BOSSO, Matteo
Nacque a Verona intorno al 1427 da Giovanni, che compare tra i cittadini di Verona nel 1452 come "aurifex de Mediolano", e da una Sofia di cui si ignora il casato. A Verona compì i primi studi; a Milano, presso i parenti Cambio e Girolamo Bosso conobbe Francesco Filelfo e fu alla scuola di Pierleoni da Rimini. Da Milano, forse per l'agitata situazione politica venutasi a creare all'indomani della morte di Filippo Maria Visconti, il B. fu richiamato dai familiari a Verona, ove incontrò Ermolao Barbaro. Attratto dalla parola di Timoteo Maffei, decise di abbracciare lo stato sacerdotale chiedendo di essere ammesso tra i novizi del convento di S. Leonardo dei canonici regolari lateranensi di Verona. Il 5 genn. 1451 ricevette l'abito religioso.
Sotto la guida del Maffei il B. si recò a Padova, ove attese a un corso regolare di studi filosofico-teologici e retorico-letterari. Fu in un primo tempo maestro dei novizi, poi segretario del priore: in questo ufficio lo troviamo nel 1455 a Bologna, nel 1457 a Rimini. Nel capitolo generale del 1458 si recò in Savoia; fu a Genova tra il 1458 e il '59; nell'estate del '59 si recò a Mantova per prendere possesso del convento di S. Vito. È ancora a Genova tra il 1461 e il '62; nel 1463 è ad Alessandria dove compone il De tolerandis adversis dedicato al fratello Giovan Filippo, anch'egli canonico regolare lateranense. Ancora ad Alessandria scrive il De veris et salutaribus animi gaudiis dedicato a Timoteo Maffei; a Mantova, nel 1465, compone il De gerendo magistratu iustitiaque colenda, un opuscolo dedicato a un suo parente, il giureconsulto milanese Gian Ludovico Bosso.
A Verona, tra il 1467 e il '68, fu eletto priore e l'anno successivo fu per la prima volta compreso fra i quattro visitatori del 1468-69. Dal 1470 al '72 fu priore a Genova, ove si dedicò alla riforma dei monasteri femminili: un'opera per la quale ebbe l'appoggio diretto di Sisto IV.
Nel capitolo generale di Ravenna del 1472 fu designato visitatore e priore di Reggio Emilia (ove strinse amicizia con la famiglia Zobolo); esercitò ancora il priorato a Ravenna (1474-75) e poi a Mantova, da dove indirizzava ad Alberto Zobolo una lunga lettera De adolescentia instituenda. A Mantova rimase sino al 1479, allorché fu designato priore a Padova. Fu ancora priore a Mantova (1480-81), a Bologna (1481-82), a Venezia (1483) e, dopo un viaggio a Roma, ove soggiornò nel gennaio 1484, a Fiesole. Tra il 1486 e l'88 fu impiegato per una missione in Curia in qualità di procuratore generale dell'Ordine. Nel 1488-89 è tra i visitatori e l'anno successivo appare ancora titolare del priorato fiesolano. Rimanendo a Fiesole fino al 1492, poté adoperarsi presso Lorenzo de' Medici perché fosse completata la costruzione del coro e della facciata del convento di S. Bartolomeo. Al B. il Magnifico commise il conferimento delle insegne cardinalizie a Giovanni de' Medici, creato cardinale in pectore nel 1489. Dal 1492 al gennaio 1493 il B. è di nuovo a Roma forse per prestare il giuramento d'obbedienza in nome dell'Ordine ad Alessandro VI e ottenere dal pontefice la conferma dei privilegi.
Significativa è, nelle lettere scritte da Roma in questo periodo, la sospensione di ogni giudizio nei riguardi di Alessandro VI: "De ipso pontifice adhuc certum nihil expressumque homines intueri possunt...". Perplessità contrastante col giudizio ben altrimenti deciso sulla città e la Curia pontificia: "...qui immortalia meditare cupit... Babylonem non habitet, quin si habitat quantum quidem pedibus potest ab ea se repente praeripiat... His temporibus viris bonis et studiosis, minus loci quam malis et ignavis inest; omnia sancta, omnia egregia, omnia laudabilia commigrarunt".Nel maggio 1493 il B. partecipò al capitolo generale di Piacenza, dal quale gli fu affidato il priorato di S. Leonardo a Verona. Rimase nella città natale fino al 1494, allorquando il nuovo capitolo lo assegnò a Ravenna: il 5 maggio del 1494 aveva già raggiunto la nuova sede, ove rimase per tutto il 1495-96. Da Ravenna fu mandato a Ferrara, ove organizzò la costruzione di una nuova chiesa dedicata a S. Giovanni Battista. Per la visita alle comunità lombarda ed emiliana egli intraprese, tra il '96 e il '97, una serie di viaggi che lo condussero successivamente a Pavia, a Milano, a Piacenza, a Reggio (ove soggiornò dalla fine di dicembre fino al marzo del 1497), e poi a Bologna, ove si teneva nel maggio di quell'anno il capitolo generale dell'Ordine. Il B. venne designato per la sede di Verona: qui il 27 genn. 1498 assistette alla morte del fratello. Le sue condizioni fisiche divennero in questo periodo estremamente precarie. Nel capitolo generale del 1498 gli fu assegnata la sede di Venezia. A Brescia, dove si era recato per raggiungere Venezia, il B. risiedette, forse perché ammalato, per tutto il 1499 e ancora nel marzo del 1500. Dal capitolo del 1500 gli fu assegnata la sede di Padova, ove probabilmente si spense nel 1502 (a tale data, comunque, si interrompe la sua corrispondenza). L'anno precedente aveva partecipato al capitolo generale dell'Ordine che si tenne a Cremona. A quello dell'anno successivo, che ebbe come sede Ravenna, il B. aveva fatto pervenire una lettera inviata per mezzo di un confratello.
Uno dei primi scritti del B., il De veris et salutaribus animi gaudiis, risale probabilmente al 1463, ma fu stampato, forse per interessamento di Pico della Mirandola e del Poliziano, solo nel 1492, a Firenze.
Èun dialogo che ha per interlocutore del B. il canonico Serafino da Padova. Tratta del gaudio dei perversi, dei buoni e dei beati: nella prima parte il B. trova modo di confutare l'antica dottrina di Aristippo e di correggere in senso moraleggiante quella di Epicuro. Il problema dell'immortalità dell'anima, che viene introdotto per contrasto con la teoria di Epicuro, viene svolto secondo una tradizione rigidamente agostiniana. Nella seconda parte del dialogo si pone il problema del perché gli uomini probi siano spesso afflitti dai mali, e si conclude che ciò proviene per rafforzare la loro virtù, la saldezza della coscienza e la fede in Dio: nulla, del resto, può venire da Dio che l'uomo non possa volgere in bene, considerandolo come voluto dalla provvidenza. Nella terza parte l'argomento investe il problema della beatitudine dei santi, che si può godere anche sulla terra. Questa, tuttavia, non consiste nei beni della fortuna, nelle ricchezze e nella potenza, ma nella contemplazione di Dio e delle bellezze del creato. Si tratta infine della resurrezione dei corpi e delle pene del purgatorio atte a disporre le anime a una perfetta visione di Dio.
Il problema dei mali che affliggono gli spiriti migliori affiora anche nel dialogo De tolerandis adversis, pubblicato nel 1492col primo volume delle lettere dette Recuperationes faesulanae. Identica è la risposta data al problema: dopo una breve rassegna di opinioni tratte da scrittori classici si giunge alla conclusione che il male fortifica la virtù e rende degni della gloria del paradiso. La virtù consiste in un progressivo allontanamento dai beni della vita. La soluzione mistica sembra l'unica possibile atta a prevenire la terribile vendetta che si scaglierà contro i reprobi nel giorno del giudizio.
Più interessante appare il trattatello in quindici capitoli De gerendo magistratu iustitiaque colenda diretto a Giovan Lodovico Bosso, con lettera dedicatoria del 15 ott. 1465, e pubblicato anch'esso nel '92. Ilprimo problema che si affronta è quello che riguarda il reggimento dello Stato: tra monarchia, oligarchia e governo popolare il B. si pronunzia a favore della prima forma di governo ("regiam maiestatem, seu Dei imitatricem, qui solus praesidet atque imperat omnibus; horum optimam esse voluit veterum philosophorum auctoritas, popularem vero gubernationem deterrimam; primatum clarorum civium mediam"). Quale che sia comunque il governo, spetta al magistrato uniformarsi alle leggi naturali e pubbliche, farle rispettare, convinto che ogni autorità viene da Dio, fondamento di ogni bene. Segue una minuta precettistica morale (dedotta, come di consueto, da esempi classici) atta a formare il perfetto magistrato.
Ultimo in ordine di tempo è il trattato De instituendo sapientia animo. Composto a Verona nel 1494 e pubblicato nell'anno successivo a Bologna nella stamperia di Platone de' Benedetti, reca la lettera dedicatoria a Severino Calco datata 19 sett. 1495.L'opera risulta costituita da otto dispute vertenti sul concetto di filosofo e di sapiente. Si determina una discriminazione insanabile fra gli antichi sapienti, che restarono estranei alla scienza divina (e sono accomunati, senza discriminazione, accademici, stoici, pitagorici) e coloro che raggiunsero la vera sapienza mediante la fede in Dio: primo fra tutti s. Paolo. Unica fonte di sapienza umana è il timore di Dio: per questo la saggezza degli antichi è falsa, contaminata da un erroneo ideale di vita, da una riprovevole condotta pubblica, e soprattutto da una illusoria concezione dell'anima, cui soggiacquero in pari misura Socrate, Platone, Pitagora, Democrito, Diogene e Aristippo. Laddove alla sapienza occorrono principalmente le virtù teologali e cardinali, un fermo dominio di sé stessi, un disprezzo assoluto delle cose del mondo. Strumento indispensabile per la perfezione individuale è la preghiera, che sostituisce il peccaminoso ricorso alle stelle, al fato, all'opera degli astrologi. Questa pratica - conclude il B. - è quella che sostanzialmente differenzia i moderni sapienti dagli antichi filosofi, che si travagliarono invano senza poter raggiungere Dio.
Veniva così a scartarsi, in questo scritto che è il più maturo e il più interessante fra tutti i trattati del B., la soluzione ficiniana della "docta religio" tendente a un recupero in chiave religiosa della sapienza antica più facilmente assimilabile al credo cristiano. Ciò portava nel B. a una accentuazione mistica, che si riscontra in numerose lettere-trattato comprese nell'Epistolario (nel De mundi fugaatque contemptu a Filippo da Parma, nel De studiis litterarum religiose colendis ai fratelli Giovan Battista, Desiderio, Adeodato, nel De instituendo sacro Christi praecone a Giustiniano da Verona), ma immunizzava anche la sua dottrina da scelte troppo pericolose, che portarono proprio il Ficino ad accogliere, seppure momentaneamente, il verbo savonaroliano. C'è, insomma, nell'ultimo trattato del B. il tentativo di dissipare l'equivoco dell'umanesimo cristiano sottolineando da un lato gli elementi dell'ideologia religiosa incomunicabili con il pensiero antico, e relegando, d'altro canto, gli spunti della tradizione filosofica classica a puri accessori retorico-letterari: che era un'operazione in atto anche fra gli interlocutori diretti del Ficino: basti pensare a Giovanni Unghero e allo stesso Pico della Mirandola.
Tale tentativo fu impossibile al B. in virtù di una pratica sacerdotale rigorosa e intransigente. Il rigorismo del B. è ben avvertibile nelle prediche pubblicate nell'Epistolario, da quell'oratio sulla legge suntuaria emanata a Bologna nel marzo del 1453 alla prima delle due prediche In beata Domini coena, ove l'autore insiste sulla fede come presupposto indispensabile del dono dell'eucarestia, alla seconda predica sul dono eucaristico, in cui il B. quasi si scusa se non potrà corrispondere alle aspettative degli uditori più esigenti, esercitato com'è "populari illo generi dicendi, quod liberum est et varium et maternis verbis collectum", e dove ogni forma di erudizione viene bandita per lasciar posto alle Sacre Scritture.
Anche nella prima parte dell'Epistolario, intitolata Recuperationes faesulanae (Firenze 1492) per il lavoro di recupero delle lettere che il B. compì in vista dell'edizione durante il suo priorato a Fiesole, l'autore insisteva non tanto sui pregi di eleganza letteraria quanto sulla verità della dottrina contenuta nell'opera. Nella lettera dedicatoria a Pietro Barozzi, vescovo di Padova, premessa alla seconda edizione delle Recuperationes (Bologna 1493) il B. dichiarava apertamente che il suo stile, non pretenzioso né ambizioso, era teso soltanto a dar gloria a Dio fra gli uomini. Nel 1498 videro la luce a Bologna e a Mantova le Familiares et secundae Matthaei Bossi epistolae:anche in questa occasione il B. non mancava di sottolineare il senso della propria insufficienza letteraria rispetto ai grandi esempi della epistolografia classica e cristiana. Il terzo volume delle lettere del B., col titolo di Epistolarumtertia pars, uscì a Venezia il 13 ag. 1502, e non fu ristampato. Fu anche ignorato dall'Ambrosini, che del B. ristampò a Bologna nel 1627 Opera varia.
Dall'Epistolario del B. traspaiono, oltre ai giornalieri rapporti con i fratelli, frequenti legami che strinsero il veronese al mondo dei dotti. Durante i numerosi viaggi che lo portarono al priorato, in varie città dell'Italia settentrionale e centrale, il B. contrasse amicizia con personaggi famosi, quali Giovanni Pico, il nipote Giovan Francesco e il vescovo di Arezzo Gentile de' Becchi, Pandolfo Collenuccio e Panfilo Sasso, Guarino Veronese ed Ermolao Barbaro.
Nonostante questa trama di intense relazioni, il giudizio del B. sugli uomini e gli avvenimenti della sua età rimane sempre limitato a ragioni d'ordine moralistico, come testimoniano anche i giudizi espressi sui massimi politici della sua epoca, Cosimo de' Medici, Lorenzo, Francesco Sforza.
Come generici sono i giudizi del B. sulla storia contemporanea, così sono, generalmente, indiscriminate le valutazioni sugli scrittori classici, non mancando il B. di ribadire il pericolo insito nell'opera di un buon maestro che intendesse dare in lettura ai giovani allievi opere di autori non perfettamente consentanei allo spirito cristiano. Sconsigliava poi la lettura dei poeti come quella che troppo si sofferma su favole puerili o su rappresentazioni di mondani sentimenti; raccomandava invece quella degli oratori perché in genere essi trattano di questioni morali e perché la loro arte, oltre a provocare un lecito diletto, giova notevolmente ai religiosi che si preparano alla sacra eloquenza.
Bibl.: S. Maffei, Verona illustrata, Verona 1732, pp. 85 ss.; G. B. Giuliari, Della letteratura veronese al cadere del sec. XV, Bologna 1876, passim;V. Viti, La Badia fiesolana, Firenze 1926, pp. 84 ss.; N. Widloecher, La Congregazione dei canonici regolari lateranensi (1402-1483), Gubbio 1929, pp. 340 ss.; E. Nasalli Rocca, Il cardinale Bessarione legato pontificio in Bologna (1450-1455), in Atti e mem. della R. Deputaz. di storia patria per le Romagne, XX (1931), pp. 17 ss.; P. Sambin, La formazione quattrocentesca della biblioteca di S. Giovanni Verdara in Padova, in Atti dell'Ist. veneto di sc. lett. e arti, CXIV (1951-56), pp. 753 ss.; G. Soranzo, L'umanista canonico regolare lateranense M. B. di Verona (1427-1502), Padova 1965.