CORELLA (Coreglia, Coriglia, da Valenza), Miguel (Micheletto, Michelotto)
Benché qualche storico abbia sostenuto, erroneamente, l'origine veneta, nacque in Spagna, a Valenza, da Juan da Corella, originario probabilmente della città dalla quale era denominato. Non si può ipotizzare la sua data di nascita poiché si ignora la sua età nel ristretto periodo - dagli ultimi anni del XV secolo al 1508 - in cui la sua attività è documentata. Il C. era un militare, tuttavia le sue mansioni presso Cesare Borgia, di cui era al servizio almeno dal 1497, erano qualcosa di più e di peggio di quelle di un soldato. Infatti la biografia del C. è soprattutto un elenco di crimini, da lui compiuti per incarico del padrone.
Il primo di cui si ha notizia è del 1500. Il 15 luglio di quell'anno fu ferito a Roma in piazza S. Pietro Alfonso d'Aragona, duca di Bisceglie, secondo marito di Lucrezia Borgia. Il malcapitato era allora divenuto inviso al cognato, passato ormai allo stato laicale e reduce dalla sua prima campagna nelle Romagne, e quest'ultimo fu sospettato di essere il mandante dell'aggressione. Ferito, pareva però avviato alla guarigione, quando, la sera del 18 agosto, si introdusse in casa sua il C., che ne estromise lo zio e un inviato napoletano che erano presenti, mentre la sorella e la moglie fuggivano alla ricerca di aiuto. Al loro ritorno trovarono il congiunto strangolato.
Era infatti questa la specializzazione del C., come testimoniò il Tedallini (Diario romano, p. 303), sostenendo che "questo officio de strangolare lo faceva Micheletto". Inoltre pare fosse uno dei pochi con i quali il Borgia, che lo stesso autore narra non volesse concedere udienza a nessuno, parlasse e trattasse. Tuttavia il C. assolveva anche a compiti militari; nel medesimo agosto fu inviato ad Orvieto, da cui erano stati esclusi Bartolomeo d'Alviano e Giampaolo Baglioni, e durante il soggiorno nella città non mancò di dimostrare la sua durezza, facendo mettere a morte parecchi cittadini. Verso la fine di quel medesimo anno il C. assolse ad un altro delicato incarico del padrone. Pare sia stato lui quel capitano "yspano" che rapì per Cesare Borgia Dorotea Malatesta, già destinata sposa di G. B. Caracciolo, capitano delle fanterie veneziane, che non la rivide fino agli inizi del 1504.
Con ogni probabilità il C. partecipò dall'inizio alla seconda campagna del duca Valentino contro le Romagne, cominciata nell'ottobre del 1500. Il Borgia ebbe immediatamente Pesaro e Rimini, ma dovette ritirarsi dal campo davanti a Faenza nei primi giorni di dicembre. Il C. rimase presso la città, come comandante del campo, dove nell'aprile del 1501 tornò il Valentino, poco prima che la città cadesse. Il C. seguì poi il duca quando questi, dopo la digressione verso Bologna e Firenze, si volse contro Piombino. Partito il Valentino per Roma verso la metà di giugno, il C. rimase all'assedio della città e quando questa si arrese il 3 settembre, i capitoli di resa furono stipulati con il C., definito luogotenente generale del Borgia. Essi contenevano anche la richiesta al duca che il C. rimanesse alla custodia e al governo di Piombino per qualche anno. Il C. assolse a questo compito almeno fino all'inizio dell'aprile del 1502. In quell'epoca infatti fu fatta da Genova al C. la richiesta di restituzione di alcuni beni sottratti da cittadini di Piombino, a certi sudditi genovesi.
Lascia un po' perplessi constatare che, lamentandosi per non avere ottenuto ciò che chiedevano, i Genovesi si dolessero di essere stati inutilmente intrattenuti "de die in diem dulcibus verbis". Pare invece molto più consono a un simile personaggio sentirlo definire "adirato... come un diavolo", come scrisse N. Machiavelli ai Dieci nel gennaio del 1501 quando il C. protestò con lui per l'intercettazione della sua corrispondenza con Piombino.
Nel giugno del 1502 il C. era sicuramente a Roma. Qui, con ogni probabilità, compì un altro dei suoi odiosi crimini: sotto la sua custodia uscirono infatti da Castel Sant'Angelo Astorre Manfredi e il fratellastro Giovanni Evangelista, che furono misteriosamente soppressi. In quegli stessi giorni il Valentino si accingeva all'impresa di Camerino, con l'animo rivolto però alla Toscana, dove Arezzo e la Val di Chiana si erano ribellati a Firenze. Con lui partì il C., se non è esatta la notizia (A. Giustinian, I, p. 25) secondo cui egli si sarebbe il 15 giugno imbarcato con alcuni fanti verso Pisa per favorirla contro Firenze.
Nel luglio comunque il C. si dirigeva con i fanti ed i cavalli leggeri al suo comando verso Camerino, caduta nelle mani del Borgia il 21 giugno. Dei medesimi giorni - 9 ottobre - in cui i condottieri si alleavano a La Magione contro il Borgia, e Urbino e Camerino si ribellavano, è l'uccisione del deposto signore di quest'ultima città, Giulio Cesare da Varano, che fu anch'essa attribuita al Corella.
In questo momento difficile per il padrone il C. gli rimase più che mai vicino, confermando peraltro la sua fama di uomo spietato. Avendo con Ugo di Moncada portato soccorso ai castellani di La Pergola e di Fossombrone, si impadronì delle due località e le mise a sacco con "gran crudeltà". Con Diego Ramires si accinse quindi a riconquistare Urbino con l'intenzione di mettere anch'essa a sacco. Essi furono però assaliti dai contadini, che li obbligarono a ritirarsi a Colmezzo, vicino a Fossombrone. Quiintervennero le truppe degli alleati di La Magione e inflissero ai due capitani del Valentino una sconfitta, che permise il rientro di Guidubaldo da Montefeltro in Urbino. In questo scontro il C. fu forse ferito e subito dopo si ritirò a Fano prima e poi a Pesaro. Accordatisi poco dopo i ribelli con il Borgia, il C. continuò ad essere vicino al duca, precedendolo ai primi di dicembre a Faenza.
Verso il 15 era a Fano con lui, che, a detta del Machiavelli, rivelò a pochi fedelissimi, fra cui il C. il suo progetto di impadronirsi dei comandanti, con cui, dopo la rappacificazione, era legato da un patto di difesa reciproca. Quando il duca arrivò a Senigallia, ove doveva mettersi in pratica il progetto, il 31 dicembre, il C. era accanto a lui e quando Oliverotto da Fermo rimase separato da Vitellozzo Vitelli, da Paolo Orsini e dal duca di Gravina, fu il C. a convincerlo a lasciare la cura delle truppe ed a congiungersi agli altri. E fu il C., sembra, ad incaricarsi dell'uccisione del Vitelli e di Oliverotto, strangolati poche ore dopo la cattura. Con un altro sicario, il 18 genn. 1503 strangolò e annegò Paolo e Francesco Orsini, a Pieve di Cento.
Il C. aveva inoltre il comando di 600 fanti e 100 cavalli leggeri. Mentre il successo tornava ad arridere al padrone, il C., prima di passare in Toscana, a Cagli, che aveva opposto resistenza alle truppe del Valentino, insieme a Ugo di Moncada fece pubblicamente impiccare il vescovo della cittadina, Gaspare Gulfi della Pergola, ritenuto colpevole di aver incitato gli abitanti alla resistenza. Nel febbraio, mentre il duca era a Viterbo, il C. fu inviato contro Mugnano, che conquistò, e contro Vitorchiano, che mise a sacco, dopo averla avuta per accordo. In seguito alla strage di Senigallia era intanto scoppiata la guerra fra gli Orsini e il papa, che ne affidò al figlio il comando. Mentre il Valentino si recava a Roma, il suo esercito, al comando di Ludovico della Mirandola, di Ugo di Moncada e del C., rimase ad assediare Ceri, castello degli Orsini, che cadde l'8 aprile. Nel giugno il papa concedeva al C., che da Cesare era stato fatto signore di Montegridolfo, l'ufficio di corte Savella, facendo commentare ad Antonio Giustinian (II, p. 42) che in quella corte si andava "di malo in peius".
All'inizio del medesimo mese il C. aveva compiuto un altro degli incarichi che usava affidargli il Valentino, strozzando l'antico segretario di Alessandro VI, Francesco Troccio, che, divenuto inviso al papa e al figlio, era stato catturato in Corsica, dove si era rifugiato, e condotto di nuovo a Roma. Il crimine fu compiuto in una torre di Trastevere, testimone non visto il duca Valentino.
Verso la fine di luglio il C. dette prova della sua durezza con le truppe a lui sottoposte: due capi di "stradiotti" avevano infatti preso licenza dall'esercito ducale, non volendo dipendere da lui: furono raggiunti e fatti a pezzi.
Alla morte di Alessandro VI, mentre Cesare giaceva ammalato e prima che il decesso fosse annunciato ufficialmente, il C., per conto del Valentino, si precipitava nelle stanze pontificie ottenendo, con la minaccia di sgozzarlo e di defenestrarlo, le chiavi dal card. Giacomo Casanova. Penetrato nell'appartamento e chiuse le porte di accesso, il C. ne asportò una gran quantità di argenti e 100.000 ducati.
Nei conati e nelle indecisioni del Borgia, durante la vacanza, mentre il suo dominio in Romagna si andava disfacendo e mentre le fazioni dei Colonna e degli Orsini spadroneggiavano in Roma, al C. fu affidato l'incarico di introdurre armati in Borgo e di forzare - senza peraltro riuscirvi - porta S. Pancrazio per penetrare in Trastevere. Tornato a Roma il duca il 3 ottobre da Nepi, durante il breve pontificato di Pio III, il C. si fermò a Soriano con le truppe rimaste.
Appena eletto, Giulio II manifestò il desiderio di "meter le mano" sul C., che il 24 novembre da Bolsena, dove si era portato, scriveva alla Signoria di Firenze per ottenerne il permesso di passaggio nelle sue terre, ma la Signoria non aveva alcuna intenzione di accordarglielo. Stava con 200 cavalli leggeri quando fu catturato vicino a Castiglion Fiorentino.
Si sparse anche la voce che fosse stato ucciso, dopo essere stato legato ad un albero e "saetato con freze". Fu invece condotto in un primo momento a Cortona e quindi a Firenze. La notizia fece felice il papa, "parendoli avere per la presura di costui occasione di scoprire tutte le crudeltà di ruberie, omicidi, sacrilegi e altri infiniti mali che de undici anni in qua si sono fatti ad Roma contro Iddio e li uomini" (N. Machiavelli, Legazioni e commissarie, II, p. 702). Immediatamente dopo il pontefice fu preso dalla smania di averlo a Roma e lo richiese insistentemente a Firenze. Nella terza decade di dicembre il C. giunse nell'Urbe con la scorta di venticinque o cinquanta balestrieri e fu rinchiuso in Castel Sant'Angelo. Sembrerebbe che in seguito il C. sia stato detenuto a Soriano, poiché più di una fonte riferisce che fu riportato a Roma il 21 maggio e rinchiuso in Tor di Nona.
Subito dopo iniziò il processo ed egli fu interrogato oltre che sugli omicidi cui si è già accennato, anche sull'uccisione del duca di Gandia, per cui si era sospettato anche del fratello Cesare, sull'impiccagione di Venanzio e Ottaviano da Varano, avvenuta nel febbraio dell'anno prima, e su vari altri omicidi, fra cui quello di Bernardino Caetani di Sermoneta. Quale fu la conclusione del processo non è noto, né si sa se il C. scontò qualche pena. Evidentemente egli era depositario di tali segreti che non si volle, ad onta delle precedenti dichiarazioni del papa, andare a fondo alle accuse. Forse scontò una qualche pena detentiva, perché non si hanno notizie di lui fino alla primavera del 1506.
Già dalla fine dell'anno precedente N. Machiavelli stava mettendo in opera l'Ordinanza. F. Guicciardini ci dà notizia che il gonfaloniere di Firenze avrebbe voluto dare al C. il comando dell'Ordinanza e per far questo aveva deliberato di farlo prima bargello del contado. Da un sondaggio, fatto effettuare dal Machiavelli, Piero Soderini capì però che questo progetto non avrebbe avuto l'approvazione dei Dieci; pertanto portò la questione davanti agli Ottanta, ottenendo che il C. venisse assunto il 1° apr. 1506.
La decisione provocò reazioni negative; si sospettò che essa fosse "fondata su qualche cattivo disegno" e che dovesse servire "o per desiderio di occupare la tirannide o... per levarsi dinanzi e' cittadini inimici sua" (F. Guicciardini, Storie fiorentine, p. 281). Ma questa era la voce degli oppositori, raccolta e amplificata oggi da C. Dionisotti, che ha dato inizio ad una accesa polemica sui segreti pensieri che avrebbero indotto il Soderini, o meglio Niccolò Machiavelli, ad assumere un uomo, circondato dalla fama di "uomo crudelissimo". Se, come hanno autorevolmente confutato G. Sasso ed E. Gusberti, si deve respingere l'ipotesi, non sufficientemente provata, del Dionisotti, dell'intenzione di N. Machiavelli di sovvertire la Repubblica, si deve pensare che quella dell'attitudine al crimine non fosse la sola fama del C.: egli doveva essere ritenuto un buon comandante - intendendo per buono capace di ottenere dai suoi uomini quello che si proponeva - e buon organizzatore. Inoltre bisogna tenere presente che il C. non era nuovo al tentativo di trasformare in soldati gli abitanti del contado, avendo C. Borgia compiuto questo esperimento in Romagna.
Nel giugno 1506 al C. veniva dato l'incarico di recarsi con la sua compagnia di 100 uomini contro i Pisani, soprattutto perché costoro facevano "poco conto" dei fanti fiorentini. Il C. quindi doveva "infondere", per usare le parole di P. Villari (Niccolò Machiavelli, I, Milano 1927, p. 467) "il nuovo spirito militare nel giovane esercito fiorentino". Con la stessa provvisione del 6 dic. 1506, che creava l'istituto dei Nove, preposti alla milizia, fu istituita la carica di capitano di guardia del contado e distretto di Firenze, che doveva avere alle sue dipendenze 30 balestrieri a cavallo e 50 provisionati; questa carica fu attribuita al C. il 7 febbr. 1507. Gli si ordinò quindi di trasferirsi in Mugello, dove il suo compito era di "andare ad tomo", reprimendo tutti gli "scandoli" che accennassero a sorgere, e di impedire qualsivoglia "ragunata", arrestando i convenuti e inventariando i beni di coloro che si sottraessero all'arresto fuggendo.
Il carattere tipicamente poliziesco dei suoi compiti era accentuato dalla commissione particolare di cercare di impadronirsi di due di cui erano specificati i nomi e non le colpe. Nel giugno fu inviato a Decomano, dove un uomo era rimasto ucciso e quattro feriti; i responsabili del disordine si erano rifugiati in una località vicina, chiamata Villa, e dovevano essere arrestati e dispersi.
Nell'agosto il C. era in Romagna e - come sempre accadeva ai militari e non solo a loro - si raccomandava perché gli inviassero le paghe. Le sue lettere, dirette al Machiavelli, che era segretario dei Nove, da cui dipendeva direttamente il C., non sembrano mostrare alcuna insofferenza o manifestazione di scontento, ma i rapporti fra lui e la Repubblica non erano più buoni, tanto che nell'ottobre egli fu licenziato. Le ragioni ci sono ignote, ma P. Parenti (P. Villari, Cit., I, p. 527) commentò che sarebbe stato meglio piuttosto "torli segretamente la vita", tanto da nemico lasciava l'incarico. Comunque il C. non ebbe tempo per fare - se mai avesse potuto tentarlo - alcuna ritorsione, perché nel febbraio 1508 veniva ucciso da alcuni suoi compatrioti a Milano, mentre usciva da casa dello Chaumont. Terminava così coerentemente la sua vita di violenza.
Fonti e Bibl.: G. Canestrini, Documenti per servire alla storia della milizia ital., in Arch. stor. ital., XV (1851), pp. 410-13, 416, 418 s.; A. Giustinian, Dispacci, I-III, Firente 1876, ad Indicem;M. Sanuto, Diarii, III-VI, Venezia 1880-1881, ad Indices; F.Guicciardini, Storie fiorentine, a cura di R. Palmarocchi, Bari 1931, pp. 281, 283; N. Machiavelli, Descriz. del modo tenuto dal duca Valentino..., in Arte della guerra e scritti politici minori, a cura di S. Bertelli, Milano 1961, pp. 45, 47; Id., Legazioni e commissarie, a cura di S. Bertelli, Milano 1964, ad Indicem; Ephemerides Urbevetanae..., in Rer. Ital. Script., 2 ed., XV, s, II, a cura di L. Fumi, pp. 192, 224, 237; S. di Branca Tedallini, Diario romano, ibid., XXIII, 3, a cura di P. Piccolomini, pp. 234, 298, 303 s., 309; G. Priuli, I diarii, ibid., XXIV, 3, 11, a cura di R. Cessi, pp. 108, 237; I. Burchardi Liber notarum, ibid., XXXII, 1, a cura di E. Celani, ad Indicem;L. Fumi, Alessandro VI e il Valentino in Orvieto, Siena 1877, pp. 41, 47; E. Alvisi, Cesare Borgia duca di Romagna, Imola 1878, pp. 20 ss., 327, 330, 358, 370, 382, 402, 424, 432, 437; O. Tommasini, La vita e gli scritti di N. Machiavelli, I, Roma-Torino-Firenze 1883, ad Indicem;A. Lisini, C. Borgia e la Repubblica senese, in Bull. senese di storia Patria, VII (1900), pp. 124 s., 128, 130, 135, 137 s.; F. Gregorovius, Storia della città di Roma, IV, Roma-Torino 1902, pp. 127, 134, 136 s., 341 s., 354; W. H. Woodward, C. Borgia, London 1913, pp. 180, 207, 253, 261, 267, 275, 297, 323, 340, 354; C. Dionisotti, Machiavelli, Cesare Borgia e don Micheletto, in Riv. stor. ital., LXXIX (1967), pp. 965-68 ed ora in Machiavellerie, Torino 1980, pp. 3-59; G. Sasso, Ancora su Machiavelli e C. Borgia, in La Cultura, VII (1969), pp. 9 s., 20-23, 26-29 (con ulteriore bibl.); C. Dionisotti, Machiavellerie, in Riv. stor. ital., LXXXII (1970), pp. 309-14; E. Gusberti, C. Borgia in Machiavelli, in Bull. dell'Ist. stor. ital. per il Medio Evo, LXXXV (1974-1975), passim;G. Sasso, Machiavelli, Cesare Borgia, don Micheletto, in Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Roma 1980.