URBANI, Massimo
URBANI, Massimo. – Nacque a Roma l’8 maggio 1957 da Ugo e da Maria Teresa Tamantini, primogenito di cinque fratelli: seguirono Maurizio (musicista anch’egli), Marco, Gianni e Barbara.
Il padre faceva vari mestieri, dal fabbro all’infermiere; anche la madre era stata infermiera e poi casalinga. Da piccolo, senza una specifica preparazione formale, Urbani cominciò a suonare il clarinetto nella banda del quartiere Monte Mario, poi passò ben presto al sax contralto. Talento precocissimo, scoprì il jazz ascoltando in casa i dischi del padre.
Nel 1972 il quindicenne sassofonista si impose all’attenzione del pubblico romano grazie a Mario Schiano, che lo aveva ingaggiato nel suo nuovo gruppo conducendolo sulla strada del professionismo. Le apparizioni concertistiche fecero sensazione, anche se il pur eccellente disco Sud ne restituisce solo in parte la travolgente energia. In quell’anno, assieme ad altri giovani talenti, Urbani frequentò per alcuni mesi da uditore il pionieristico corso di jazz tenuto da Giorgio Gaslini nel conservatorio di S. Cecilia a Roma. Suonò con i colleghi del corso e con Gaetano Liguori. Qualche tempo dopo Gaslini lo volle nel suo gruppo, con esiti alterni: la razionale impalcatura musicale del pianista spesso collideva con l’acerba irruenza del sassofonista (lo comprova il disco Message, a nome di Gaslini). Ma nel 1973 l’apparizione al Festival del jazz di Bergamo lasciò il segno.
Dopo una breve esperienza con gli Area, nel 1974 entrò nel quartetto del trombettista Enrico Rava, che all’epoca si muoveva tra New York e Roma. Benché documentato da un unico album, non particolarmente rappresentativo, il quartetto con il bassista statunitense Calvin Hill e il batterista brasiliano Nestor Astarita si impose come una delle formazioni italiane più originali del momento. Rava portò Urbani negli Stati Uniti, dove egli attrasse l’interesse di molti musicisti; e in quel gruppo, rimasto attivo con altre sezioni ritmiche fino al 1978, raggiunse la definitiva maturità artistica.
Musicista istintivo e naïf, spiccava per la carica espressiva, l’urgenza emotiva, che prendeva forma in un estro solistico torrenziale, sovrabbondante, a tratti logorroico, sospinto da una fantasia inesausta. Lo alimentavano i modelli più diversi: Charlie Parker innanzitutto, il suo idolo, e poi Gato Barbieri, John Coltrane, Eric Dolphy, Ornette Coleman, in qualche misura Albert Ayler, assimilati con impressionante abilità mimetica. Queste influenze erano amalgamate in un suono elettrizzante, dall’intonazione lievemente crescente, articolato in un fraseggio traboccante e vertiginoso. Già nel 1974 fu chiaro che mai il jazz in Italia aveva visto sbocciare un talento di tale potenza e intensità: il suo primo disco, inciso per la Horo nella serie Jazz a confronto 13, ne dava incisiva testimonianza.
In quello stesso anno si colgono anche i primi sintomi della tossicodipendenza, che da quel momento condizionò la carriera di Urbani nel segno dell’inaffidabilità, della discontinuità qualitativa e del nomadismo professionale. A questa condizione si aggiunse la scelta di non uscire dal ristretto ambito del jazz romano, in una dimensione provinciale che lo tenne fuori dai grandi giri internazionali, dove avrebbe potuto primeggiare.
Per queste ragioni dalla fine degli anni Settanta la dimensione musicale di Urbani si disperse in jam sessions e gruppi occasionali. Con poche, importanti eccezioni: nel 1975 collaborò con il complesso Anamorfosi, insieme con il pianista Antonello Salis; con quest’ultimo suonò anche tra il 1975 e il 1977; si affiancò brevemente a Lester Bowie (1977) e Chet Baker (1978), mentre stabilì collaborazioni più continue con Larry Nocella (dal 1980), Franco D’Andrea (1980) il Saxophone Summit (dal 1981) e soprattutto con il quartetto di Enrico Pieranunzi (1980-81), con il quale incise l’album Isis. Dal 1979 diresse alcuni rari gruppi stabili a proprio nome, spesso con Danilo Rea al pianoforte e Furio Di Castri al contrabbasso.
Nel 1979 l’etichetta italiana Red Records pubblicò l’album 360° Aeutopia con una prestigiosa ritmica americana (Ron Burton, Cameron Brown, Beaver Harris): fu salutato come il capolavoro di Urbani e ne segnò la consacrazione critica. Seguirono, tutti della Red Records e con ritmiche italiane, gli eccellenti Dedication to A.A. & J.C. (1980), Via G.T. (1986), a nome di Giovanni Tommaso, Easy to Love (1987), The Blessing (1993). Quest’ultimo conta tra i suoi dischi più riusciti e contiene un sorprendente Blues for bird per solo sax contralto.
Ma la documentazione più cospicua dell’arte di Urbani si annida negli innumerevoli dischi dal vivo registrati nei concerti più disparati, in gran parte pubblicati postumi, testimonianza dell’inesauribile ispirazione del sassofonista e al tempo stesso della dissipazione del suo talento. Nelle numerose collaborazioni saltuarie con altri musicisti Urbani arrecò sempre il contributo del proprio virtuosismo acceso e appassionato, indifferente al contesto stilistico nel quale era chiamato a intervenire.
Urbani si dibatteva tra due indirizzi stilistici opposti. Da un lato dominava l’adesione al be-bop di Parker, anche nella scelta del repertorio (e finanche nella tossicodipendenza), tutto circoscritto ai classici ‘standard’ della canzone nordamericana, affrontati come piattaforme di lancio per assoli infuocati, senza alcun interesse per arrangiamenti o riarmonizzazioni. D’altro canto Urbani preferiva a volte il linguaggio modale: basato su sequenze di armonie statiche e aperte, sotto l’ispirazione di Coltrane, esso consentiva lo sfogo di quelle tendenze al limite dell’informale che fin da giovane avevano ispirato il suo gusto per l’esibizione solistica. Questo duplice orientamento rimase a lungo irrisolto, fino a che gradualmente prevalse la devozione per Parker, celebrata anche ricalcandone momenti della carriera, come nel disco Round about Max with Strings (1991), realizzato con l’ausilio del pianista Gianni Lenoci.
Morì il 24 giugno 1993 per un collasso cardiocircolatorio causato da una overdose di eroina, quasi alla stessa età del suo idolo Parker.
Nel 1995 il regista Paolo Colangeli ha diretto il documentario Massimo Urbani nella fabbrica abbandonata. Nel 2016 è stato annunciato il documentario Massimo Urbani: l’uomo che parlava jazz di Alessandro Rubinetti, di cui però è noto soltanto il trailer.
Dal 1996 a Urbisaglia – nella cittadina marchigiana il musicista aveva tenuto nel 1984 un concerto poi confluito in un album discografico – è stato istituito il premio Massimo Urbani, promosso dal produttore maceratese Paolo Piangiarelli, che con la sua etichetta Philology molto ha fatto per il sassofonista negli ultimi anni della sua breve vita. Il concorso si è affermato come un prestigioso riferimento per la valorizzazione dei giovani talenti e nel 2007 è diventato internazionale. L’attività è rallentata dopo il sisma del 2016.
Fonti e Bibl.: A. Zoli, Storia del jazz moderno italiano. I musicisti, Roma 1983, pp. 82 s.; M. Piras, M. U., in Musica jazz, 1995, n. 10, pp. XXXVII-XLV; C. De Scipio, L’avanguardia è nei sentimenti. Vita, morte, musica di M. U., Roma 1999; P. Musa, Go Max Go. Romanzo musicale, Cagliari 2016.