RONTO, Matteo
– Nacque a Creta, come si evince dalla rubrica premessa ad alcuni suoi scritti: «Hec per fratrem Matheum Ronto de insula Cretensi» (Wilhering, Stiftsbibliothek, IX, 77, c. 16r), presumibilmente negli anni Settanta del XIV secolo, da genitori veneziani («Venetique fuere parentes», come si legge nel Prologus alla versione dantesca, l’opera per la quale è principalmente noto). Del padre, forse un mercante o un funzionario della Repubblica, è noto solo il nome, Pietro, emerso da un testamento pistoiese del 1428 (rogato alla presenza di alcuni confratelli olivetani di «fratre Mattheo Petri Ronti de Venetiis»; Zaggia, 1984, p. 200). Nulla si sa della madre e pochissimo del nucleo familiare (ma una sorella era domiciliata nei dintorni di Venezia nel 1435; Tagliabue, 1983, p. 160). Tuttavia, l’agnatizio, che nel rogito appena citato segue al genitivo il patronimico di fra Matteo, dovrebbe sciogliere ogni dubbio sull’origine del cognome, assimilabile al nome dell’avo paterno.
Per gli anni giovanili dobbiamo confessare un’ignoranza ancor maggiore. Unico indizio, l’annotazione autobiografica «Ast ego qui quondam commanipularis extiti et gymnosista» di una lettera del 1430-31 a Guarino Veronese; Sabbadini vi lesse il riferimento a un’esperienza di tipo militare precedente alla vita religiosa (Epistolario di Guarino Veronese, 1916, p. 119; 1919, p. 281). Per certo Ronto non trascurò gli studi; all’indomani dell’ingresso nella Congregazione benedettina di Monte Oliveto (1408) aveva una formazione culturale già consolidata. Dalla natia Creta, dove non difettavano né maestri di scuola né attrezzati scriptoria, gli derivò la conoscenza del greco. A Venezia, in concomitanza con l’arrivo degli olivetani nella città (settembre 1407), maturò in lui la scelta per una vita claustrale.
Quando precisamente abbia pronunciato i voti, non sappiamo. È tuttavia possibile, sulla base delle Familiarum tabulae olivetane (che si compilavano a inizio maggio in occasione dell’annuale capitolo generale), dedurne il quadro complessivo degli spostamenti. Da S. Elena di Venezia, dove risulta presente nel 1408, venne trasferito nel maggio del 1409 a S. Michele in Bosco sopra Bologna, poi a S. Anna in Camprena presso Pienza (1410), a S. Maria di Barbiano presso S. Gimignano (1411-13), a S. Caterina di Fabriano (1413), a S. Girolamo d’Agnano presso Pisa (1414), a S. Michele in Bosco (1415), a S. Bartolomeo di Prato (1416), a S. Giovanni Battista del Venda sui colli Euganei (1417), ancora a S. Michele in Bosco (1418-21), a Monte Oliveto (1421), di nuovo a S. Elena di Venezia nel 1422, mentre nel 1423 raggiunse, alle porte di Milano, la comunità di Baggio. Per due anni non compare, ma nel 1426 era a S. Michele in Bosco, quindi a S. Benedetto di Pistoia (1427-31), a S. Giorgio di Ferrara (1431), a S. Anna in Camprena (1432) e a Monte Oliveto (1433). In seguito, risiedette nei monasteri di Venezia (1434), del Venda (1435 e 1437-39) e di S. Maria della Riviera presso Padova (1436), prima di stabilirsi in S. Giorgio di Ferrara, nuovamente raggiunto nel 1439, cui si lega l’ultima dimora (Tagliabue, 1983, p. 186; Zaggia, 1984, p. 199).
In siffatta cornice cronologica, l’episodio della traduzione in esametri latini della Commedia dantesca non può che collocarsi tra il 1427 e il 1431, a Pistoia, città nella quale egli stesso, nell’incipit del Prologus, dice di avervi atteso: «Prologus fratris Mathei Ronto de Venetiis ordinis sancti Benedicti Montis Oliveti super libro Dantis per ipsum in metro latino redactum et in civitate Pistorii merito compilatum» (Zaggia, 2000, p. 213).
Ne sono conferma nell’Apostropha ad urbem Pistoriensem, accodata alla traduzione, i ringraziamenti al cavaliere pisano Bartolomeo Gambacorta, al medico pistoiese Michele di Giovanni di Paolo Benvoluti e al teologo francescano Francesco da Pistoia, tutti presenti in quegli anni nella città toscana. È stato perciò definitivamente espunto il nome di Ronto dal novero dei traduttori e commentatori trecenteschi di Dante (si vedano al riguardo le concomitanti valutazioni di Tagliabue, 1983, pp. 173-177, e Zaggia, 1984).
Benché realizzata in piena età umanistica, l’iniziativa rontiana risponde a una dimensione culturale che «di Dante coglie anzitutto il messaggio religioso» e che, come traspare dal Prologus, «intendeva estenderne la diffusione all’intera ecumene cristiana»; dunque si rifà «più ad un universalismo d’impronta cristiana che ad un risentimento linguistico di stampo umanistico» (Zaggia, 2000, pp. 210 s.). La traduzione insomma si colloca nel solco «di quell’intento divulgativo di impronta ecumenica» che circa dieci anni prima (1416) aveva ispirato la versione in prosa del francescano Giovanni Bertoldi da Serravalle, destinata ai prelati di tutta Europa riuniti nel Concilio di Costanza (Ferrante, 2011, p. 334). Anche sul piano formale, l’adozione di uno stile «lambiccato e contorto», ben lontano dal nitore linguistico proprio delle avanguardie umanistiche, tradisce «presupposti tipici dell’insegnamento retorico praticato nelle scuole ecclesiastiche», e induce a considerare la Translatio rontiana come «il prodotto di una cultura ancora medievale» (ibid.). Stride il contrasto con l’eleganza formale di cui aveva dato prova Coluccio Salutati traducendo a fine Trecento, in versi eroici, alcune terzine dantesche inserite nel terzo libro del De fato et fortuna (cfr. Bausi, 2008, pp. 51-53).
Una patina culturale e linguistica medievaleggiante affiora pure dal didascalico modo di procedere che caratterizza la struttura complessiva di un trattato come l’Ortographia, di cui Ronto è autore e che si conclude con una riprovazione delle novità ortografiche caldeggiate dalle nuove generazioni di grammatici (Brambilla, 2007, pp. 234-246). Ma in altri ambiti della sua produzione letteraria sembra riflettersi un atteggiamento meno tradizionalista. Per esempio, nell’innografia religiosa ebbe modo di dar prova di grande abilità versificatoria impegnandosi nella composizione di vari inni liturgici, tra cui un rifacimento dell’Ave maris stella, il celeberrimo inno carolingio trasformato da Ronto in un componimento in distici elegiaci (Daub, 2013, pp. 159 s.). Non meno interessante un’altra sua traduzione, in prosa questa volta e in volgare, dei sette salmi penitenziali, condotta tenendo presente il testo greco e con criteri ispirati al precetto oraziano: «Nec verbum verbo curabis reddere fidus», enunciato nel proemio (Zaggia, 2000, pp. 209 s.).
Di fatto, la Translatio Dantis rontiana non riscosse quel successo che forse l’autore si attendeva. Per lo meno entro i quadri dell’umanesimo più rigoroso, vista la reazione, violentissima, che suscitò in un raffinato umanista come Niccolò Niccoli. Non meno polemica fu la risposta di Ronto, dalla quale, al di là dei toni esacerbati e per certi aspetti quasi scontati, tipici dell’invettiva, un motivo di fondo emerge con chiarezza: Ronto aveva sofferto per le critiche mordaci che Niccoli gli aveva rivolto per aver egli tradotto l’opera di Dante «de rithmis maternis in metrum latinum» (Davies, 1987, pp. 141 s.). La disapprovazione dell’umanista non lasciava scampo all’iniziativa del monaco che, peraltro, «non disdegna di apparire poeta, anzi osa, con una lambiccata eco del celebre epitaffio virgiliano, mettersi addirittura quasi alla pari con il suo modello: “Clara satis genuit vatem Florentia Dantem, / Grecia sed fratrem peperit me Ronto Matheum / vaticulum sciolum Venetique fuere parentes”» (Ferrante, 2011, p. 335).
Tuttora in attesa di un’adeguata edizione critica, il testo della Translatio può contare su una decina di codici, tra completi e parziali (elenco aggiornato ibid., pp. 337 s.). In alcuni (tra cui l’autorevole Pal. 103 della Biblioteca Palatina di Parma), è tramandata unitamente al Prologus e all’Apostropha, con l’aggiunta del Magyrologium: un brioso poemetto in cui Ronto si rappresenta nelle vesti di sottocuoco e narra delle disavventure capitategli nell’accudire alla cucina, compresa la rottura di un’anfora piena d’acqua, che gli costò una severa punizione, impostagli dal priore in una lingua più vicina alle asperità teutoniche che al dolce eloquio virgiliano.
Tra gli altri scritti di Ronto (per una esaustiva rassegna cfr. Tagliabue, 1983, pp. 166-171) si segnalano una Vita di Alessandro V (il cretese Pietro Filargo), composta forse in mortem di costui (avvenuta a Bologna nel 1409); un opuscolo agiografico sulla traslazione dei corpi dei vescovi ferraresi Maurelio e Alberto Pandoni, probabilmente scritto nell’anno stesso della riesumazione (1419); alcuni inni liturgici (in onore delle sante vedove, di s. Paolo apostolo, dei ss. Giorgio e Maurelio); un carme sul Cato Maior e delle egloghe politiche o encomiastiche. Oltre che a Guarino, Ronto scrisse anche tra il 1411 e il 1413, per invitarlo alla conversione, a un ebreo agiato e colto, Vitale di Matassia, figura di primo piano nella Pisa d’inizio Quattrocento. Non è anteriore al 1417 la stesura del già citato trattato ortografico, indice – insieme con un più breve trattato sui metri di Boezio, un dizionario latino-volgare (Vocabulista) e una lista di nomi ebraici tramandata sotto il suo nome nel codice di Wilhering – di un interesse linguistico e grammaticale che si accompagna all’intensa attività poetica rontiana.
Su Ronto pesa tuttavia il giudizio fortemente limitativo espresso nei suoi confronti da un intenditore come Enea Silvio Piccolomini (Commentarii, X, 20), il papa umanista, che pur riconoscendo in lui facilità ovidiana nel comporre versi, ha lasciato scritto: «Mensura tamen in carmine fuit, non elegantia. Dantis poema ex vulgari sermone in latinum vertit et heroico versu conscripsit, quamvis parum terso» (1984, p. 1950). Comunque si giudichi, fu un’impresa che non poteva né può passare inosservata. Meritevole anzi di più sistematiche analisi.
Ronto morì a Ferrara, nel monastero di S. Giorgio, il 14 ottobre 1442. La data si legge alla fine dell’epitaffio «Fundite iam lacrimas, in fletum vertite cantus», scritto dal fiorentino naturalizzato ferrarese Bartolomeo Casciotti: «Obiit autem Matheus Rontus monachus pridie idus octobris 1442» (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Lat. XIV.218, c. 43r).
Fonti e Bibl.: Archivio dell’abbazia di Monte Oliveto Maggiore, Familiarum tabulae, vol. I; Liber professorum et mortuorum, c. 104r (sub anno 1443).
O. Grillnberger, M. R., in Studien und Mittheilungen aus dem Benedictiner- und dem Cistercienser-Orden, XII (1891), pp. 17-28, 314-326; Epistolario di Guarino Veronese, a cura di R. Sabbadini, II, Venezia 1916, pp. 118-125, III, 1919, pp. 280-283; M.C. Piastra, Il Magyrologium fratris Mathei Ronto iocosum, in Aevum, XXXV (1962), pp. 77-82; A. Pertusi, Leonzio Pilato a Creta prima del 1358-1359. Scuole e cultura a Creta durante il secolo XIV, in Κρητικά Χρονικά, XV-XVI (1962-1963), pp. 363-381; E. Franceschini, Dante e il primo umanesimo: la versione latina della Commedia di M. R. († 1442), in Medioevo e Rinascimento veneto. Con altri studi in onore di Lino Lazzarini, I, Padova 1979, pp. 319-334; M. Tagliabue, Contributo alla biografia di M. R. traduttore di Dante, in Italia medioevale e umanistica, XXVI (1983), pp. 151-188; E.S. Piccolomini, I Commentarii, a cura di L. Totaro, II, Milano 1984, p. 1950; M. Zaggia, Sulla datazione della versione dantesca di M. R.: l’“Apostropha ad urbem Pistoriensem”, in Studi offerti a Gianfranco Contini dagli allievi pisani, Firenze 1984, pp. 197-215; F.M.C. Davies, An emperor without clothes? Niccolò Niccoli under attack, in Italia medioevale e umanistica, XXX (1987), pp. 95-148; M. Tagliabue, M. R. (1370/80-1442) tra studi recenti e nuove prospettive di ricerca, in Medioevo e latinità in memoria di Ezio Franceschini, a cura di A. Ambrosioni et al., Milano 1993, pp. 455-478; M. Zaggia, Il “Prologus” della versione dantesca di M. R., in Studi danteschi, LXV (2000), pp. 203-221; S. Brambilla, Il codice Ambr. H 52 suss. e l’“Ortographia” di M. R., in Nuove ricerche su codici in scrittura latina dell’Ambrosiana. Atti del Convegno... 2005, a cura di M. Ferrari - M. Navoni, Milano 2007, pp. 229-252; F. Bausi, Coluccio traduttore, in Medioevo e Rinascimento, n.s., XIX (2008), pp. 33-57; G. Ferrante, R., M., in Censimento dei Commenti danteschi. I Commenti di tradizione manoscritta (fino al 1480), a cura di E. Malato - A. Mazzucchi, I, Roma 2011, pp. 333-339; S. Daub, M. R. e la lirica di secondo grado, in Res publica litterarum, XXXVI (2013), pp. 153-160.