DELLA PORTA (de Porta), Matteo
Nato nella prima metà del sec. XIII, il D. apparteneva a una famiglia del patriziato di Salerno che nelle proprie genealogie dei secoli XII e XIII indicava come capostipite il conte Aliberto, vissuto al tempo del principe Gisulfo di Salerno (1042-1077) e imparentato, a quel che pare, con la dinastia locale. Nel corso del secolo XIII vari membri della famiglia assurgevano al rango di milites;alcuni di loro ricoprirono la carica di giustiziere, altri ancora quella di giudice. Apparteneva alla stessa famiglia quel Giovanni Della Porta, elevato ad arcivescovo di Amalfi con il consenso di Anacieto 11, ma poi costretto ad abdicare perché Innocenzo II non riconobbe la sua elezione. Un altro Giovanni Della Porta i sempre della stessa famiglia, dal 1293 al 1312 fu vescovo di Capaccio.
Anche il padre del D. si chiamava Giovanni, ma di lui si sa soltanto che visse a Salerno mentre Eufranone suo fratello, e quindi zio del D., "nobilis civis Salerni", si trasferì a Messina, dove nel 1226 ricoprì la carica di giudice della città. Era considerato nella Sicilia orientale uno dei beneficiari del dominio svevo, grazie ai suoi buoni rapporti con Federico II. Questi nel 1239-40 gli affidò la delicata carica di custode del Tesoro a Napoli (custos erarii nostri).
Come il fratello Tommaso, anche il D. fece studi universitari. Ma mentre Tommaso sembra aver studiato diritto a Napoli per diventare più tardi avvocato fiscale (magne regie curie advocatus)e professore di diritto civile all'università di Napoli, vari indizi fanno pensare che il D. si recasse invece a Parigi per attendervi agli studi. Soltanto all'università di Parigi, infatti, poté diventare discepolo di Tommaso d'Aquino, che vi insegnò dal 1252 al 1259 e che più tardi sarà ricordato dal D. come "magister noster". Gli studi a Parigi valsero al D. una vasta dottrina. I papi e i contemporanei lo chiamavano infatti "magne sciencie vir".
Al tempo di Alessandro IV il D. entrò nella cappella pontificia in qualità di suddiacono e cappellano. Sin dall'inizio vi svolse principalmente funzioni di giudice. Già nel marzo del 1257, trovandosi nel palazzo del Laterano, si occupò della lite per la chiesa di S. Ilario a Todi. La sua sentenza fu confermata anche in seconda istanza perché il caso era stato dal D. "bene iudicatum". La grande conoscenza del diritto canonico, dimostrata in processi di questo genere, indusse Urbano IV a nominarlo, subito dopo la sua elezione a pontefice (1261), auditore generale dell'Audientia sacri palatii, un organo creato da Innocenzo IV (1243-54). Il D. diventò in tal modo uno dei giudici stabili della Curia romana. A ricordato nell'esercizio della sua nuova funzione per la prima volta nel gennaio 1262, quando fu incaricato dal papa di giudicare nella lite tra il monastero romano di S. Ciriaco e l'allora semplice chierico Giovanni Boccamazza, relativa a uno dei primi benefici del futuro cardinale. Nella stessa qualità il D. si occupò anche di una lite ecclesiastica a Fermo e definì i diritti, sia nobiliari sia ecclesiastici, sul castello di Trevi presso Anagni.
Durante il suo soggiorno a Orvieto, Urbano IV nominò il D., il 17 nov. 1263, arcivescovo di Salerno. Con questa nomina, avvenuta appena due mesi e mezzo dopo la morte del titolare precedente, il papa intendeva prevenire le mosse di re Manfredi, visto che l'arcivescovo defunto Cesario d'Alagno nel 1258 aveva assistito all'incoronazione dello Svevo a Palermo. La consacrazione del D. non avvenne subito, ma soltanto nel periodo tra il 1264 e il 1266. Prima della sconfitta di Manfredi il D. infatti non poté prendere possesso della sua diocesi e seguì quindi la Curia nei suoi spostamenti, a Orvieto, Perugia e Viterbo, vivendo dei proventi dei suoi vecchi benefici di cui Urbano IV gli aveva riservato l'usufrutto subito dopo la nomina a arcivescovo. L'unico atto del D. che risale a questo periodo è il trasferimento, deciso nell'aprile 1264 a Orvieto, dell'abate Giacomo di S. Benedetto a Salerno, al monastero di Ss. Trinità della Cava. Ma l'abate, contrariamente a tutte le prospettive, a Cava si dimostrò un partigiano di Manfredi, cosicché nel 1266 fu deposto dal legato pontificio nel Regno, Radulfo di Albano.
Immediatamente dopo la vittoria di Carlo d'Angiò su Manfredi nel febbraio del 1266, il D. si precipitò a Salerno, con una lettera di raccomandazione di Clemente IV al nuovo re di Sicilia. Già nell'aprile del 1266 si svolgeva davanti al giustiziere competente Fulco di Puyricard un processo, intentato dal D. personalmente, per il recupero dei beni della Chiesa salernitana a Battipaglia, alienati da Galvano Lancia. L'esito del processo fu favorevole al D. come anche quello di altri simili dibattuti davanti al giustiziere successivo, Gauselinectus di Tarascona. Pare che già al loro primo incontro Carlo d'Angiò insignisse il D. del titolo di familiare regio, dimostrando in tal modo la sua disponibilità a riservare al D. una posizione di fiducia alla sua corte, anche se altri prelati - come ad es. gli arcivescovi di Messina e di Cosenza, Bartolomeo Pignatelli e Tommaso da Lentini - erano più vicini al re dal punto di vista politico. Tra l'ottobre 1266 e il febbraio 1267 il D., che in quest'occasione consegnò al papa anche il primo censo feudale per il Regno di Sicilia, condusse trattative con Clemente IV sui tributi chiesti dal re alle chiese del Regno, richieste che avevano suscitato varie proteste e resistenze. Ma non riuscì evidentemente a convincere il papa delle ragioni del suo sovrano. Tra il gennaio e il giugno 1270 il D. fu ripetutamente presente alla corte del re, dove compare tra i testimoni di importanti atti di infeudazione o di contratti di matrimonio tra nobili. Carlo d'Angio invitò varie volte i suoi giustizieri a ricorrere al consiglio del D. in questioni riguardanti per es. la costruzione di ponti a Salerno e a Eboli, oppure la scelta di persone che dovevano sorvegliare i lavori di riparazione nel castello di Torremaggiore a Salerno. Per intervento del D. Carlo I restituì alla casa romana dell'Ordine ospitaliero di S. Antonio di Vienne l'ospedale di S. Antonio a Sarno.
In segno di venerazione nei confronti del suo maestro Tommaso d'Aquino, nel marzo 1272 il D. consegnò ai domenicani della provincia romana la chiesa di S. Paolo di Palearia in Salerno, per la costruzione del nuovo convento domenicano di S. Maria. Per quel che riguarda la difesa dei diritti della mensa arcivescovile, il D. venne ad un accordo con i vassalli ecclesiastici di Olevano sul Tusciano che rafforzò il privilegio, sempre contestato, della Chiesa salernitana di frangere le olive, che vi si raccoglievano abbondantemente, esclusivamente nei frantoi arcivescovili. Fece anche compendiare il privilegio di Guglielmo II relativo alla concessione di Montecorvino, al fine di garantire i diritti della sua Chiesa in questo feudo. Nel corso di un suo viaggio attraverso l'arcidiocesi concesse una indulgenza per sovvenzionare la costruzione di un ponte sul fiume Negro presso Laurino. Gregorio X lo incaricò di insediare un nuovo abate nel monastero di S. Salvatore a Sorrento e di esaminare l'elezione dell'abate di S. Maria in Elce nella diocesi di Conza.
Pare che negli ultimi anni di vita il D., come anche l'arcivescovo di Capua Marino Filomarino, avesse assunto un atteggiamento più critico nei confronti della prassi di governo di Carlo d'Angiò, nonostante la stretta collaborazione dei suoi famigliari con il nuovo sovrano, che aveva confermato suo fratello Tommaso nella carica di avvocato fiscale presso il tribunale della Magna Curia, esercitata già al tempo di Manfredi e conservata fino alla morte nel 1279 circa, e nominato nel 1268-69 un altro cugino del D., Bartolomeo, figlio di quell'Eufranone che si era trasferito a Messina, giustiziere della Sicilia occidentale. Il D. sembra essere stato ben conscio delle conseguenze negative, sia per la Chiesa sia per i sudditi, dell'interpretazione così estensiva data da Carlo d'Angiò ai diritti della Corona. Saba Malaspina riferisce infatti che il D. aveva l'intenzione di investire della questione il concilio convocato da Gregorio X nel 1273 a Lione e di sollecitare in questa sede una riforma della "status regni" e l'abolizione delle imposte ingiustificate, visto che nel Regno tutte le persone deluse dalla politica dell'Angioino vedevano in lui un "fortis pugilis" e un "athieta securus" dei loro diritti. Ma la morte colse il D. già prima dell'inizio del viaggio, il 25 dic. 1273 a Salerno. Fu sepolto nell'atrio della cattedrale, dove la sua lapide sepolcrale con l'iscrizione era visibile ancora nel secolo XVII.
Il D. aveva intrattenuto rapporti intellettuali anche con uomini di cultura non ecclesiastici. Fu lui a spingere il giudice messinese Guido Delle Colonne, strettamente legato alla sua famiglia, alla redazione della Historia destructionis Troiae. Guido considerò talmente importante il suo "stimulus et instinctus" che dopo la morte del D. interruppe l'opera, di cui aveva completato solo il primo libro, per finirlo soltanto quattordici anni più tardi, nel 1287. Non ci sono pervenute opere del D. stesso.
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