corrente teorica è nota con il nome di ''nuova macroeconomia classica'' (e anche, forse più impropriamente, di ''neomonetarismo'') ed è associata principalmente ai nomi di R. Lucas, R. Barro, Th. Sargent e N. Wallace.
Le principali proposizioni teoriche del monetarismo. − Il m. non costituisce una teoria economica omogenea, dotata di un ben definito e universalmente accettato insieme di proposizioni teoriche rigorosamente dimostrate. Al suo interno convivono diverse posizioni, e, almeno secondo i critici del m., alcuni importanti aspetti della teoria sono lasciati senza una soddisfacente trattazione analitica. È bene però ricordare come l'elaborazione teorica del m. si sia sempre accompagnata a numerosi e approfonditi studi empirici tendenti a documentare la validità delle idee monetariste prima ancora e al di là della loro formale dimostrazione. Ciò è particolarmente evidente nei monumentali lavori di Friedman e A. Schwartz (1963, 1970, 1982) sulla storia monetaria degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, e risponde anche a precisi canoni epistemologici enunciati da Friedman fin dagli anni Cinquanta. Per Friedman, infatti, la validità di una teoria va giudicata sulla base della sua capacità di predire i fatti e non dal realismo delle assunzioni o dalla compattezza della struttura logica.
Nonostante queste difficoltà, è possibile individuare in quattro punti le caratteristiche distintive del m. al termine degli anni Settanta:
a) Nucleo centrale della teoria monetarista rimane la riformulazione, dovuta a Friedman, della classica teoria quantitativa della moneta in primo luogo come teoria della domanda di moneta e quindi come teoria della determinazione del reddito nominale.
Il ruolo della moneta nell'economia era visto dalla teoria quantitativa attraverso la cosiddetta ''equazione degli scambi'', nella forma MV=Py, dove M è lo stock di moneta, P il livello generale dei prezzi, y il reddito nazionale in termini reali e V è la velocità di circolazione della moneta (definita come il numero medio di volte in cui lo stock di moneta esistente è impiegato per il pagamento di beni e servizi finali). L'ipotizzata costanza di V e y (la prima determinata da fattori istituzionali e il secondo fisso al livello di pieno impiego dei fattori produttivi) crea, per la teoria quantitativa, un legame diretto fra variazioni della quantità di moneta (M) e variazioni del livello dei prezzi (P).
La moneta viene quindi vista, dalla teoria quantitativa, esclusivamente nella sua funzione di mezzo di scambio, mentre il punto di partenza della riformulazione monetarista della teoria sta proprio nel considerare la moneta soprattutto come attività patrimoniale, nella sua funzione di ''temporaneo deposito del potere d'acquisto''. Come tale, essa è domandata nel quadro delle complessive scelte di portafoglio dei soggetti economici e compete, in termini di tassi attesi di rendimento, con una vasta gamma di attività finanziarie (titoli, azioni) e reali (beni capitale, immobili, beni di consumo durevoli). Determinanti della domanda di moneta dell'economia divengono quindi, nella teoria monetarista, non solo il livello del reddito e il tasso atteso di rendimento sui titoli a reddito fisso (come nella teoria keynesiana), ma anche i tassi attesi di rendimento sulle varie attività alternative e il tasso atteso d'inflazione, come misura del rendimento atteso delle attività reali non soggette a deprezzamento. Adottando l'ipotesi di Friedman, secondo la quale una variazione del reddito nominale si traduce in una variazione proporzionale della quantità desiderata di moneta da parte dell'economia, è possibile esprimere la funzione di domanda di moneta in forma semplificata come M=f (y, rb, re, π, w)Y, dove rb ed re denotano il tasso reale atteso di rendimento rispettivamente sui titoli a reddito fisso e sulle azioni, π è il tasso atteso d'inflazione, w lo stock di ricchezza dell'economia e Y è il reddito nazionale in termini nominali (Y=Py). La riformulazione monetarista della teoria quantitativa si nota più chiaramente se si riesprime la funzione di domanda di moneta come Y=V(y, rb, re, π, w)M. Ora la velocità di circolazione della moneta viene a dipendere da una serie di variabili che influenzano le scelte di portafoglio degli agenti economici. È questo l'aspetto essenziale della riformulazione monetarista della classica equazione degli scambi richiamata sopra.
Tuttavia, il legame fra M e Y appena descritto non costituisce ancora una vera e propria teoria della determinazione del reddito nominale in funzione della quantità di moneta. Due condizioni, che costituiscono altrettante ipotesi chiave della teoria monetarista, sono necessarie: l'''esogenità'' dell'offerta di moneta, e la stabilità della domanda di moneta (o della velocità di circolazione V). La prima ipotesi equivale a dire che le determinanti della domanda di moneta incluse nella funzione V non esercitano alcun effetto sulla quantità di moneta in circolazione nell'economia, controllata e manovrata dalle autorità monetarie. La seconda ipotesi dev'essere interpretata non come costanza numerica di V, ma come stabilità della relazione funzionale che lega V alle sue determinanti. L'effetto congiunto delle due ipotesi è di trasformare la relazione fra M e Y in un legame causale: variazioni della quantità di moneta in circolazione, decise dalle autorità monetarie, determinano, secondo una relazione stabile e perciò prevedibile, variazioni del reddito nominale.
b) Dopo aver stabilito, sulla base di una teoria della domanda di moneta, un legame causale fra quantità di moneta in circolazione e livello del reddito nominale, restano da individuare i canali attraverso cui, per il m., una variazione della moneta si trasmette ai prezzi e alla produzione (il ''meccanismo di trasmissione'').
Su questo punto il m. si differenzia nettamente dalla teoria keynesiana, secondo la quale un'immissione di moneta nell'economia, comportando una diminuzione del tasso d'interesse sui titoli a reddito fisso, determina un aumento della domanda di moneta per fini ''speculativi'', fino a ristabilire l'uguaglianza di equilibrio fra domanda e offerta di moneta. La diminuzione del tasso d'interesse stimola gli investimenti privati, generando effetti moltiplicativi su reddito, consumo e occupazione, senza mutamenti nel livello generale dei prezzi. Variazioni del tasso d'interesse su attività finanziarie direttamente sostituibili alla moneta costituiscono quindi il canale keynesiano di trasmissione di un impulso monetario al settore reale dell'economia. A questa teoria il m. contrappone una visione ben più articolata del processo di aggiustamento dei portafogli di attività (finanziarie e reali) detenute dal settore privato. Come sopra ricordato, per il m. la moneta compete nei portafogli dei soggetti con una vasta gamma di attività patrimoniali. Un eccesso di offerta di moneta, quindi, determina un riordinamento dei portafogli che interessa non solo le attività finanziarie che possono essere più direttamente sostituite alla moneta, ma anche le azioni e un'ampia serie di attività reali. Accanto a variazioni dei tassi di rendimento su tutte le attività finanziarie interessate, quindi, si aggiunge, per il m., un effetto diretto di un aumento dell'offerta di moneta sulla spesa complessiva in beni (per es. beni di consumo durevoli) e servizi. Il risultato ultimo di questi aggiustamenti è quindi un aumento della spesa globale in termini nominali.
La complessità, rispetto alla teoria keynesiana, del meccanismo di trasmissione monetarista sopra sommariamente descritto (v. anche App. IV, ii, p. 499) ha portato i teorici monetaristi a non proporne un'analisi dettagliata con una ben definita scansione temporale dei vari effetti, ma piuttosto a orientare la ricerca empirica verso la verifica della stabilità del legame fra moneta e reddito nominale. Nell'interpretazione monetarista dell'evidenza empirica, l'esistenza di una stabile relazione di lungo periodo fra moneta e reddito è la conclusione principale tratta dall'approfondita analisi friedmaniana della storia monetaria degli Stati Uniti. Tuttavia, la relazione di breve periodo fra le due variabili è meno sicura e prevedibile: l'effetto sul reddito di un impulso monetario, infatti, si manifesta nel tempo con ritardi ''lunghi e variabili'', che inducono i monetaristi a riporre una maggior fiducia nelle proposizioni teoriche riguardanti il lungo periodo. Queste conclusioni, tratte dall'analisi storica dei dati, hanno importanti implicazioni, come si vedrà, per le prescrizioni monetariste di politica economica.
c) Il modo in cui il m. ha affrontato il problema di una suddivisione delle variazioni del reddito nominale in mutamenti del livello dei prezzi e variazioni della produzione costituisce un terzo caposaldo della teoria monetarista, e uno dei contributi più importanti offerti dal m. alla teoria economica negli anni Settanta.
Le risposte fornite a tale problema dalla teoria classica e keynesiana sono da ritenersi piuttosto estreme. Nel caso di perfetta flessibilità di tutti i prezzi nominali, le variabili reali sono totalmente indipendenti dalle variabili monetarie e, di conseguenza, variazioni dell'offerta di moneta si traducono esclusivamente in variazioni proporzionali del livello dei prezzi. Nel caso di completa rigidità dei prezzi, d'altro canto, variazioni monetarie hanno soltanto effetti reali. Una posizione intermedia si è sviluppata a seguito dei lavori empirici di Phillips (1958), che hanno portato a supporre l'esistenza di una relazione stabile fra produzione e inflazione. Il conflitto di obiettivi è chiaro: il problema rilevante per le autorità è di stabilire quali livelli d'inflazione si è disposti ad accettare in cambio di una maggiore utilizzazione delle risorse.
L'evidenza empirica successiva ha dimostrato però che la ''curva di Phillips'' è cambiata nel tempo: non è quindi così semplice per le autorità ottenere i livelli di produzione e inflazione desiderati manovrando la domanda aggregata. Prima ancora che gli eventi ne avessero rivelato l'instabilità, Friedman ed E. Phelps, sul finire degli anni Sessanta, avevano messo in discussione la coerenza logica e la validità della ''curva di Phillips'': nella loro visione, la produzione può aumentare rispetto al valore ipotetico ''naturale'' con prezzi stabili solo nel caso in cui si verifichino errori di previsione dell'inflazione da parte del settore privato dell'economia. In altre parole, la vera curva di Phillips dovrebbe esprimere una relazione fra la produzione e l'inflazione attesa, non attuale. Il problema cruciale è quindi quello della formazione delle aspettative da parte degli operatori economici: è lecito presumere che all'aumentare dell'inflazione realizzata si verifichi un adeguamento delle aspettative tale da rendere di fatto impossibile il conseguimento, in maniera permanente, degli obiettivi di politica economica desiderati. Il costo del mantenimento dell'occupazione e della produzione permanentemente al di sopra dei loro livelli ''naturali'' è costituito da un aumento continuo, e non una tantum, dell'inflazione, in quanto l'inflazione corrente dovrebbe mantenersi sempre al di sopra delle aspettative del settore privato.
In sintesi, la critica di Friedman ridimensiona in maniera notevole l'entusiasmo per politiche economiche attive. Solo nel breve periodo è possibile intravvedere una qualche possibilità d'intervento delle autorità a fini di stabilizzazione, ma politiche di domanda non possono in alcun modo stimolare l'attività produttiva in maniera duratura.
d) L'analisi svolta in precedenza ha implicazioni immediate in tema di politica economica. L'importanza della quantità di moneta per la determinazione del reddito nominale nel lungo periodo, l'esistenza di ritardi lunghi e variabili nella trasmissione al reddito di un impulso monetario e l'impossibilità di ottenere, mediante manovre monetarie, uno scostamento permanente dal tasso ''naturale'' di disoccupazione, portano alla formulazione della più nota regola di politica economica del m.: la crescita della quantità nominale di moneta a un tasso costante nel tempo.
Il rispetto di tale regola assicurerebbe il controllo del tasso d'inflazione nel lungo periodo senza creare, nel breve periodo, effetti incerti e potenzialmente destabilizzanti sull'attività reale.
I monetaristi prendono quindi posizione contro l'uso della politica monetaria diretto alla regolazione anticongiunturale dell'economia, obiettivo impossibile da raggiungere con precisione a causa dell'incerta lunghezza del ritardo con cui variazioni della quantità di moneta influenzano il reddito. Inoltre, i monetaristi manifestano una totale sfiducia nell'efficacia di misure di politica fiscale (manovra della spesa pubblica e del livello di tassazione) quando esse non vengano accompagnate da variazioni dell'offerta di moneta. A parità di quantità di moneta, infatti, un aumento della spesa pubblica effettuato al fine di stimolare la domanda aggregata e il reddito, provocherebbe solo un aumento del tasso d'interesse e uno ''spiazzamento'' di investimenti e consumi privati, senza effetti durevoli nella produzione complessiva.
L'indicazione di Friedman dello specifico tasso di crescita costante della quantità di moneta che le autorità dovrebbero adottare come regola si basa sull'ipotizzata stretta proporzionalità fra reddito reale e quantità di moneta in termini reali che la collettività desidera detenere. La crescita dello stock di moneta a un tasso pari al tasso di crescita del reddito reale sarebbe quindi compatibile con la stabilità dei prezzi nel lungo periodo. Adottando questa regola, le autorità monetarie offrirebbero al sistema la quantità di moneta desiderata, compatibile con lo sviluppo del reddito reale e con il controllo dei prezzi. Proprio l'enfasi posta dal m. sul controllo del livello dei prezzi come obiettivo e sulla crescita programmata della moneta come strumento della politica monetaria è stata la ragione fondamentale dell'affermarsi di politiche monetarie d'ispirazione monetarista in numerosi paesi durante gli anni Settanta, quando il contenimento dell'inflazione ha assunto il ruolo di obiettivo prioritario.
La ''nuova macroeconomia classica'' e il ruolo della politica economica. − Il pur notevole ridimensionamento operato da Friedman nei confronti delle teorie di stampo keynesiano è stato portato all'estremo dai teorici della cosiddetta ''Nuova Macroeconomia Classica'' (NMC), che hanno negato qualsivoglia spazio a politiche attive anche nel breve periodo. Secondo questa teoria, non esisterebbe alcuna relazione fra inflazione attesa e produzione (ovvero, la curva di Phillips sarebbe da considerarsi verticale sia nel breve che nel lungo periodo). Quest'affermazione sembrerebbe, a prima vista, non tenere conto del fatto che, almeno fino agli anni Sessanta, la curva di Phillips si era rivelata piuttosto stabile. La spiegazione è che nel momento stesso in cui le autorità hanno cercato di ottenere in maniera decisa gli obiettivi desiderati d'inflazione e produzione, l'ipotizzata relazione tra le due variabili è drasticamente cambiata. Questa è l'essenza della nota critica di Lucas all'uso di modelli che non incorporino esplicitamente i cambiamenti di comportamento del settore privato al variare delle politiche economiche perseguite. Gli operatori economici reagiscono in maniera intelligente a mutamenti nelle manovre di politica economica. Non è quindi possibile centrare gli obiettivi desiderati manipolando la domanda aggregata e assumendo nel contempo un comportamento totalmente passivo da parte degli agenti. Nell'ipotesi di aspettative razionali, quando gli operatori utilizzano tutte le informazioni in loro possesso per prevedere le variabili rilevanti, la curva di Phillips è verticale anche nel breve periodo, in assenza di rigidità nominali.
L'ipotesi di aspettative razionali (per un approfondimento, v. aspettative, in questa Appendice), anche se estrema, è l'unica che permetta di assumere che il settore privato non commetta errori di previsione in maniera sistematica; per questo motivo essa è considerata la meno insoddisfacente dal punto di vista teorico nel dibattito contemporaneo. Le implicazioni di tale ipotesi non sono chiaramente univoche, in quanto la rilevanza di manovre alternative di politica economica dipende in maniera cruciale dalla struttura del modello economico di riferimento. È evidente che, partendo da una situazione di equilibrio non inflazionistico con prezzi perfettamente flessibili e aspettative razionali, a un aumento annunciato dell'offerta di moneta corrisponderà un'aspettativa di aumento dei prezzi nella stessa misura in modo da lasciare invariate le variabili reali. Ne consegue che la produzione può essere influenzata solo nel caso in cui le manovre di politica economica siano interpretate in maniera non corretta. Non esiste comunque spazio per effetti duraturi di politiche discrezionali: qualora, per es., le autorità aumentassero sistematicamente ''a sorpresa'' l'offerta di moneta, gli agenti non avrebbero difficoltà a rendersi conto del carattere permanente e non transitorio di tale manovra; l'aggiustamento delle aspettative verrebbe a vanificarne del tutto l'efficacia.
Non esiste quindi la possibilità di aumentare la produzione al di sopra del suo livello ''naturale''. Se, e solo se, le autorità avessero a disposizione informazioni privilegiate rispetto al settore privato, potrebbe esistere la possibilità di diminuire le oscillazioni stocastiche delle variabili reali intorno ai loro valori di equilibrio. In questo caso, l'obiezione dei teorici della NMC è che sarebbe preferibile rendere di dominio pubblico queste informazioni addizionali; in tal modo le forze di mercato garantirebbero l'allocazione ottimale delle risorse senza che le autorità debbano effettuare alcun tipo d'intervento.
Le risposte neo-keynesiane alla NMC sono state molteplici: pur mantenendo l'ipotesi di aspettative razionali, ma assumendo l'esistenza di rigidità nominali, risultano preferibili regole monetarie attive. L'esistenza di tali rigidità, anche se dovuta alle procedure contrattuali in uso nel mercato del lavoro, comporterebbe perdite secche di benessere e non sarebbe pertanto compatibile, secondo la NMC, con un comportamento ottimizzante degli agenti.
Il dibattito teorico di politica economica si è comunque spostato dal dilemma riguardante l'adozione di regole di politica economica in contrapposizione a discrezionalità pura da parte delle autorità, al problema di quale tipo di regola perseguire. È infatti possibile formulare modelli con aspettative razionali di tipo sia neo-keynesiano sia classico, dove regole monetarie anticicliche sono senz'altro superiori a regole fisse (''non contingenti'') e invarianti nel tempo. Dal punto di vista puramente logico, regole che prevedano un'espansione temporanea della domanda in fase di recessione e una contrazione in periodi di boom dovrebbero essere preferite a regole fisse. Anche nel caso in cui il paradigma della NMC dovesse rivelarsi come un'accurata rappresentazione della realtà, tali regole, al pari di qualsiasi altra regola, sarebbero neutrali. L'avversione a politiche attive da parte dei teorici della NMC si basa sul fatto che, in pratica, è difficile identificare gli shock a cui reagire; regole non rigorosamente fisse verrebbero inevitabilmente a iniettare addizionale incertezza nel sistema economico e a pregiudicarne il corretto funzionamento. Una riprova empirica è che presunte politiche anticicliche si sono rivelate procicliche ex post, con l'effetto di esacerbare, anziché ridurre, le fluttuazioni economiche. L'adozione di regole fisse può limitare l'evidente continuo ricorso alla discrezionalità che caratterizza le politiche economiche dei governi; regole attive possono fornire lo stesso grado di disciplina per le autorità solo in teoria ma non in pratica.
In sostanza, le implicazioni di politica economica derivate dalla NMC si sposano perfettamente con le idee di Friedman, che ne escono notevolmente rafforzate: politiche economiche attive non sono desiderabili al fine di stabilizzare l'economia neppure nel breve periodo. Il mantenimento di regole fisse raggiungerebbe invece il duplice scopo di favorire un corretto funzionamento dell'economia nel lungo periodo e di eliminare fluttuazioni transitorie indotte proprio da interventi attivi. Il ruolo delle autorità consisterebbe quindi nel formulare regole fiscali e monetarie fisse e nel controllare che esse vengano rigorosamente mantenute costanti nel tempo. È opportuno ribadire che anche tali prescrizioni di politica economica vengono derivate non tanto tenendo conto di risultati teorici ma anche, e forse soprattutto, in base a considerazioni sul modo in cui di fatto politiche economiche attive vengono interpretate e messe in atto dai governi.
Le politiche economiche ''monetariste'' degli anni Settanta e Ottanta. − Durante gli anni Settanta la politica monetaria di numerosi paesi (fra cui Germania Federale, Svizzera, Canada, Giappone, Stati Uniti e Gran Bretagna) ha cominciato a essere formulata in termini di tasso di crescita della quantità di moneta, accogliendo − almeno apparentemente − le idee monetariste. Nella conduzione pratica della politica monetaria, però, è emerso un problema generale riguardo alla particolare definizione di moneta da adottare come strumento. In sistemi finanziari sviluppati, infatti, numerose attività finanziarie possono svolgere la funzione di moneta (dal circolante ai depositi bancari di vario tipo fino ad attività che, pur non essendo mezzi di pagamento, posseggono caratteristiche di liquidità tali da essere considerate altamente sostituibili alla moneta vera e propria). Da ciò deriva una pluralità di aggregati monetari comprendenti serie più o meno ampie di attività finanziarie. La scelta dell'aggregato monetario di riferimento diventa perciò il primo problema da risolvere nella formulazione di una politica monetarista. A questo proposito, i teorici del m. offrono una soluzione pragmatica: dev'essere considerato moneta, ai fini della politica monetaria, quell'aggregato di attività che dimostra (sulla base dell'analisi dei dati storici) di essere più stabilmente correlato con il reddito nominale, vale a dire di possedere una stabile velocità di circolazione. Tuttavia, in periodi come quello qui considerato, caratterizzati da un processo continuo e generalizzato d'innovazione finanziaria (v. innovazione: Innovazione finanziaria, in questa Appendice), come creazione di nuovi strumenti finanziari e innovazioni nel sistema dei pagamenti, il requisito della stabilità della velocità di circolazione è posseduto in maggior misura da aggregati monetari ampi, comprendenti anche attività finanziarie il cui andamento è solo indirettamente influenzabile dalle autorità monetarie. Per tali aggregati, quindi, si riduce il potere di controllo da parte delle autorità, fondamentale per l'attuazione di una politica monetarista. L'esistenza di questo problema ha portato in alcuni casi al mancato rispetto dei tassi di crescita monetari annunciati e in altri all'adozione di obiettivi di crescita contemporaneamente per più aggregati monetari. Questa prassi, oltre a rendere più difficile un giudizio complessivo sulla politica monetaria, è stata criticata dagli stessi monetaristi, secondo i quali la precisione e la chiarezza dell'obiettivo monetario da rispettare sono elementi essenziali per la riuscita della politica.
I due esempi di politica economica che nel dibattito corrente vengono più insistentemente definiti monetaristi si riferiscono alla politica monetaria adottata dagli Stati Uniti nel periodo 1979-82 e alla politica economica del governo inglese dal 1980 al 1983. Nel caso degli Stati Uniti, venne abbandonato (ottobre 1979) il tasso d'interesse come oggetto principale di controllo da parte della banca centrale, sostituito dall'obiettivo del tasso di crescita della moneta, annunciato periodicamente. In Gran Bretagna, dal 1980, agli obiettivi di crescita monetaria, formalmente già adottati dal 1976, fu attribuita importanza centrale nel quadro complessivo della politica economica del governo. In entrambi i casi il fine ultimo delle autorità era la riduzione dell'inflazione, arrivata al 20% in Gran Bretagna all'inizio del 1980 e al 9% negli Stati Uniti nel 1979.
Nel corso degli anni seguenti, la crescita monetaria è stata ridotta rispetto al passato e mantenuta a un livello inferiore al tasso d'inflazione, con conseguente riduzione in termini reali della quantità di moneta in circolazione. L'inflazione ha subito una drastica riduzione, scendendo sotto il 5% in entrambi i paesi nel 1983. Tuttavia, il prezzo pagato in termini di ristagno della produzione e soprattutto di maggiore tasso di disoccupazione è stato elevato: esso infatti è passato dal 6 al 10% negli Stati Uniti dal 1979 al 1982, e dal 5,5 al 12,5% in Gran Bretagna dall'inizio del 1980 all'inizio del 1983. Tale tasso risulta certamente superiore alle aspettative dei teorici monetaristi.
La valutazione di questi ultimi sugli esperimenti ''monetaristi'' appena ricordati è pressoché unanime: i due episodi non si possono considerare validi test dell'efficacia delle politiche monetariste, in quanto i principi essenziali di tali politiche non sono stati rispettati. In particolare, i tassi di crescita degli aggregati monetari, lungi dall'essere mantenuti costanti, hanno mostrato un'elevatissima variabilità, riflessasi anche nella variabilità dei tassi d'interesse. Un'adesione più stretta ai principi monetaristi, comportando una maggiore stabilità degli aggregati monetari, avrebbe assicurato una riduzione (anche se più lenta e graduale) dell'inflazione con minori costi in termini di produzione e disoccupazione. I critici del monetarismo, invece, hanno visto negli stessi episodi una conferma sia delle difficoltà tecniche di attuazione di una politica basata su di un troppo rigido controllo della moneta, sia, visto l'effetto sui tassi d'interesse e sulle variabili reali, della sua improponibilità pratica.
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