migrazione
Spostamento di persone da un luogo a un altro in seguito al quale gli individui modificano la propria dimora abituale. Il movimento può essere da uno Stato all’altro (m. internazionale) o da un’area geografica all’altra all’interno dello stesso Paese (m. interregionale o interna).
Si possono distinguere due momenti della m.: l’emigrazione (➔), cioè l’allontanamento dal luogo di provenienza, e l’immigrazione (➔), cioè il processo di insediamento nella sede di destinazione. Secondo il Rapporto sullo sviluppo umano del 2009, pubblicato dall’United Nations Development Programme (➔ UNDP), la maggior parte di coloro che emigrano lo fa all’interno del proprio Paese. Si calcola che i migranti interni e internazionali nel 2010 siano stati pari rispettivamente a circa 740 e 200 milioni di persone. Tra questi ultimi, solo un terzo si è spostato da un Paese in via di sviluppo a uno sviluppato, mentre la gran parte delle m. ha riguardato movimenti tra Paesi in via di sviluppo o tra Paesi sviluppati. Negli ultimi 50 anni del 20° sec., il tasso di m. internazionale (numero di persone che risiedono in un Paese diverso da quello natale diviso per la popolazione mondiale) si è mantenuto stabile intorno al 3%. Le m. possono essere individuali, familiari e per gruppi.
Le ragioni della m. sono molteplici. Nel passato erano prevalentemente legate a fattori climatici e naturali quali carestie o calamità atmosferiche, a pestilenze o a guerre. Più recentemente, la causa della m. è generalmente di natura economica. In questo caso la decisione di migrare è determinata da differenze economico-demografiche tra il luogo di origine e quello di destinazione, può quindi essere considerata come una forma di investimento in capitale umano, secondo la quale i lavoratori calcolano il valore delle opportunità di occupazione nei Paesi di destinazione al netto dei costi di trasferimento (spese correnti sostenute per il trasferimento e costi psicologici) e scelgono l’opzione che massimizza il valore attuale dei guadagni nel ciclo di vita.
La m. può assumere diverse forme. Può essere temporanea, se il migrante rimane nel Paese di destinazione per un periodo limitato, oppure permanente, se l’abbandono del Paese di origine è definitivo. La m. temporanea può essere circolatoria, quando l’individuo si muove frequentemente tra il Paese di origine e quello di destinazione, per es. nel caso della m. per lo svolgimento di lavori stagionali nel settore agricolo. La m. è transitoria se il migrante si muove attraverso diversi Stati prima di raggiungere la destinazione finale, mentre è contrattuale quando la sua durata è determinata esogenamente dalla lunghezza del contratto di lavoro o del permesso di soggiorno. Si parla di m. di ritorno con riferimento agli individui che fanno rientro volontariamente al loro Paese di origine dopo avere trascorso un certo periodo nel Paese ospite. La m. internazionale produce conseguenze economiche e sociali di ampia portata sia per il Paese di origine sia per quello di destinazione. Per il primo il principale beneficio è legato alle rimesse che, nel caso dei migranti provenienti da Paesi in via di sviluppo e immigrati in Paesi sviluppati, portano valuta pregiata all’interno dell’economia dei Paesi di origine, incrementando il reddito dei residenti. Inoltre, nel caso della m. di ritorno, il lavoratore che rientra trasferisce nel Paese di origine le competenze acquisite nel Paese di destinazione. Il maggiore costo è legato alla perdita di risorse umane, soprattutto nel caso i migranti siano altamente qualificati (➔ cervelli, fuga dei). Gli effetti della m. sul Paese di destinazione si manifestano principalmente sul mercato del lavoro e sullo stato sociale e dipendono da vari fattori, per es. il grado di sostituibilità/complementarietà rispetto ai lavoratori nativi o il fatto che i migranti siano beneficiari o contributori netti dei trasferimenti di carattere sociale.
In Europa la m. interna è stata molto elevata nel corso del 20° sec.; tra gli anni 1950 e 1970 i Paesi di emigrazione sono stati soprattutto quelli del Sud (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna), mentre verso la fine del 20° sec. il fenomeno ha riguardato principalmente i Paesi dell’Est. L’Italia è stata tradizionalmente un Paese di emigrazione, che si è rivolta in un primo momento (a cavallo tra il 19° e il 20° sec.) specialmente verso Paesi extraeuropei, quali gli Stati Uniti e l’America Latina, e, tra il secondo dopoguerra e gli anni 1970, verso Paesi europei, quali il Belgio e la Germania. Dagli anni 1990 l’Italia è divenuta invece Paese di immigrazione. Dal secondo dopoguerra è stata inoltre caratterizzata da una elevata mobilità interna, dal Sud e dal Nord-Est verso il più industrializzato Nord-Ovest. Alcuni studi si sono concentrati sulla riduzione dei flussi migratori Sud-Nord dalla fine del 20° sec., nonostante la persistenza di differenziali di reddito e di opportunità lavorative. Ricerche empiriche hanno spiegato tale fenomeno alla luce del divario del costo della vita e delle abitazioni, della maggiore presenza di lavori informali e di esternalità familiari al Sud che scoraggiano la mobilità (➔).