METTERNICH-WINNEBURG, Klemens Wenzel Lothar, conte, poi principe di
Nacque a Coblenza il 15 maggio 1773 da Francesco Giorgio, che appunto in quell'anno entrava al servizio diplomatico dell'Austria, e da Maria Beatrice Kagenegg.
Ebbe per precettore G. F. Simon, di Strasburgo, seguace di Basedow, che finì giacobino e terrorista. Inviato a studiare nell'università di Strasburgo (1788), M. contò tra i suoi professori Cristoforo Guglielmo Koch, convinto assertore del principio dell'equilibrio delle potenze; e a Strasburgo rivelò per la prima volta il suo orrore istintivo della rivoluzione, quando, il 21 luglio 1789, vide la plebaglia assalire e demolire il palazzo municipale. Andò a compiere i suoi studî all'università di Magonza, dove gli fu di conforto e di sprone la parola del professore di storia Nicola Vogt, che gli fu sempre affezionato. Intanto il padre veniva nominato governatore dei Paesi Bassi, e Klemens lo seguì a Bruxelles. Si reagiva allora all'indirizzo troppo accentratore di Giuseppe II e M. conservò sempre traccia di questa esperienza nelle sue idee sulla politica interna austriaca. In seguito all'invasione francese, dovette fuggire a Coblenza, ma, respinti i Francesi, poté tornare a Bruxelles. La decapitazione di Maria Antonietta gl'ispirò un caldo, violento proclama alle truppe austriache contro i Francesi. Difese in una memoria anonima (agosto 1794) il disegno del padre di armare il popolo belga contro gli invasori. Visitò nello stesso anno l'Inghilterra. Era destinato ministro a L'Aia, ma l'occupazione francese del Belgio e dell'Olanda l'obbligò a rifugiarsi prima a Düsseldorf, poi a Vienna. La situazione della famiglia M. divenne grave: confiscati i suoi beni renani, i possessi boemi non erano sufficienti a mantenerla. Klemens, sposando per volere della madre la ricca principessa Eleonora von Kaunitz, nipote del cancelliere, ristabilì la fortuna della sua casa e s'introdusse nell'alta società viennese (27 settembre 1795), lasciandosi prendere dalla passione per le scienze e affermandosi di nuovo più come uomo di mondo che come diplomatieo (1797-1798).
La carriera diplomatica del M. cominciò veramente nel 1801. Offertegli le missioni di Copenaghen, di Dresda e di Ratisbona, preferì Dresda, redigendo egli stesso le sue istruzioni. Dresda era un buon punto d'osservazione sulle corti del nord, ma non vi era da fare molto. A Berlino, dove venne trasferito nel 1803, M. poté rivelare finalmente le sue grandi doti: massima, una scaltrissima abilità negoziatrice, fondata sulla profonda conoscenza degli uomini e delle cose. Sebbene non gli sfuggisse che la Prussia non fosse più quella di Federico II, riteneva utile che partecipasse con l'Austria e con la Russia a una grande lega dell'Europa orientale per arginare l'espansionismo napoleonico, ormai impostosi quasi a tutta l'Europa occidentale. Unica molla del gabinetto prussiano gli sembrava la paura: che però non l'Austria, ma la Russia poteva incutergli. Bisognava quindi lasciar operare allo scoperto la diplomazia russa secondandola coi proprî consigli, e intervenire apertamente solo al momento giusto. La tattica riuscì. Il 3 novembre 1805 fu firmato il trattato di Potsdam, reso però vano dal brusco voltafaccia del ministro prussiano Haugwitz, dopo la battaglia d'Austerlitz.
Destinato a Pietroburgo, M. andò invece a Parigi nel 1806, su richiesta di Napoleone. M. avversava Napoleone, perché incarnava la rivoluzione e perché, agitato dalla volontà di potenza, aveva violato la legge sacra d'Europa, l'equilibrio delle potenze; ma, nel tempo stesso, non v'era uomo ch'egli stimasse più di lui, né vi fu impresa, di cui maggiormente si compiacesse la sua vanità, quanto quella d'averlo combattuto e vinto. Lo riteneva insuperabile nel comprendere gli uomini; sentiva il fascino della sua conversazione, egli che pure era un conversatore senza eguali. Apprese da Napoleone l'arte di padroneggiare l'opinione pubblica e quella di governare un grande stato. Ma trovò in lui un negoziatore duro e prepotente. Nonostante tutti i suoi sforzi, nulla poté ottenere nella delimitazione dei confini dell'Austria col regno d'Italia e dovette firmare la convenzione di Fontainebleau (10 ottobre 1807). Soddisfatto di ciò, Napoleone divenne amabilissimo e cominciò a parlare a M. della futura spartizione dell'impero turco, alla quale avrebbe voluto partecipe anche l'Austria. M., in massima, era contrario a questo progetto, ma, poiché vedeva che l'Austria non avrebbe potuto impedirne l'attuazione, credeva buona politica partecipare a quella spartizione, uscendo dall'isolamento ed entrando nel concerto franco-russo. La politica iberica distrasse Napoleone dalla questione d'Oriente; e allora i rapporti tra la Francia e l'Austria s'inasprirono sempre più, perché l'Austria si preparava alla riscossa sotto la guida di Stadion. Napoleone ne era informato, e il 15 agosto 1808 fece a M. una delle sue più celebri sfuriate. M. ricevette il colpo con flemma, ben comprendendo che Napoleone voleva terrorizzare l'Austria nel momento in cui subiva gravi rovesci in Spagna. Ma allarmato dal convegno di Erfurt, M. volle andare a Vienna per rendersi conto delle cose. Vi trovò un'atmosfera bellicosa, un entusiasmo mai visto. L'Austria si accingeva a combattere la Francia con le sue stesse armi, le armi morali, chiamando i popoli a raccolta. Neppure M. era contrario alla guerra: Napoleone stava per impegnarsi a fondo in Spagna; in Francia si veniva formando una forte opposizione borghese stretta attorno a Talleyrand e a Fouché, coi quali M. era in rapporti; al convegno di Erfurt, Talleyrand aveva constatato l'insincerità dell'alleanza franco-russa e aveva detto allo zar Alessandro una buona parola per ravvicinarlo all'Austria. Il calcolo delle probabilità, anche fatto freddamente, tornava. Rientrato a Parigi, M. tentò invano di dissipare i sospetti di Napoleone, che, provocato dall'Austria, piombò sull'arciduca Carlo in Baviera e iniziò quella campagna del 1809, che fu una delle sue più difficili. Sebbene la guerra fosse stata dichiarata in aprile, M. solo il 26 maggio poté ritornare a Vienna, già occupata dai Francesi. Dopo la disfatta di Wagram, ebbe il compito di negoziare col vincitore ad Altenburg; ma Napoleone pretese dall'imperatore Francesco un negoziatore più arrendevole, il principe di Liechtenstein. Così M. non solo fu messo da parte, ma costretto a firmare, da ministro degli affari esteri, un trattato, alla cui compilazione era estraneo (14 ottobre 1809).
La situazione dell'Austria era tragica: circondata da stati soggetti a Napoleone, priva d'ogni sbocco al mare, senza finanze, senza esercito. In tale occasione, M. rivelò la sua grandezza d'animo. Col matrimonio di Maria Luisa con Napoleone, affrontò coraggiosamente l'impopolarità, ma assicurò all'Austria quel respiro che era necessario per la ricostruzione e la riscossa (aprile 1810). Si recò egli stesso a Parigi, e ottenne molte facilitazioni per il pagamento delle indennità di guerra e per il prestito che dovette contrarre l'Austria. Non poté tuttavia carpire a Napoleone né la restituzione delle provincie illiriche, né il permesso di portare l'esercito al di là della cifra stabilita nel trattato di pace. Dovette poi convincersi, quanto ai segreti progetti dell'imperatore, che "l'aspiration à la domination universelle est dans la nature même de Napoléon, elle peut être contenue, mais iamais on ne parviendra à l'étouffer" (28 luglio 1810). Napoleone oltrepassava così i limiti del possibile, la sua fortuna non poteva durare. Ma quando e come sarebbe caduto? Nell'attesa che il tempo sciogliesse questi enigmi, M. faceva buon viso a cattivo gioco, e cercava di cavare qualche utile dall'ambizione di Napoleone, secondandola. Napoleone andava allora meditando la guerra contro la Russia: voleva opporsi a ogni ulteriore avanzata dello zar oltre il Danubio e restaurare il regno di Polonia. Per questo regno aveva bisogno della Galizia austriaca; in cambio della quale avrebbe forse reso all'Austria le provincie illiriche e dato il nulla osta per il protettorato sulla Serbia. Il cambio probabile non spiacque a M. L'Austria si sarebbe riaffacciata al mare, rompendo il cerchio in cui era rinchiusa. Perciò, tornato a Vienna, troncò ogni trattativa con lo zar che offriva alleanza e si diede tutto all'opera di ricostruzione interna. Ispirandosi a idee del Kaunitz, diede una nuova organizzazione alla Cancelleria; con l'opera del Bellegarde, presidente del Consiglio aulico di guerra, rimise in efficienza l'esercito, e con quella del conte di Wallis risanò le finanze. Meditava di dare all'Austria una salda unità statale, che prendesse corpo in una grande istituzione, il Consiglio dell'impero, modellato in gran parte sul Consiglio di stato napoleonico (1811). Tutto ciò non venne effettuato senza grandi difficoltà. L'imperatrice Maria Ludovica e gli arciduchi Giovanni e Giuseppe da un lato, la classe colta austriaca dall'altro, osteggiavano il ministro, che ai loro occhi aveva umiliato gli Asburgo con l'alleanza francese e sacrificato Maria Luisa al Minotauro. Lotta senza quartiere, da ambo le parti. Avute in mano lettere dell'imperatrice e dell'arciduca Giuseppe contenenti critiche al sistema di governo vigente, M. li fece cadere in disgrazia presso l'imperatore (13 agosto 1812). Intanto rompeva i ponti con l'intelligenza austriaca, che aveva sorretto moralmente i regni di Maria Teresa e di Giuseppe II. E si aprì tra loro un abisso che non si sarebbe mai più colmato. Negl'intellettuali si foggiò la figura odiosa d'un M. puro politico, puro diplomatico, privo della luce e della fiamma dell'ideale; in M. si formò la convinzione che essi erano i poeti, i sognatori, che conducono a cuore leggiero gli stati alla rovina, ed egli era la prosa, la nuda, secca, ma solida e fattiva prosa. L'unico suo sostegno era l'imperatore Francesco, che lo secondava con piena fiducia.
E che l'Austria, sotto la guida di M., andasse riprendendo rapidamente vigore, si vide all'inizio della campagna di Russia. Con il trattato del 14 marzo 1812, egli accordava sì 30.000 uomini a Napoleone, ma a condizione - accettata da un trattato di controassicurazione anche dalla Russia - che le due potenze belligeranti rispettassero l'inviolabilità e la neutralità del territorio austriaco. Posizione assai singolare, che dimostra come l'Austria fosse ridivenuta una forza tale da meritare i riguardi dei due colossi europei. Ma il capolavoro di strategia diplomatica del M. fu la politica delle nuances intermédiaires (A. Sorel), dopo il fallimento della campagna di Russia, che egli non aveva preveduto. Alleato di Napoleone, per cominciare a sciogliersi da questo legame e riacquistare la completa libertà di movimento, M. gli propose la mediazione dell'Austria presso le potenze coalizzate e gli chiese la facoltà di aumentare l'esercito austriaco. Napoleone accettò, e M., firmato con i Russi l'armistizio di Freyes (30 gennaio 1813), inviò Lebzeltern presso lo zar Alessandro e Wessenberg presso Castlereagh (marzo 1813). Per dimostrare intanto la fedeltà agl'impegni con la Francia, egli sventò senza pietà una congiura per sollevare il Tirolo, in cui fu coinvolto l'arciduca Giovanni. Ma la mediazione fu declinata tanto dall'Inghilterra, che temeva un tranello, quanto dallo stesso Napoleone, allorché capì che essa si trasformava in una vera e propria mediazione armata. Nondimeno, questa mediazione dovettero finire con accettarla tanto gli alleati (trattati di Reichenbach, 23-27 giugno 1813) quanto Napoleone (colloquio di Dresda, 30 giugno). Si venne così al congresso di Praga. Terminata la commedia di Praga, l'Austria, da buona mediatrice armata che non vede accolte le sue proposte, dichiarò guerra alla Francia (12 agosto).
E così M., attraverso le più impeccabili forme giuridico-diplomatiche, seppe passare gradualmente dall'alleanza alla guerra con Napoleone, intervenire al momento giusto e vendere assai caro il suo intervento. Infatti a poco a poco egli capovolse la politica degli alleati: la diplomazia inglese nella Penisola Iberica e in Italia e la diplomazia russa in Germania avevano chiamato i popoli alla riscossa ed erano orientate verso la politica delle nazionalità; M. si appellò invece ai re e finì con l'imporre le sue vedute all'Inghilterra e alla Russia. Conchiuse poi una serie di trattati con i principi tedeschi; ciò che servì a strappare alleati a Napoleone e sventare tutti i piani dello zar Alessandro e di Stein, l'apostolo del nazionalismo tedesco. Anche con il Murat concluse un'alleanza (11 gennaio 1814) e fece sconfessare da Castlereagh lord Bentinck, che predicava l'indipendenza italiana. Il quale Castlereagh, che nel 1813 aveva cercato di fondare i suoi piani di ricostruzione europea principalmente sull'alleanza russa, finì con l'appoggiarsi invece su M. e risentirne spesso le suggestioni. Anche il modo di guerreggiare moralmente contro Napoleone, offrendogli condizioni di pace che si sapeva egli non avrebbe accettato, si deve a M., che riuscì così a staccare Napoleone dal popolo francese. Mentre declinava però l'egemonia napoleonica, spuntava quella russa: e M. la combatte con non minore vigore. Lo zar non voleva violare la neutralità della Svizzera, e M. la faceva violare; lo zar voleva marciare su Parigi e M. si opponeva; lo zar lasciava travedere i suoi disegni sulla Francia, sulla Germania e sulla Polonia e M. sorgeva a contrariarli. Il dissidio era così forte, che avrebbe frantumata la coalizione, se Castlereagh non fosse intervenuto e non fosse giunto a stringere in lega le quattro grandi potenze europee (grande alleanza: trattato di Chaumont del 1° marzo 1814). Tuttavia a M. si deve se quell'atto memorando fu ristretto alle sole grandi potenze, escludendo le potenze minori, che sarebbero potute gravitare nell'orbita inglese o russa.
Vinto Napoleone, M. inaugurò a Vienna l'epoca dei grandi congressi, nei quali egli attuò perfettamente il suo ideale di diplomazia e grande vita di società, fuse insieme. Non era ancora l'arbitro dell'Europa: dovette sostenere lotte durissime contro lo zar Alessandro per la Polonia, contro Hardenberg per la Sassonia, contro Talleyrand per la restaurazione dei Borboni in Italia. L'unico suo appoggio era Castlereagh, ma anche lui spesso agiva più da mediatore e da conciliatore degli opposti interessi, che da alleato. Tuttavia, se la Russia e la Prussia pervennero a ingrandirsi più di quello che M. desiderasse, egli riuscì però a dare all'Italia e alla Germania un assetto tale da prepararvi un'assoluta egemonia austriaca. E se l'Austria perdette i Paesi Bassi, ebbe in compenso territorî che ne fecero una massa più compatta e omogenea. In tutto ciò M. si rivelò più grande austriaco che grande europeo: Alessandro, che ideò la Santa Alleanza (26 settembre 1815), e Castlereagh, che fece rinnovare a Parigi la Grande Alleanza (20 novembre 1815), sono in quest'epoca molto più europei di lui. Egli era allora ossessionato dal pericolo russo, che non era in verità una chimera. Contro la Russia, M. vagheggiò l'alleanza inglese, ma Castlereagh rifiutò (24 maggio 1817) e preferì la via maestra, che era quella di chiarire, al congresso di Aquisgrana, le posizioni reciproche delle grandi potenze. Ad Aquisgrana la Francia fu ammessa nel concerto europeo, ma si ritenne prudente la persistenza della Quadruplice nella Quintuplice alleanza, per ovviare all'eventualità d'una riscossa rivoluzionaria francese: e con ciò sfumò il pericolo d'un'alleanza particolare tra la Russia e le Corti borboniche. Declinando poi l'astro dello zar, M. si decise a sferrare una vigorosa offensiva in Germania per affermarvi l'egemonia austriaca, profittando dell'agitazione liberale universitaria e soprattutto dell'assassinio di Kotzebue. Il re di Prussia abbandonò ogni velleità liberaleggiante e aderì alle misure repressive proposte da M. nel convegno di Teplitz (30 luglio 1819). A Karlsbad e a Vienna, in una serie di conferenze, M. riuscì a trarre alle sue idee tutti gli altri stati tedeschi; e il 14 maggio 1820 poté scrivere all'imperatore: "L'Autriche n'aura qu'à prononcer une parole pour qu'elle ait dans toute l'Allemagne l'autorité d'une loi inviolable". La rivoluzione napoletana del 1820 gli aprì la via per ottenere lo stesso risultato in Italia. Nei congressi di Troppau e di Lubiana, egli fece della questione napoletana una questione europea di conservazione sociale, operò la conversione di Alessandro e toccò il culmine della sua fortunosa carriera. Alessandro era finalmente vinto come Napoleone; la Germania e l'Italia erano in balìa dell'Austria e il M. quale controrivoluzionario, si trasformava da austriaco in europeo e trovava nella solidarietà conservatrice la piattaforma sulla quale costruire la pace tra le potenze.
Il congresso di Verona fu la prova del fuoco dei principî di M., ed egli la superò brillantemente e seppe mantenere alla sua politica una linea d'impeccabile coerenza. Nell'atto stesso però che egli guadagnava la Francia dandole carta bianca in Spagna, perdeva l'Inghilterra. Per M. la colpa fu di Canning, ma in realtà Canning non faceva che svolgere motivi d'opposizione che spuntavano già in Castlereagh. Dove Canning realmente rovesciò le posizioni del suo predecessore, fu nella questione d'Oriente. Dal congresso di Vienna a quello di Verona, M. aveva sviato dall'Oriente, con abili manovre, lo zar Alessandro; ma Canning seminò contro di lui dipendenze a Pietroburgo e giunse ad accordarsi col nuovo zar Nicola sulla Grecia (4 aprile 1826) e a trarre nell'accordo anche la Francia (6 luglio 1827). Invano M. tentò di abbattere con tutti i mezzi il suo avversario. Canning trionfò d'ogni ostacolo e mantenne M. diplomaticamente isolato. Battuto dappertutto, era ora afflitto anche dalle prime inquietudini che gli dava il nascente nazionalismo magiaro. La morte di Canning gli procurò grande gioia, ma non riuscì né a impedire a Nicola di dichiarare la guerra alla Turchia, né a spezzare la triplice filo-ellena e non gli restò altro che dichiarare la neutralità dell'Austria. La rivoluzione di luglio in Francia fu per lui una mezza fortuna. La sua profezia, che la rivoluzione sarebbe tornata alla riscossa, si avverava. I dissapori con la Russia sparvero d'incanto; con Nesselrode, abbozzò un accordo per impedire il dilagare di quella rivoluzione (chiffon di Karlsbad, agosto 1830). Nondimeno, occupato lo zar a domare la Polonia, aliena la Prussia dalla guerra, postasi la nuova Francia sotto le grandi ali dell'Inghilterra, M., non volendo ripetere l'errore del 1791 di provocare quest'ultima, dovette riconoscere Luigi Filippo come re dei Francesi e Leopoldo come re dei Belgi; due strappi al Congresso di Vienna, di cui si era fatto paladino. Quando però la rivoluzione dilagò in Germania e in Italia, M. intervenne decisamente. Legata di nuovo a sé la Prussia, con una serie di energici provvedimenti, dalla Dieta di Francoforte del 1832 alla conferenza di Vienna del 1834, ricondusse la Germania all'obbedienza austriaca e, assicuratasi l'alleanza del Piemonte, con maggiore celerità domò l'Italia centrale. Palmerston tentò d'intromettersi nelle faccende germaniche, ma M. lo ributtò con calma. Luigi Filippo si agitò o finse di agitarsi per l'Italia, ma fu tenuto a bada dallo spauracchio del duca di Reichstadt e la spedizione d'Ancona gli fece più male che bene. Divenuto lo zar Nicola, da eversore, sostenitore dell'integrità dell'impero ottomano, M. lo appoggiò francamente nella questione turco-egiziana, e lo zar aderì al desiderio di M. d'una solenne riaffermazione del principio d'intervento (dichiarazione di Münchengraetz, settembre 1833). Ma l'unico risultato di questa levata di scudi fu quello di riavvicinare la Francia all'Inghilterra, già divise dalla questione turco-egiziana, nella Quadruplice alleanza liberale con la Spagna e il Portogallo (aprile 1834). Il sogno di M. d'una pentarchia europea era spezzato per sempre.
Come in Europa, così in Austria lentamente tramontava l'astro di M. Alla morte dell'imperatore Francesco (2 marzo 1835), si scatenarono tutti gli odî accumulati dal 1809: gli arciduchi rialzarono il capo; Kollowrat, il potente ministro delle Finanze, pretese e ottenne nella reggenza un'autorità pari a quella di M. ed ebbe dalla sua la burocrazia. Si produsse contro M. un'ondata d' impopolarità, contro la quale non reagì energicamente: si contentava di difendersi. Invecchiava. Sempre lucida e acuta, la sua mente, ma indebolita la volontà. Gli veniva meno anche la fiducia nell'Austria. Prevedeva, per il 1847, una catastrofe. E fu profeta, pure sbagliando d'un anno. Infatti la Prussia, sotto la guida del nuovo re Federico Guglielmo IV, gli sfuggiva e si avviava verso le riforme costituzionali: e invano M. cercò più volte di trattenerlo. Nello stesso tempo, in Italia, Carlo Alberto, la cui alleanza garantiva all'Austria la quiete della penisola, mutava politica. In Ungheria si riaffermava il radicalismo di Kossuth. L'annessione di Cracovia e l'accordo con la Francia per la Svizzera e l'Italia furono per M. un compenso, ma meschino e pagato caro. La violazione dell'indipendenza di Cracovia, impostagli dallo zar Nicola, gli nocque moralmente: anche lui, dunque, calpestava il Congresso di Vienna! L'accordo con Guizot non solo fu di modesta portata, perché a Roma continuò a rimanere, come rappresentante francese, Pellegrino Rossi, il cui solo nome era un programma; ma esasperò Palmerston, che, per vendicarsi, appoggiò in Svizzera i radicali e, rese vane le pratiche intimidatorie austro-francesi, in Italia si fece apostolo del liberalismo riformista e prese sotto la sua protezione quel movimento, che aveva trovato in Pio IX una bandiera. Il pericolo della situazione non sfuggì a M., ma che il fuoco covasse anche a Vienna, questo non lo previde. Il moto del 13 marzo 1848 lo sorprese, ma non l'avvilì: avrebbe voluto reagire e domarlo con le armi. Gli arciduchi e gli altri ministri, che volevano liberarsi di lui, non vollero: e M. dovette dimettersi. Lasciò Vienna senza neanche un soldo dallo stato: e solo lo soccorse la generosità di Salomone Rothschild e dello zar Nicola. Andò a Londra (aprile-settembre 1848), dove fu accolto con grandi dimostrazioni di simpatia dall'aristocrazia conservatrice britannica.
Leggeva e scriveva moltissimo e continuava a mantenersi al corrente degli avvenimenti politici europei. Iniziò, anzi, la pubblicazione d'una rivista Spectateurs de Londres, che, per mancanza di fondi, non durò più di tre mesi. Osservò col consueto acume la vita politica inglese: ciò che lo colpì più d'ogni altra cosa fu il meraviglioso senso della legalità nella libertà del popolo britannico. E non gli sfuggì la profonda trasformazione sociale, che, sotto la spinta dell'industrialismo, si compiva in Inghilterra senza spezzare apparentemente le vecchie forme costituzionali. Si mescolò nelle lotte politiche inglesi, ispirando a Beniamino Disraeli, suo ardente ammiratore, i suoi discorsi di politica estera contro Palmerston. Seguiva con animo accorato ciò che avveniva in Austria; nulla comprendeva della politica di Schwarzenberg, che aveva promulgato la costituzione del 4 marzo 1849. Mancandogli i mezzi pecuniarî, dovette trasferirsi prima a Brighton (settembre 1848-aprile 1849) e a Richmond (aprile-ottobre 1849), poi nel Belgio, a Bruxelles (11 ottobre 1849). Conobbe allora uno spirito a lui affine, re Leopoldo, e gli si legò in amicizia. Anzi di lì, continuò a lottare contro Palmerston e ispirò articoli del Times e del London Quarterly contro la sua politica in Italia e Ungheria, mentre tentava di eccitare contro lui Schwarzenberg nella questione greca del 1851. Fornì al Thiers moltissime notizie per gli ultimi volumi della sua Storia del consolato e dell'impero, dove la sua figura appare in assai bella luce. Previde che la Francia, repubblica senza repubblicani, si avviava verso la dittatura. Disapprovò la politica di Schwarzenberg verso la Prussia: politica che esasperava quel dualismo austro-prussiano da lui felicemente smussato.
Il 6 aprile 1851, finalmente, M. ebbe da Francesco Giuseppe il permesso di tornare a Vienna, ma solo il 9 giugno partì da Bruxelles e il 24 settembre poté rivedere Vienna. Interpellato spesso dal giovane imperatore, già suo discepolo, non fu mai ascoltato. Così fu contrario alla politica seguita nella questione della Crimea e in quella d'Italia nel 1859. Invano si sforzò allora d'impedire l'invio, al re di Sardegna, di quell'ultimatum che fece il giuoco di Cavour. Malato, seguì con ansia dolorosa il primo svolgersi di quella guerra. Morì l'11 giugno 1859.
Nessun uomo è stato, forse, più vituperato dai suoi contemporanei del M. Tutta la storiografia europea del secolo XIX, animata da spirito nazionale e liberale, ne ha tramandato un pessimo ritratto. Ma ai nostri giorni, la sua figura va riabilitandosi e ridestando interesse largo. E si è andati talvolta anche troppo oltre. Quanto alla personalità di M., essa apparve assai ricca anche a uno storico come il Ranke. Grande, inarrivabile capacità di diplomatico, con tutte le doti relative: conoscenza dei problemi e degli uomini; gusto delle forme giuridico-diplomatiche; potenza suasiva; acume e vigore d'osservazione; abilità d'influire sull'opinione pubblica. Si potrebbe rimproverargli che, a volte, la sua arte scivola nel virtuosismo. Eppure egli, perseguendo l'ideale della pace tra le potenze, ebbe il coraggio di abbassare la diplomazia da fine a sé stessa a mezzo della sua politica di conservazione sociale: la diplomazia divenne per lui l'arte di evitare ogni complicazione internazionale. Ma se M. come diplomatico fu grande, come politico, come uomo di stato ebbe il torto di volere costruire la pace sulla guerra, guerra tra governanti e governati, con la solidarietà dei troni. Quindi, un edificio costruito su un vulcano. M. politico ebbe in Europa due facce: l'una, verso i popoli, di capo della polizia internazionale; l'altra, verso i principi, di maestro dell'arte di regnare. Tuttavia, il diplomatico, privo dell'intima religiosità della grande politica, impedì al maestro di trasformarsi in un apostolo, in un combattente dell'ideale: M. può far pensare, può far calcolare, non può diffondere intorno a sé calore e luce. Il diplomatico maestro sarebbe finito un pedante integrale, se il diplomatico uomo di mondo non lo avesse temperato e reso amabile e brillante. Figlio del Settecento, M. conobbe l'arte di godersi la vita. Bell'uomo, anche vecchio, sempre olimpico e sorridente, vestiva con signorile eleganza. Brillante conversatore, parlava di tutto (politica, arti, scienze, viaggi); ebbe fino da giovane l'istinto della vita lussuosa e pochi uomini furono più di lui amati, adorati dalle donne, ciò che non gl'impedì di essere il più affettuoso dei padri. Come il cuore, così coltivò l'intelligenza. Adorava la musica, ma più la musica italiana che quella tedesca. Alla comprensione dei grandi pensieri non si sollevò mai (Goethe, Kant), ma aveva viva passione per le scienze naturali. Non aveva alcuna pregiudiziale politica nelle sue letture: recitava a memoria interi lunghi squarci del Pellegrinaggio del giovane Aroldo di Byron e ammirò Voltaire e Heine.
Metternich e l'Italia. - L'Italia formò parte integrante del sistema politico di M. in possesso dell'egemonia in Italia e in Germania. L'Austria era l'ago, e quindi l'arbitra, della bilancia europea: saldamente piazzata al centro, essa impediva il dilagare dell'espansionismo francese o russo e fissava l'equilibrio d'Europa. Le nuove idee nazionali italiane e tedesche per M. non differivano molto dalle vecchie chimere della libertà d'Italia o delle libertà germaniche e come queste credeva che non avessero salda consistenza politica. Con la creazione del regno Lombardo-Veneto (1814), con i trattati coi Borboni di Napoli del 1815, con la restaurazione o l'istallazione di principi austriaci in Toscana, in Modena, in Parma, con le relazioni cordiali col cardinale Consalvi, M. divenne padrone d'Italia, ma il suo programma massimo di legare a sé tutti i principi d'Italia in una lega austro-italica non riuscì per la vigorosa opposizione del regno di Sardegna (1816). Le rivoluzioni del Napoletano e del Piemonte nel 1820-21 con le conseguenti reazioni accrebbero l'influenza di M. in Italia, ma il suo tentativo di creare una polizia delle polizie italiane, come la centrale di Magonza in Germania, fallì per le resistenze piemontesi e pontificie (1822). I moti del 1831 nell'Italia centrale resero più profondo l'influsso di M. nello stato pontificio e l'alleanza col re di Sardegna, Carlo Alberto, legò a sé il più potente principe d'Italia, ma nello stesso tempo egli perdeva Napoli, che per opera del suo nuovo re Ferdinando II si mostrava gelosissima della propria indipendenza. Col movimento albertista in Piemonte e in Italia e l'elezione di Pio IX, il regno di Sardegna e il papato si sciolsero dall'amicizia austriaca; e inefficace compenso fu per M. il riavvicinamento a lui di Ferdinando II di Napoli. Insomma, per quanto abile sia stata la politica di M. coi principi italiani, non riuscì mai a tenerli tutti in pugno: v'era sempre qualcuno che recalcitrava. Quanto allo spirito pubblico italiano, fu una lotta continua dal 1814 al 1848, che venne impersonata dal gran nome di Mazzini, la cui potenza politica venne assai per tempo individuata dalla polizia austriaca; e Mazzini incarnò nel suo tempo, e tale resta nelle pagine della storia, l'anti-M. per eccellenza.
Quale la funzione di M. nella storia d'Italia? Innanzi tutto, quella di avere obbligato gl'Italiani a conquistarsi moralmente una patria e a non riceverla come dono degli stranieri; quindi quella di avere promosso lo sviluppo materiale e culturale del Lombardo-Veneto, infine quella d'avere prevenuto in tempo ogni velleità di anacronistico ritorno al passato meridionale e di sanfedismo e d'avere combattuto gli arbitrî e le violenze sommarie a Napoli e a Roma. Meriti tutti negativi, ma non indifferenti nella storia della civiltà: impedire mali peggiori, se non è un bene, è sempre un male minore.
Opere: Aus Metternichs Nachgelassenen Papieren, Vienna, voll. 8, 1880-84, traduz. francese e inglese: la traduzione inglese non va oltre il 1835; Briefe Talleyrand's an M., ed. Klinkowstron, in Deutsche Rundschau, I881, 1; Correspondance du card. Consalvi avec le prince de M., ed. Van Duerm, Lovanio 1899; Gentz kontra M. Briefe an Wessemberg aus den Jahren 1831 und 1832, in Deutsche Rundschau, 1906, 4; Lettres du prince de M. à la comtesse de Lieven (1818-1819), ed. J. Hanoteaux, Parigi 1909; M.-Kübeck. Ein Briefwechsel, Vienna 1910; Ungedruchtes aus dem Briefwechsel zwischen Gentz und M. in den Jahren 1803-1813, ed. E. Salzer, in Deutsche Rundschau, 1912, 152; Boyer d'Agen, Une dernière amitié de M., d'après une correspondance inédite du prince de M. au card. Viale Prelà, Parigi 1919; M.-Hartig, Ein Briefwechsel (1848-1851), Vienna 1924; V. Bibl, M. in neuer Beleuchtung und sein geheimer Briefwechsel mit dem bayerischen Staatsminister Wude, Vienna 1928.
Bibl.: Fondamentale H. v. Srbik, M. Der Staatsmann u. der Mensch, voll. 2, Monaco 1925-6. Cfr. inoltre: A. Springer, Fürst Metternich, in Preussische Jahrbucher, Berlino 1859, 4; id., Geschichte Öesterreichs seit den Wiener Frieden, Vienna 1863-65; N. Bianchi, Storia della diplomazia europea in Italia, Torino 1865; W. Onchen, Oesterreich und Preussen in Befreiungkriegen, Berlino 1876; H. Treitschke, Deutsche Geschichte im neuzehnten Jahrhundert, Lipsia 1879; K. Hillebrand, M., in Zeiten, Völker und Menschen, V (1881); G. B. Malleson, M., 1888; Ch. De Mazade, Un chancelier d'ancien regime, Parigi 1889; A. Stern, Geschichte Europas seit den Verträgen von 1815 bis zum Frankfurter Frieder von 1871, voll. 6, Stoccarda 1891-1911; O. Lorenz, Staatsmänner u. Geschichtschreiber, d. 19. Jahrh., Berlino 1896; F. von Demelitsch, M. u. seine auswärtige Politik, voll. 2, Stoccarda 1898; A. Sorel, L'Europe et la révolution française, VII e VIII, Parigi 1904; F. Strobl v. Ravelsberg, M. u. seine Zeit, voll. 2, Vienna 1906-1907; E. v. Wertheimer, M. u. die oesterr. Staatskonferenz, in Oesterreich. Rundschau (1907); H. Friedjung, Oesterreich von 1848-1860, Vienna 1908-12; M. Spahn, M., in Monatsschrift Hochland, II (1909); E. Molden, Die Orientpolitik des Fuersten Metternich (1829-1833), Vienna 1913; E. Widmann, Die religiösen Anschauungen des Fürsten Metternich, Darmstadt 1914; K. Groos, M., Eine Studie zur Psycologie der Eitelheit, Stoccarda 1922; O. Westphal, M. u. seint Staat, in Österreich. Rundschau, 1923; A. O. Meyer, Fürst M., in Archiv für Politik u. Geschichte, 1924; M. Paléologue, Romantisme et diplomatie. Talleyrand, M., Chateaubriand, Parigi [1928], pp. 66-100; Werner Nael, Zur Geschichte der Heiligen Allianz, Berna 1928; J. Ter Meulen, Der Gedanke der internationalen organisation in seiner Entwicklung, II, i, L'Aia 1929; W. C. Langsam, The Napoleonic wars and German nationalism in Austria, New York 1930; A. Alberti, Atti del Parlamento delle Due Sicilie, IV e V, Bologna 1931; C. Capasso, L'unione europea e la grande alleanza del 1814-1815, Firenze 1932; A. M. Buchland, M. and the British Governement (1809-1813), Londra 1933; A. Robert, L'idée nationale autrichienne et les guerres de Napoléon, Parigi 1933.