GENTILI (Gentile), Matteo
Nacque nel 1517 da Lucentino (o Gregorio, secondo la matricola dell'Università di Pisa; Lucentino era forse un soprannome).
La famiglia - di antica origine - proveniva dalla terra di San Ginesio (comunità marchigiana nel territorio di Macerata soggetta ai da Varano, ma sottratta nel 1523 da papa Adriano VI al controllo di quella famiglia e sottoposta alla giurisdizione pontificia). La famiglia della madre, Clarice Matteucci, originaria di Fermo e di più solida nobiltà rispetto ai Gentili, si rese illustre sia per la pratica del diritto, sia per l'esercizio delle armi.
Il giovane G. si orientò verso la professione medica, secondo la tradizione già percorsa dal nonno paterno Matteo e ripresa dal fratello Pancrazio. Avviatosi dunque a tali studi, seguì le lezioni nell'Università di Perugia, frequentata da numerosi studenti della Marca (nel 1509 erano 54 su un complesso di iscritti, calcolato al 1511, di 172) e in quella di Pisa; in quest'ultima il G. risultava iscritto alla matricola alla data del 9 nov. 1548 come "scholaris artista" e con la qualifica di "consiliarius pro natione Marchianorum". Il 13 maggio 1549 conseguì il titolo dottorale in filosofia e medicina; tra i quattro promotori compariva il nome conosciuto di Simone Porzio, allievo di Pietro Pomponazzi e filosofo assai ben retribuito nello Studio pisano. A Pisa il G. dovette anche seguire - come emerge da uno scambio epistolare risalente al 1560 con un altro medico marchigiano - i corsi di Giovanni Argentier, un piemontese che, dopo aver praticato l'arte sanitaria a Lione e ad Anversa, era stato chiamato da Cosimo I a insegnare, dal 1543, medicina teorica e, dal 1548, medicina pratica.
Nel 1548 il G. ritornò da Pisa a San Ginesio e l'anno seguente sposò Lucrezia Petrelli, figlia del capitano Diodoro e sorella di Niccolò, castellano di Trieste al servizio di Ferdinando II arciduca d'Austria-Tirolo; nella terra di San Ginesio i Petrelli erano una famiglia di governo distintasi nelle professioni e nella milizia. Da Lucrezia il G. avrà sette figli: il primogenito Alberico, poi Manilio, Antonio, Nevida, Vincenzo, Scipione e Quinto.
Nella sua città il G. fu assunto come medico fisico nel 1552, e confermato nella condotta l'anno successivo; nel 1558 si recò, per una missione affidatagli dalla Comunità, nella vicina Tolentino, dove fu poi ingaggiato per la condotta medica con la retribuzione annua di 200 fiorini, incrementata di altri 40 fiorini nel 1559, e portata a 300 nell'anno successivo.
Il legame con Tolentino, dove esercitò sino alla fine di ottobre del 1562, doveva essere saldo, se il G. contribuì a sostenere il bilancio della Comunità, impegnandosi in un prestito successivamente rimborsatogli. Al periodo trascorso a Tolentino risalgono le numerose annotazioni e le postille a un incunabolo del Canzoniere di F. Petrarca (Venezia, Pietro Quarenghi, 1494), commentato, tra gli altri, dall'umanista Francesco Filelfo, originario appunto di Tolentino. L'esemplare, a fine Settecento nelle mani di un giurista dello Studio bolognese, era ricco di note; stando alla testimonianza di Telesforo Benigni, erano particolarmente fitti i commenti sui sonetti contro la corte romana.
Durante le discordie civili che si produssero a San Ginesio il G. cercò di intervenire per tentare di superare i contrasti locali, ma senza successo; non è escluso che tale fallimento lo portasse a rifiutare la condotta offertagli dalla cittadinanza di San Ginesio. Almeno a partire dal 1566 la presenza del G. è attestata a Borgo San Sepolcro, ove esercitò la professione sino al 1571, quando, in ottobre, il Consiglio cittadino di Ascoli lo nominò al posto del fratello Pancrazio, deceduto pochi mesi prima, con l'onorario di 350 fiorini e l'uso di abitazione.
Al periodo di Tolentino risale lo scambio di lettere con Giano Matteo Durastanti, un altro medico marchigiano, originario della località di San Giusto (nei pressi di Macerata) e in seguito attivo a Venezia, autore di un commento al Luminare maius di Giovanni Giacomo de Manliis (Venezia, Lucantonio Giunta, 1566). Il Durastanti, sollecitato dai quesiti sottopostigli dal G. in una sua lettera, pubblicò le risposte in un volumetto di Problemata (Venezia, G. Ziletti, 1567). Nella dedica a Guidubaldo II Della Rovere duca d'Urbino, in data 4 maggio 1567, l'autore ricordava quando lui e il G. vivevano nella Marca e l'amico prestava servizio nella condotta di Tolentino. La missiva del G., riprodotta nella stampa Ziletti, reca la data 21 genn. 1560. In particolare, il G. gli sottoponeva quattro quesiti: se fosse opportuno accettare nella teoria medica il dogma del Fernelio (cioè Jean-François Fernel, medico curante di Enrico II di Francia), e seguito dall'Argentier, "de triplici morborum genere in similaribus"; se e in quali casi siano attribuibili ai demoni - "quos vulgo spiritus vocant" - le cause di determinate patologie; quale trattamento utilizzare per un paziente indebolito e "malo succo refertus"; quale utilità farmacologica abbia il rabarbaro.
A queste domande, così diversificate nella rilevanza della materia e nella tipologia dei generi affrontati, il Durastanti replicava scusandosi dello scarso supporto bibliografico su cui poteva contare per risolvere i dubbi dell'amico, non avendo a disposizione le opere del Fernelio né quelle dell'Argentier, ma soltanto il testo del Luminare maius e l'Antidotario del Collegio dei medici di Firenze.
Ad Ascoli il G. fu nuovamente confermato dal Consiglio nel ruolo di medico cittadino nel 1572, e ancora nel marzo del 1573 per la durata di un anno. Che la sua influenza personale sul governo municipale fosse efficace - bisogna considerare che fra la città di Ascoli e la terra di San Ginesio si era stabilito uno speciale rapporto di alleanza - lo dimostra il fatto che riuscì a far nominare il figlio Alberico alla carica di vicepodestà di Ascoli nel novembre del 1572, pochi mesi dopo che il primogenito aveva conseguito il titolo dottorale nello Studio di Perugia.
Successivamente il G. dovette rientrare nella nativa San Ginesio: nella primavera del 1574 lo troviamo infatti impegnato nel Consiglio generale di cento membri che si tramandavano il seggio per via ereditaria. Il G., come altri esponenti della sua famiglia, fece parte della locale Confraternita dei Ss. Tommaso e Barnaba, esente dalla giurisdizione diocesana e soggetta direttamente al capitolo di S. Pietro.
La rigida selezione nelle ammissioni determinò forti invidie e risentimenti da parte degli esclusi; contestualmente, emersero rilievi critici sulle opinioni coltivate all'interno della Confraternita. Peraltro la famiglia Gentili compariva negli elenchi dei membri della Confraternita già nel 1498, con il medico Matteo in qualità di priore, mentre nel 1564 figuravano i nomi del G. e di Pancrazio, oltre a quelli di Gregorio, Pietro e Lucentino. È da ricordare inoltre che alla fine degli anni Quaranta a San Ginesio erano affluiti libri ereticali dalla Germania; negli anni successivi tra Ascoli, San Ginesio e la vicina Amandola si verificarono episodi di distruzioni di immagini e di profanazioni di edifici ecclesiastici. Inoltre le campagne dell'Ascolano furono nel contempo teatro di azioni di bande armate, alimentate anche dalle turbolente discordie nobiliari.
Nel 1579 le denunce al tribunale inquisitoriale e alcuni arresti spinsero il G. ad allontanarsi da San Ginesio, in compagnia dei figli Alberico e Scipione, per evitare il processo e il carcere. L'itinerario della fuga si orientò in direzione di Lubiana, con un transito per Trieste, dove i fuggiaschi potevano contare sulla protezione di Niccolò Petrelli, cognato del G., che li raccomandò al barone Khisl von Kaltenbrunn. A Lubiana il G. ricevette, il 27 ag. 1579, la nomina a protomedico del ducato di Carniola con l'elevata retribuzione di 300 fiorini: tuttavia egli poté conservare l'ufficio solo per pochi mesi, perché un editto di Rodolfo d'Asburgo prevedeva la pratica della sola confessione cattolica e l'espulsione di quanti fossero sospetti di convinzioni eterodosse.
Nel contempo i figli Alberico e Scipione si erano diretti in Germania: Scipione si fermò a Tubinga; il fratello maggiore invece si recò, passando per Heidelberg, in Inghilterra, dove giunse nel 1580. Il G. lo raggiunse poco più tardi, sempre nel 1580, e si fermò con lui a Oxford, prima di trasferirsi a Londra.
Di pochi mesi successiva è una lettera del 26 febbr. 1581 diretta a Jean Hotman de Villers-Saint-Paul, figlio del noto giurista François, rifugiatosi a Ginevra e poi a Basilea dopo il massacro della notte di S. Bartolomeo (1572); nel 1579 J. Hotman si era trasferito in Inghilterra, e nel 1581 aveva ottenuto i gradi dottorali a Oxford, dove ora insegnava Alberico Gentili. Nella missiva il G. si compiaceva in primo luogo della stima nutrita dal francese nei confronti del figlio ed elogiava la "pietas" dei due Hotman, abbracciata e professata anche dai Gentili ed espressione del forte vincolo che né il diavolo né il papa ("daemone nequior") avrebbero potuto sciogliere. Il tono dell'invettiva si alzava nelle parole del G.: "crepent purpurati Romanenses cum sordido monacatu, monstro inexpiabili, inquit Scaliger". Seguiva un elogio delle virtù del corrispondente e l'esortazione, rivolta congiuntamente a Jean e ad Alberico, a non dimenticare mai l'opinione di Aristotele secondo la quale gli uomini "periti" stanno agli "imperiti", come i vivi stanno ai morti. Alto era anche il concetto, che contemporaneamente si diffondeva, della figura del figlio del G.; in una lettera allo stesso J. Hotman, William Watkinson manifestava un giudizio polemico sui dotti italiani ("vafri et versipelles"), ma escludeva da questa valutazione proprio Alberico.
Il G. dovette acquisire un certo ruolo nella Chiesa italiana di Londra: nell'agosto 1581 era infatti ricordato negli atti del concistoro per un intervento di pacificazione nei confronti di un dissidente, il tintore Gaspare de' Gatti, che veniva da lui ammonito ed esortato a ravvedersi; nel 1582-83, qualificato come "physician" e membro della Chiesa italiana, risiedeva nella zona di Cornehill Warde. Il 1° ott. 1599 e il 1° ott. 1600 il G. e suo figlio, indicati entrambi con il titolo dottorale, ricevevano un sussidio previsto da Elisabetta I per gli esuli di religione.
Frattanto nella patria San Ginesio l'uditore del cardinal legato della Marca aveva provveduto a pubblicare un decreto che prescriveva il divieto di assumere cariche nel governo locale per i condannati dal tribunale inquisitoriale, per i loro eredi e successori; la norma si estendeva anche in senso retroattivo e comportava la cancellazione dagli atti ufficiali dei nomi di quanti vi avevano esercitato uffici. Il G. e il figlio Alberico, oltre al nipote Gregorio e al cugino Pietro Gentili, furono vittime di questa damnatio memoriae. Si provvide anche a cassare il loro nome, "sì per la scomunica sì anche per rispetto delli Superiori", dallo statuto di San Ginesio, che Alberico aveva riformato nel 1577. Nel corso del 1591, durante una congiuntura critica che vide aggiungersi allo stato di carestia l'insorgere del tifo petecchiale, era deceduta a San Ginesio la moglie Lucrezia. Nel testamento, oltre a vari legati disposti a favore di conventi e confraternite del luogo per 45 fiorini e a minori lasciti ai figli di un fratello, Lucrezia lasciava le somme più rilevanti alla figlia Nevida, al marito di lei e ai tre figli (400 fiorini), indicando altresì come erede universale la stessa Nevida e diseredando dunque il G. e i figli Alberico e Scipione, che avevano abbandonato la patria e la fedeltà alla tradizione cattolica.
L'11 sett. 1600 Robert, figlio di Alberico residente a Oxford, dedicava al G. il Lectionis Virgilianae variae liber dello stesso Alberico, stampato a Hanau nel 1603.
Il G. morì nel 1602 e il 26 febbraio fu sepolto a Londra nel cimitero della chiesa di St. Helen a Bishopsgate, "proprio di contro ad un cespuglio di uva spina", dove il 21 giugno 1608 fu tumulato anche Alberico.
Permane nella critica un giudizio ambivalente sulla figura del G. (non privo di analogie con quanto avvenne, più ampiamente, nella valutazione di Alberico), che oscilla tra l'apprezzamento per la determinazione nel difendere le proprie idee - fino ad accettare l'esilio - e la deplorazione per le opinioni religiose professate, contrastanti con la nuova ortodossia tridentina. Un filo collega quanto scriveva a fine Settecento l'abate Telesforo Benigni, mettendo in risalto ruoli e uffici del G. (ma sfumando l'inchiesta del S. Uffizio in un riferimento a non meglio definiti "ministri del governo" che avevano proceduto contro la famiglia Gentili) e quanto nel 1934 declamava Arrigo Solmi, sottosegretario di Stato per l'Educazione nazionale, il quale celebrava lo spirito "ardente e spregiudicato" del G., e dunque la scelta dell'esilio in Inghilterra, rifugio di "liberi ingegni", ma considerava altresì la Controriforma che si stava riorganizzando in Italia una "difesa della civiltà minacciata dalla Riforma protestante". Di questo contrasto sono ulteriori esempi l'imbarazzo o la manifesta irritazione che aleggia negli scritti di erudizione locale, i quali talora sorvolano sul coinvolgimento del G. nel dissenso religioso cinquecentesco o altrimenti censurano l'ostilità di fine Ottocento per la celebrazione della famiglia Gentili.
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