MARUFFO, Matteo.
– Nacque probabilmente nel secondo quarto del XIV secolo. Sembra fosse uno degli otto figli di Francesco, mercante tra i più ricchi e influenti della Genova del Trecento, appartenente alla fazione guelfa. Avviato dalla più tenera età alla mercatura, sviluppò ben presto notevoli conoscenze in campo finanziario, tanto da figurare più volte, a partire dal 1358, in varie commissioni di sapientes chiamati a consultazione dal governo del Comune in questioni economiche, segnalandosi inoltre come uno dei più importanti sottoscrittori dei mutui accesi in quegli anni dal Comune per finanziare le guerre contro Milano e Venezia.
Nonostante la cura per i suoi interessi privati egli partecipò attivamente alla vita politica genovese, ricoprendo incarichi civili e militari dei quali però non è rimasta traccia. È certo tuttavia che nel 1363 fu uno dei dieci elettori che, dopo la morte del doge Simone Boccanegra, elessero il suo successore Gabriele Adorno, in una delle rare elezioni svoltesi secondo le regole costituzionali cittadine; tre anni dopo rivestì, come già il padre, la carica di massaro generale.
Le ottime prove fornite in tutte le occasioni in cui fu chiamato a servire la Repubblica fecero di lui uno dei personaggi di spicco della città, tanto da essere definito «civis magnanimus inter iis qui dicuntur de populo» (Gior. Stella - Giov. Stella, p. 179), sicché quando agli inizi del 1380 si dovette scegliere un capitano per il comando della flotta genovese impegnata nella guerra con Venezia, fu naturale affidarsi a lui, tanto più che l’anno precedente era stato inviato a Padova per concordare con Francesco da Carrara un’azione militare congiunta contro la città lagunare.
Si era allora nella terza e ultima fase del conflitto tra le due Repubbliche marinare per il dominio nel Mediterraneo, nella cosiddetta guerra di Chioggia, perché qui si svolse l’episodio risolutivo che trasformò la quasi inevitabile rovina di Venezia in una clamorosa sconfitta genovese. Era infatti accaduto che dopo la terribile sconfitta veneziana nelle acque di Pola (1378), i Genovesi erano riusciti l’anno successivo a impadronirsi di Chioggia, servendosene come base per portare l’attacco definitivo a Venezia, con il concorso anche delle milizie padovane. Il loro tentativo di impadronirsi della città di S. Marco era però fallito per un soffio e, anzi, per un incredibile concatenarsi di circostanze negative essi finirono col ritrovarsi bloccati a Chioggia, progressivamente isolata dai Veneziani da una impenetrabile barriera di navi affondate, legname e catene di ferro, ben guardata da bombarde e altre artiglierie, che proprio in questa guerra avevano trovato per la prima volta un massiccio impiego. La notizia che l’esercito a Chioggia si era trasformato di colpo da assediante ad assediato suscitò a Genova grande preoccupazione, ma a causa della difficile situazione finanziaria e dell’incombente minaccia dei Visconti, alleati di Venezia, tutto ciò che il governo del Comune riuscì a mettere insieme per cercare di soccorrere la città assediata fu una squadra di appena 13 galee per il cui armamento, il 21 genn. 1380, fu ordinato un arruolamento straordinario di marinai e soldati in tutto il territorio genovese, obbligando a concorrervi anche le località «convenzionate» (che da tale servizio erano in generale esenti) e i feudatari della Riviera di Ponente.
A comandare l’armata, con il titolo di capitano generale e ammiraglio, fu nominato Gaspare Spinola di S. Luca, affiancato dai consiglieri Ludovico Guarco e Annibaldo Lomellini; il 15 febbraio il M. fu nominato capitano delle galee, sia di quelle che si stavano allestendo in Genova sia di quelle già in Adriatico. Partì da Genova il 3 marzo, pochi giorni dopo che lo Spinola, con un gruppo di balestrieri, si era messo in viaggio via terra, confidando di raggiungere Chioggia passando per Ferrara. La flotta genovese costeggiò invece il litorale toscano e presso Civitavecchia sorprese e attaccò due galee veneziane, impadronendosi del carico. Il M. proseguì quindi nel suo viaggio, ed entrato nell’Adriatico si imbatté al largo della Puglia in una squadra di 6 galee veneziane al comando di Taddeo Giustinian, che il Senato veneto, preoccupato per la drammatica penuria di vettovaglie in cui si trovava Venezia, aveva inviato ad approvvigionarsi di grano sul mercato pugliese. Il 18 aprile il M. attaccò i Veneziani entro il porto di Manfredonia, dove si trovavano a caricare, e dopo un violento combattimento riuscì a impadronirsi delle galee del Giustinian e di numerosi altri navigli di proprietà veneziana, facendo oltre 200 prigionieri. Forte di questi successi, proseguì verso la Dalmazia, giungendo finalmente a Zara che, all’epoca dominio dell’alleato re d’Ungheria, svolgeva per i Genovesi la funzione di base arretrata delle operazioni contro Venezia. A Zara il M. riorganizzò la sua armata con le galee già operanti nell’alto Adriatico. Così rafforzatosi, il 6 maggio comparve davanti a Chioggia, dando quindi fondo nel porto del Fossone, per recare soccorso alla guarnigione genovese bloccata in città, ormai allo stremo per la mancanza di cibo e il diffondersi di epidemie.
Lo sbarramento veneziano gli apparve però insormontabile, sicché egli cercò di penetrare nella laguna attraverso il porto di S. Nicolò, più a settentrione, ma trovò anch’esso bloccato da fortificazioni e da numerose truppe, oltretutto ben fornite di artiglieria, di cui i Genovesi erano invece del tutto sprovvisti. Il M. sperò comunque di riuscire a provocare i Veneziani a battaglia, fidando nella superiorità numerica delle sue forze, ma vista la loro determinazione a non accettare il combattimento, decise di rinunciare per il momento a forzare il blocco intorno a Chioggia, andando invece a intercettare i navigli che, lungo la costa friulana, cercavano di portare viveri a Venezia. Anche questo obiettivo fu però mancato, per l’improvvisa uscita dalla laguna di una grossa squadra navale veneziana, sicché il M. dovette dirigersi a tutta forza verso la costa dalmata, seminando gli inseguitori ma perdendo la possibilità di fare un ricco bottino.
Rientrato a Zara, dopo pochi giorni ritentò l’impresa di sbloccare l’assedio di Chioggia, al comando di 38 galee (altre infatti, sotto Genesio De Mari, erano giunte frattanto da Genova), fiducioso di costringere finalmente i Veneziani ad accettare battaglia. Il 17 giugno si ripresentò pertanto all’imboccatura del porto di Chioggia, mentre gli assediati, su un centinaio di zattere ricavate da mezzi di fortuna, cercavano con una disperata sortita di raggiungere la barriera che ne ostruiva l’accesso, per distruggerla e aprire un varco per la flotta del M.; il fuoco violento della numerosa artiglieria veneziana impedì però alle galee e alle zattere di avvicinarsi al loro obiettivo, così che il M. fu costretto ad allontanarsi dalla costa per sfuggire al micidiale tiro delle bombarde, e abbandonò al suo destino la disperata sortita dell’esercito genovese assediato.
Vista inutile ogni resistenza e ormai decimate dalla fame e dalle malattie, il 22 giugno le forze genovesi a Chioggia (4400 soldati e 19 galee) si arresero a discrezione, poche ore prima che il M. ritentasse per la terza volta di forzare il blocco. Stando così le cose, il capitano genovese rinunciò ad attaccare nuovamente battaglia e, ceduto il comando all’ammiraglio Gaspare Spinola (che trovato chiuso l’accesso a Chioggia per la strada di Ferrara era riuscito comunque a raggiungere la flotta via mare), si apprestò a eseguirne gli ordini.
Spinola, volendo vendicare la bruciante sconfitta, per prima cosa andò ad attaccare Trieste (da pochi anni sotto dominio veneziano), che fu selvaggiamente saccheggiata, e quindi passò a devastare la costa istriana, senza tuttavia riuscire a cogliere consistenti successi. In risposta, l’ammiraglio veneziano Carlo Zeno cercò di sorprendere i Genovesi nella laguna di Marano, dove le loro navi erano riparate, ma essi riuscirono a sfuggire e a raggiungere Zara. Zeno inizialmente mise il blocco alla città dalmata ma improvvisamente, con un ardito cambio di strategia, issò le vele alla volta del Tirreno per colpire direttamente Genova. La partenza improvvisa dei Veneziani colse alla sprovvista Spinola e il M. che, credendoli in navigazione verso nord, andarono a inseguirli in direzione dell’Istria. Ovviamente non li trovarono, ma riuscirono comunque a rendere fruttuosa la spedizione saccheggiando Capodistria e fu solo al loro ritorno a Zara che appresero la reale direzione seguita da Zeno, sulle cui tracce si posero immediatamente, nella speranza di bloccarlo prima che riuscisse a raggiungere le coste liguri. Il lungo viaggio fu compiuto in breve tempo perché già il 23 ottobre la squadra genovese era davanti a Portovenere, senza comunque riuscire a intercettare la flotta veneziana, rifugiatasi a Porto Pisano.
Il M. rientrò a Genova con Gaspare Spinola il 2 genn. 1381, non prima però di avere condotto i propri uomini a stroncare nel Chiavarese una rivolta di partigiani dei Fieschi e degli Spinola, all’epoca ribelli contro il doge Nicolò Guarco. Il prestigio del M. uscì assolutamente indenne dall’esito disastroso della guerra contro Venezia, tanto che nel maggio successivo egli fu chiamato a far parte del gruppo di ambasciatori inviati a Torino, presso il conte Amedeo VI di Savoia, per trattare la pace con i Veneziani, poi stipulata l’8 agosto. Tornato a Genova, fu nominato capitano di Famagosta.
La città, il più importante scalo commerciale di Cipro, era stata conquistata dai Genovesi nel 1372: due anni dopo re Pietro II di Lusignano aveva dovuto accettare l’occupazione, assoggettandosi ancora a pagare ai Genovesi un tributo annuo. Queste dure condizioni, prezzo dell’aiuto che il re aveva ricevuto per ottenere il trono e piegare l’opposizione baronale alimentata dai Veneziani, crearono ben presto nuovi attriti tra Genovesi e Ciprioti, mettendo a rischio la stabilità del nuovo dominio.
A Famagosta il M. ristabilì con estremo rigore l’ordine pubblico, meritandosi il plauso generale per l’alto senso della giustizia manifestato nel corso del suo governo. Così, quando rientrò in patria, nel 1383 fu dapprima nominato tra i membri di un apposito ufficio «super negociis insule Cypri» e quindi eletto nel Consiglio degli anziani, suprema magistratura comunale. Due anni dopo, in considerazione dei suoi meriti e dei servizi resi alla città quale capitano di Famagosta e comandante della flotta dell’Adriatico, ottenne l’esenzione perpetua da ogni contribuzione diretta o indiretta.
Morì pochi anni dopo, probabilmente a Genova, lasciando numerosa discendenza.
La famiglia Maruffo, nel 1528 aggregata all’«albergo» Fieschi e annoverata – in quanto di origine popolare – alla nobiltà «nuova», diede in seguito numerosi personaggi di spicco al governo della Repubblica di Genova, e si estinse nella seconda metà del XVII secolo.
Fonti e Bibl.: Genova, Biblioteca civica Berio, m.r. XV.4.5: F. Federici, Scrutinio della nobiltà ligustica, pp. 582-584; m.r. X.2.168: S. Della Cella, Famiglie di Genova antiche e moderne, estinte e viventi, pp. 936 s.; R. De Caresinis, Chronicon, in Rer. Ital. Script., 2ª ed., XII, 2, p. 43; Gior. Stella - Giov. Stella, Annales Genuenses, a cura di G. Petti Balbi, ibid., XVII, 2, pp. 179 s.; P. Interiano, Ristretto delle historie genovesi, Lucca 1551, cc. 123v-125v; C. Pagano, Delle imprese e del dominio dei Genovesi nella Grecia, Genova 1846, p. 112; L.A. Casati, La guerra di Chioggia e la pace di Torino, Firenze 1866, pp. 102, 104 s., 109, 133 s., 137, 140, 176, 273, 282; G. Petti Balbi, Una città e il suo mare. Genova nel Medioevo, Bologna 1991, pp. 228, 232, 236 s.; Id., Simon Boccanegra e la Genova del ’300, Genova 1991, p. 225; Enc. biografica e bibliogr. «Italiana», C. Argegni, Condottieri, capitani, tribuni, II, p. 231.