MASACCIO (Tommaso di ser Giovanni di Mone detto M.)
Pittore. Nacque a S. Giovanni Valdarno (Arezzo) il 21 dicembre 1401, morì a Roma nel 1428 o nel 1429. Si trova a Firenze nel 1422 iscritto all'Arte dei medici e speziali, e nel 1424 alla Compagnia di S. Luca. Nel 1426 lavorava a Pisa un polittico per il Carmine: teneva per garzone Andrea di Giusto da Firenze, e aveva frequenti rapporti con Donatello, che allora operava nella stessa città. Nel 1427 era a Firenze col suo fratello minore Giovanni, che lu anch'egli pittore; ma già nel 1429 veniva denunciata a Firenze la sua morte, avvenuta a Roma.
Alla scarsità di notizie, d'altronde ovvia per così breve vita, contrasta la grande fama che circondò subito M., in cui il Rinascimento fiorentino, sino a Michelangelo e a Raffaello, vide un iniziatore e un maestro. Ma, già nel Rinascimento, alla fama di M. non dovette accompagnarsi la sicura conoscenza delle sue opere minori: e se artisti e scrittori fiorentini antichi, al saggio di gran parte della critica d'oggi, appariscono bene informati della sua opera maggiore - la cappella Brancacci - cui erano rivolti lo studio e l'ammirazione di tutti, essi stessi (Michelangelo come il Vasari) sembrano avere generato intorno ai dipinti minori di M., o lontani da Firenze o meno noti, la confusione che un'altra parte della critica ha accresciuto, fondandosi sulle loro attestazioni, per coordinare in una sola unità le opere di M. con quelle che ben più ragionevolmente possono integrare la figura di un altro artista: Masolino (v.). Questi, che il Vasari accennò come maestro di M., visse ancora un ventennio dopo la morte del supposto discepolo, ed ebbe con M. relazioni d'arte e di lavoro così complesse che non meraviglia la lunga controversia, non ancora composta, nel distinguere le opere dei due.
Tralasciando di seguire nei meandri delle argomentazioni i critici che riuniscono sotto il nome di M. molti dipinti di Masolino, ci proponiamo di conoscere prima l'arte di M. nelle opere più certe, anzi nel capolavoro ultimo - la cappella Brancacci. Vi risaltano tali caratteri che escludono per necessità le opere masoliniane, in cui essi non si ritrovano nemmeno in formazione; e dànno il mezzo di risalire ai primi inizî dell'artista.
Sugli affreschi della cappella Brancacci, risparmiata dall'incendio (1771) che devastò la chiesa di S. Maria del Carmine, a Firenze, non si hanno documenti, ma vi è pieno accordo tra gli antichi Fiorentini che poterono raccogliere coi giudizî degli artisti anche le tradizioni vive nel convento del Carmine; dall'autore dell'opuscolo Uomini singolari in Firenze dal MCCCC innanzi, il quale conobbe il fratello di M. e ne poté essere bene informato, a F. Albertini (1510), al Vasari, tutti li riconobbero opera di tre diversi pittori: Masolino, M., Filippino Lippi. Il Vasari partitamente attribuì a Masolino gli affreschi, poi scomparsi (1748 circa), della vòlta e delle lunette, la Resurrezione di Tabita e la Guarigione dello storpio, la Predica di S. Pietro; a M., che avrebbe proseguito l'opera tralasciata dal primo, il Tributo di Cristo, S. Pietro che battezza, I Ss. Pietro e Giovanni che guariscono con l'ombra gli infermi, la Resurrezione del figlio del re Teofilo e S. Pietro sulla cattedra d'Antiochia, lasciata incompiuta, e poi finita con il resto della cappella, assai dopo, da Filippino Lippi. Nessun dato cronologico: ma, al paragone del polittico per Pisa (1426), gli affreschi attribuiti a M. hanno un fare così sviluppato da dovergli essere, piuttosto che contemporanei, in gran parte posteriori, eseguiti dal 1426 al 1428, immediatamente prima che il maestro si recasse a Roma.
Al primo osservare la cappella Brancacci, chi non si sia già involuto nelle ipotesi e negli accomodamenti della critica, scorge netta la distinzione dei tre maestri riconosciuti dagli antichi: e, a parte quanto vi dipinse Filippino Lippi, su cui non v'è incertezza, vi avverte due modi di vedere diversi, malgrado qualche tenue somiglianza, che rispondono a due coscienze profondamente differenti, della vita e dell'arte. Negli affreschi attribuiti a Masolino, salvo qualche breve tratto, c'è un senso superficiale della forma corporea e della vita interiore ch'è in pieno contrasto con la profondità fisica e spirituale degli affreschi attribuiti a M. Il contrasto è fortissimo nell'immediato confronto, sul limitare stesso della cappella Brancacci, tra il sottile e manierato Peccato originale, di Masolino, e la Cacciata dal paradiso terrestre, di M. (XIX, tav. CLXXXI). Questi scruta a fondo l'animo dell'uomo e della donna nella colpa e nel castigo, e lo esprime in una forma che sorge, fuor d'ogni convenzione, dalla sua ispirata visione. Serve il cupo sfondo indistinto a porre in più rilievo i due umani: Adamo si allontana rapido, consapevole della forza che lo respinge, ché il castigo desta in lui virilmente la coscienza della colpa, ma Eva cede più lenta, alzando il pianto, per implorare ancora. Viva luce sfiora le due figure, e con l'ombra le scompone in così larga maniera che se ne scorgono soltanto certi tratti essenziali a quella potente definita espressione dell'intimo: la salda corporeità, non inerte, anzi in moto intenso entro quell'onda di luce; l'aspetto individuale, non circoscritto in particolari, anzi assommato in pochi accenti che gli consentono un valore universale, come ben si vede nella tragica maschera di Eva.
Nell'intimo e nella forma è piena antitesi col Peccato originale dipinto da Masolino: non vi è traccia, nell'affresco di M., dei concetti decorativi derivati a Masolino dalla pittura gotica, adagiata in ritmi convenzionali, in eleganti riduzioni piane del visibile e nella inerente superficialità spirituale; vi domina invece la volontà di rivelare il profondo dell'animo; e si vale di una maniera pittorica tutta propria, che nasce dal senso e dall'intero essere dell'artista: nell'affresco della Cacciata dal paradiso terrestre l'azione drammatica, violenta e precisa, è potentemente definita nello spazio in salde forme corporee plasmate con masse d'ombra e di luce che la esprimono in pieno movimento.
Gli altri affreschi attribuiti a M. nella cappella Brancacci, che davvero gli appartengono, manifestano in modo coerente, anche più alto, la figura e l'arte di lui; quelli invece già in antico assegnati a Masolino, ancora superstiti, non si possono credere di M., con parte dei critici moderni, senza trascurarne le sostanziali divergenze nella concezione dello spazio e dei volumi, nella fattura, nel contenuto psicologico. Soltanto nella Guarigione dello storpio la figura dell'infermo, e qualche tratto, ma più incertamente, della Resurrezione di Tabita accennano il vigoroso ombreggiare di M. e possono far supporre che Masolino abbia lasciato incompiuto in poche parti quell'affresco, finito poi da M. prima di passare alle altre "storie", dove spiegò liberamente la sua arte.
Forse M. riprese la decorazione interrotta da Masolino, prima che con la Cacciata dal paradiso terrestre, dal S. Pietro che battezza e la proseguì poi nelle altre due storie - I Ss. Pietro e Giovanni che guariscono con l'ombro gl'infermi; S. Pietro che distribuisce ai poveri il denaro di Anania - nella stessa parete in fondo alla cappella; ma non vi sono ragioni sicure per dimostrare tale successione nel lavoro, compiuto per certo in breve tempo: e anche nelle anguste superficie di quella parete l'artista trovò libertà di composizione non meno che nel vasto Tributo di Cristo. Nel S. Pietro che battezza, più offuscato degli altri affreschi ma che pur s'intravvede dipinti, con uguale larghezza di chiaroscuro, si accalca il piccolo gruppo dei battezzandi facendo cerchio alle figure principali: l'ignudo inginocchiato che attende misticamente quasi di mondarsi della sua spoglia faunina, il santo che compie grave l'atto rituale. Emerge qua e là qualche tratto individuale (il Rinascimento ammirava l'atto di un ignudo che trema dal freddo) ma l'insieme è puro dalle accidentalità della scena di genere, non esprime che la religiosità del rito, l'ansia di parteciparvi: sensi esaltati a potenza eroica nelle atletiche figure ch'essi improntano e dominano. Nel S. Pietro che distribuisce il denaro e nei Ss. Pietro e Giovanni che guariscono con l'ombra gl'infermi (I, tav. CXII) sembrano prendere maggior valore i tratti aneddotici, tanto è determinato lo sfondo di strade e di case, tanto sono differenziate le figure dei poveri e degli infermi: e rivelano quale osservatore di aspetti contingenti sia stato M.; ma anche in essi il pittore riesce a significati semplici e universali - di spazio negli sfondi, di affetti nelle figure -; e nel lor mezzo più grandeggia idealmente la figura del santo che nel primo affresco detta una sicura legge morale, nel secondo sembra, inconsapevole del miracolo, attingere la sua virtù prodigiosa dal mondo spirituale in cui profonda lo sguardo.
C'è nell'immaginare di M. un vigore che nulla deriva dalla tradizione figurativa, e trova solo un'occasione nella sacra leggenda, che l'artista medita, interpreta e fa rivivere improntata al proprio spirito, grave, severo. Nell'attuazione pittorica crea egli un mondo visibile in cui s'impongono a forza in noi il senso della profondità e del rilievo; ma alla struttura di esso toglie ogni geometrica regolarità, animandola di un fattore infinitamente vivace: la luce, non vaga, anzi definita nella sua qualità, nella sua direzione. Nella forma pittorica ha M. la stessa complessa semplicità ch'è nel suo ideare: assai più che del disegno e dei toni del colore si serve dei valori luminosi ma in funzione dello spazio e del rilievo, mezzi essenziali a lui, come già a Giotto, per esprimere l'uomo.
Nel Tributo di Cristo - l'affresco più ammirato dagli antichi - tre diversi momenti del racconto evangelico (la richiesta della gabella alle porte di Cafarnao; il denaro trovato da Pietro nel pesce; la gabella pagata) hanno unità nell'ampia ponderata composizione in cui tutto gravita al mezzo. Gli apostoli attorniano il Redentore al quale il gabelliere chiede il pedaggio: immobili figure, il cui largo gruppo dà massa alla parte centrale, e forma silenzioso coro all'azione che esalta l'immediata fede di Pietro, il quale ode il Cristo e subito ne ripete il gesto e le parole, certo della loro verità. Ma pure ha un suo profondo significato nella rappresentazione anche la loro immobilità: intenti solo alla sua dottrina, attendono che il Cristo risolva (e lo risolve con così sicuro e dolce imperio) l'ostacolo terreno della legge - l'intruso gabelliere - e prosegua nell'insegnare. Si perde nell'opaco lontano lo sfondo montuoso; più da presso, alberi sono segnati con audace sprezzatura, con leggerezza atmosferica; nel primo piano la luce investe le figure, le forma di sé, delle ombre: e M. sembra non guardare ad altro che ai suoi effetti. Ma, come negli altri affreschi, la visione pittorica che l'artista crea, e in cui il suo senso formandola s'indugia e si esalta, è mezzo semplice e assoluto all'intimo dell'opera, col quale è connaturata: l'indistinto delle lontananze, lo statuario rilievo delle figure e la ferma luce che lo plasma, non meno che la composizione ponderata, e la gravità degli atti, tutto è coordinato alla grandezza e alla gravità morale insite nel primo concetto della rappresentazione, proprie all'arte e alla mente di lui.
L'ultimo affresco di M. nella cappella Brancacci fu la Resurrezione del figlio dei re Teofilo e S. Pietro sulla cattedra di Antiochia ch'egli lasciò interrotto ma dopo averne stabilita tutta la composizione ed eseguite molte parti. Lo finì poi Filippino Lippi: e le parti da lui dipinte con tenue sottigliezza sembrano lacune entro il potente rilievo di M. in cui la luce diretta or martella di chiaro e di scuro i corpi, ora, secondo le varie incidenze, li sfiora velandoli senza diminuirne la massa, ora s'imbeve di colore in nuovo modo. La composizione sorpassa in complessità tutte le altre riuscendo a intensa impressione di movimento nel folto gruppo centrale; e pur è di così semplice ponderazione da ricordare le Esequie di S. Francesco dipinte da Giotto in S. Croce. Lo studio e l'amore del caratteristico è tanto che la scena è piena di ritratti (così M. aveva animata di ritratti la Sagra del Carmine, suo celebrato affresco, poi scomparso, nel chiostro dello stesso convento); pure, nel S. Pietro sulla cattedra se ne liberano le note dominanti: la prodigiosa virtù di S. Pietro, il suo rapimento nell'orazione.
Alla stregua delle qualità di visione pittorica e di concezione conosciute nel capolavoro di M. si possono accertare, ora anche in breve, le altre poche opere rimaste del maestro, rintracciando fin verso le origini l'affermarsi della sua arte in un'attività tanto breve.
Il polittico per il Carmine di Pisa, non più conservato che in alcune parti disperse (Londra, Nat. Gallery: Madonna; Napoli, R. Pinacoteca: Crocifissione; Pisa, Museo: S. Paolo; Vienna, coll. Lanckoroński: S. Andrea; Berlino, K.-F.-Museum: frammenti con Santi, e predella), immediatamente prossimo agli affreschi della cappella Brancacci, mostra quasi alla stessa fase l'arte del pittore, ma non ancora quella larghezza monumentale. La Madonna e il S. Paolo sono mirabili studî di luce - e il S. Paolo, meglio conservato, anche di colore - che modifica ma non attenua la massa plastica; nella Crocifissione è altissimo l'accento patetico, placato dalla somma quiete di Cristo; nella predella (di cui altre due parti, anch'esse nel Museo di Berlino, furono dipinte da un aiuto, forse Andrea di Giusto) il Martirio di S. Pietro e la Decollazione del Battista intendono soprattutto alla potente composizione di spazio e di volumi, l'Adorazione dei Magi è improntata di profonda religiosità.
Non mancano, nel polittico di Pisa, richiami a Donatello, più sensibili ancora nell'affresco della Trinità (Firenze, S. Maria Novella, già nel tramezzo) dove la profondità è circoscritta da complesse forme architettoniche in prospettiva, la larga modellazione e il colore denotano la fase ultima di M. Alla quale, ma in momento alquanto anteriore, si può attribuire anche un desco da parto (Berlino, K.-F.- Museum) con la rappresentazione della visita e dei doni recati alla puerpera: piccolo dipinto in cui la scena, piena di accenti di genere, è grave, solenne; luce, profondità e rilievo sono esaltati non meno che nei grandi affreschi. Più antica del polittico pisano è una Madonna dell'Umiltà (New York, Coll. Duveen) che dimostra inesperienze nell'impressione di luce e di rilievo, intentamente ricercati, ma già sorpassa di molto l'opera di M. che il Vasari ricordò prima d'ogni altra: S. Anna con la Madonna e il Bambino (Firenze, Uffizî). In questa, M. si rivela nella grandiosa figura della Madonna, nelle massicce forme del Bambino vedute sotto specie di valori di luce; ma lo scarso rilievo (non tutto prodotto dalle attuali condizioni del dipinto) dell'insieme del gruppo, l'esilità e inconsistenza quasi gotiche delle figure degli angioli, masoliniani anche nelle lievi tinte, ben dimostrano ch'egli era in una fase assai giovanile in cui i suoi nuovi intenti già erompevano senza rimuovere del tutto le formule di Masolino. Ed è, la tavola degli Uffizî, mezzo a risolvere con argomenti nuovi la controversia delle attribuzioni a Masolino o a M., poiché questi vi si dimostra - in quelle figure di angioli - così incapace d'intendere i modi di Masolino che mai egli non avrebbe potuto dipingere il Peccato originale della cappella Brancacci o le altre opere, a lui assegnate, del suo maestro d'un giorno, squisitamente masoliniane.
Più verso i primi inizî di M. riconduce l'affresco di un antico tabernacolo stradale a Montemarciano (S. Maria delle Grazie) presso S. Giovanni Valdarno, di contestata attribuzione, ora diminuito da recenti restauri: ha qualche riflesso gotico da Masolino; nell'incerta figura del Bambino rammenta Lorenzo di Bicci; ma nella Madonna già annunzia il grandeggiare della S. Anna.
Tra altre opere attribuite a M. non sembra dubbio un virile ritratto del Museo di Boston; sono di diversi pittori il Cristo risorgente della Galleria di Strasburgo, l'Eterno della Galleria di Londra, la Trinità del Museo di Detroit, più vicina al Lippi che a Masolino. Resterà incerto, finché gli affreschi non siano detersi dalle ridipinture, quanto M. possa avere lavorato nella cappella del Sacramento in S. Clemente a Roma. In quegli affreschi, quasi interamente di Masolino (v.), appariscono qua e là tratti di una maniera così robusta da richiamare M. Soprattutto nella Crocifissione, che nell'insieme dovette essere ideata da Masolino, il quale per certo la dipinse in parte, vi sono accenti vigorosi di modellazione e di colore non mai raggiunti da Masolino: nelle figure della Maddalena - non tutta ridipinta -, del centurione, di alcuni cavalieri. Ed è possibile che queste parti siano state tralasciate da Masolino e compiute da M., forse nel breve soggiorno a Roma.
Lasciando queste ultime, dalle opere più certe sorge possente M., nell'essere e nello sviluppo della sua individualità, e mentre crea capolavori, formati di sostanza morale e visibile tutta propria, egli appare anche maggiore quando si vegga di fronte a quanto negò nell'arte e a ciò che schiuse alla pittura del Rinascimento. Di fronte alla vacuità degli ultimi supposti giotteschi, al sottile preziosismo gotico di Lorenzo Monaco, alla elegante morbidezza di Masolino, al mondano splendore di Gentile da Fabriano, apparso anche a Firenze (1423), e in genere contro il diffuso manierismo della pittura gotica (v. gotica, arte), M. affermò un'arte che erompeva dal profondo animo e trovava la forma necessaria in aspetti nuovi del visibile, scoperti dal suo senso, lacerando il velario gotico: profondità di spazî, rilievo, e quella luce. Vanirono insieme agli intenti gotici di decorazione tutti i loro corollarî: così l'arabesco della composizione totale come il ritmico avvilupparsi dei panni; tutto si plasmò, nell'opera di M., sul contenuto psicologico, semplice, perché nella varietà mira all'universale, ma profondo: il largo comporre, che pur fra tanti elementi visibili tutto converge sull'Uomo, ed è sciolto da canoni tradizionali perché più viva sorga l'azione; la gravità degli atti; il sobrio cadere dei panni, come ogni altro carattere.
E se l'opera di M. fu scuola ai pittori fiorentini del Quattrocento per l'equilibrio delle composizioni, per la robustezza plastica e del chiaroscuro, per dignità e per forza espressiva degli atteggiamenti, essa soprattutto fu iniziatrice della intera pittura del Rinascimento con l'interrompere la tradizione gotica, sostituendo ai suoi manierismi l'individualità dell'artista che trova col proprio senso la forma adatta al proprio intimo: liberazione, principio e necessità della rinnovata pittura. In questa, che da Firenze nel Quattrocento conquistò tutta Italia, si perpetuarono le qualità di forma sovrane in M. - profondità, volume, luce - pur modificate in svariatissimi temperamenti; e da M. derivò, schiuso dall'opera sua, quell'amore della vita, attinta al fuggevole, idealizzata nell'arte, che animò la pittura nostra sino al Cinquecento.
Anche il genio di M. maturò quando il suo tempo fu giunto. Sarebbe errore porlo in rapporto col rinnovamento che fu nella pittura fiamminga-a principio del sec. XV, tanto differisce dall'arte di U. e G. van Eyck quella di M. altrimenti sintetica: ma non bisogna dimenticare che anche i fratelli van Eyck schiudevano alla pittura l'universo visibile. Da Masolino non ebbe M. che effimeri insegnamenti e l'occasionale partecipazione agli stessi lavori; ma altri artisti lo confermarono nel suo cammino; quelli che, infrante le tradizioni gotiche, costituivano in altri modi la nuova arte del Rinascimento: il Brunellesco e Donatello. A loro M. dovette volgersi come a maestri. Del Brunellesco è segno in M., anche più che nello sfondo della Trinità di S. Maria Novella, nel senso dello spazio e nella scienza di prospettiva che l'architetto aveva dimostrato pure in opere di pittura. Donatello, che nel 1416 aveva liberato il suo S. Giorgio, fu più intero esempio a M. nel rifiutare le concezioni gotiche, nell'unire all'effetto plastico la luce, nel cercare una forma che fosse immediata espressione dell'intimo. Ma fu il suo genio che portò il M. a trovare nella pittura con modi suoi la sfera d'ideale realtà già rivelata da Giotto, poi ritrovata da Michelangelo. (V. tavv. XCIX-CVI).
Bibl.: Non mancano bibliografie generali (H.O. Giglioli, in Bollettino del R. Istituto d'arch. e storia dell'arte, 1929, pp. 55-101) ricordiamo, perciò soltanto le opere principali, anche per la storia delle controverse attribuzioni, o le più recenti: G. B. Cavalcaselle, Storia della pittura in Italia, Firenze 1897, II, pp. 242-332 ; A. Schmarsow, M.-Studien, Cassel 1895-1899; id., Masolino-M., Lipsia 1928; B. Berenson, The florentine Painters of the Renaissance, Londra 1897; id., Italian Pictures of the Renaissance, Oxford 1932; P. Toesca, Masolino da Panicale, Bergamo 1907; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, VII, Milano 1911; E. Somarè, M., Milano 1925; J. Mesnil, M. et les débuts de la Renaissance, L'Aia 1927; R. van Marle, italian Schools of Painting, L'Aia 1928, pp. 251-307; H. Lindberg, To the Problem of Masolino and M., Stoccolma 1931; M. Salmi, M., Roma 1931; H. Procacci, Docum. e ricerche sopra M. e la sua famiglia, in Riv. d'arte, 1932, p. 489 segg.; E. Trenkler, in Wiener Jahrb. für Kunstgeschichte, 1932, pagine 7-16.