CORBO (Corbus, Corvus), Martino
La sua appartenenza alla famiglia milanese dei Corbo risulta con certezza da una fonte di qualche decennio posteriore alla sua morte; precisamente da alcune delle testimonianze che i canonici di S. Ambrogio in Milano produssero nel dicembre del 1200 contro i monaci del vicino monastero.
Un primo esame della documentazione edita ed inedita induce a limitare un poco, almeno per la prima metà del sec. XII, le affermazioni fatte dal Wache (p. 277 n. 2) e da altri sull'importante ruolo svolto dalla famiglia nella storia di Milano. Mancano infatti elementi per ritenere che i Corbo avessero, all'inizio del secolo, una grande potenza economica; si direbbe piuttosto che essi volgessero una parte di secondo piano, muovendosi nell'orbita di casati, come quello dei della Pusterla, più importanti, in quel momento, nella vita politica ed economica di Milano, e che fossero in qualche modo legati alla chiesa di S. Giorgio al Palazzo. La fortuna della famiglia fu però probabilmente abbastanza rapida. Attorno alla metà del sec. XII doveva già essere considerata appartenente all'ordine consolare anche se accederà al consolato solo nel 1174: una volta nel 1143, poi più regolarmente a partire dal 1167, alcuni dei Corbo sono infatti presenti, in veste di testimoni, agli atti del Comune di Milano (Manaresi, n. IX, LIV, LXXII, LXXX, XCI).
Il C. nacque con ogni probabilità nell'ultimo ventennio del sec. XI. Egli, infatti, appare per la prima volta nelle fonti nel febbraio 1124 (atto di permuta nell'Arch. capit. di S. Ambrogio, n. 22) ed in questa data risulta essere prete e canonico di S. Ambrogio. Poiché le norme canoniche allora seguite stabilivano che l'ordinazione sacerdotale avvenisse a trenta anni compiuti, o, in caso di necessità, a venticinque, si puo ritenere che la nascita del C. sia anteriore al iogg, e probabilmente anche al 1094. Nulla si sa della formazione e degli studi compiuti dal Corbo. Comunque, poiché il preposito di S. Ambrogio aveva il diritto di conferire egli stesso la tonsura ecclesiastica a coloro che aspiravano ad entrare nel Collegio canonicale, è lecito supporre che il C. vivesse nell'ambiente della canonica santambrosiana già prima di essere ordinato prete. Quanto alla sua formazione culturale, poiché nessun indizio fa sospettare che egli si sia recato presso maestri in Francia, come altri ecclesiastici milanesi suoi contemporanei, si può pensare che egli abbia compiuto gli studi a Milano, forse nella scuola della cattedrale. Certo egli raggiunse una buona conoscenza delle Sacre Scritture, specialmente dell'Antico Testamento, e soprattutto delle opere di s. Ambrogio: due lettere - i soli scritti del C. giunti fino a noi -, indirizzate, la prima a Paolo e Gebeardo di Ratisbona (1129-1134; pubblicata in Maffistretti, Una corrispondenza..., n. VI, pp. 497 s.), la seconda al cardinale Guido da Somma (1144; in Zerbi, Una lettera..., pp. 702 s.), sono infatti tutte intessute di citazioni veterotestamentarie e ambrosiane, che certo appesantiscono il testo, ma appaiono scelte molto opportunamente per raggiungere gli scopi voluti dall'autore.
Le due lettere fanno parte di un interessante carteggio che, senza alcun dubbio, costituisce una delle fonti più importanti per la biografia del Corbo. Esso, oltre ai due scritti dei C. già ricordati, comprende un gruppo di lettere inviate al C. da vari personaggi; particolarmente significative sono quelle di Paolo e Gebeardo, due canonici di Ratisbona, che il C. conobbe quando costoro, di ritorno da un viaggio a Roma ove nel 1122 avevano ottenuto la protezione apostolica per la canonica' regolare di Bernried, fecero una sosta a Milano. La datazione delle singole lettere costituisce un notevole problema, risolto in vario modo dagli studiosi che se ne sono successivamente occupati; la corrispondenza comunque ebbe inizio nel 1126, secondo lo Herrmann e il Wache, nel 1129, secondo il Magistretti, e continuò almeno fino al 1146.
Da una permuta del 22 dic. 1126, sappiamo che il C. era allora cimiliarca della canonica di S. Ambrogio, cioè custode del tesoro della chiesa e dell'altare d'oro. Doveva probabilmente svolgere anche funzioni di amministratore: lo fa pensare il titolo di "vicedominus" che gli viene attribuito in alcune delle lettere di Paolo e Gebeardo di questo periodo. Nulla si sa della attività di cimiliarca del C.; certo ebbe modo di farsi conoscere e stimare, perché la sua carriera ecclesiastica proseguì. In una investitura "per precariam" del giugno 1134, egli risulta preposito della canonica di S. Ambrogio. La sua elevazione a tale importante carica dovette avvenire dopo il giugno 1130, quando era ancora preposito Girardo Sessa.
L'attività del C. nel periodo della prepositura, durato quasi vent'anni, si esplicò in varie direzioni, tutte però strettamente collegate.
Dalle lettere di Paolo e Gebeardo, e da altri documenti editi e inediti di questo periodo, si ricava l'impressione che il C. fosse bene inserito nel mondo ecclesiastico milanese e che fosse in buoni rapporti non solo con il clero decumano, a cui apparteneva, e con il potente primicerio Nazario Muricola, ma anche con il clero maggiore della cattedrale, con gli abati dei monasteri di S. Dionigi e di S. Vittore, e con gli arcivescovi.
La presenza nell'Archivio capitolare di S. Ambrogio di una lettera di Paolo e Gebeardo all'arcivescovo Anselmo della Pusterla, induce infatti a ritenere che sia stato il C. probabilmente prima che scoppiasse lo scisma del 1130, e non, come vorrebbe il Magistretti, nel 1132 ad informare l'arcivescovo del desiderio espresso dai due canonici di Ratisbona di conoscere più a fondo il rito ambrosiano; fu ancora il C. ad ottenere dal successore di Anselmo, Robaldo, l'ordinazione suddiaconale e diaconale per un chierico mandato da Paolo e Gebeardo. Robaldo, anzi, doveva tenere il C. in particolare stima: in una sentenza arcivescovile del novembre 1140 in favore della pieve di S. Vittore di Varese, il C. è l'unico rappresentante della Chiesa milanese - oltre al clero della cattedrale - a sottoscrivere. Anche nel giugno del 1144 egli sottoscrisse un diploma di Robaldo per l'ospedale di S. Eustorgio; in quella occasione però erano presenti anche alcuni abati dei monasteri milanesi. Meno stretti, invece, sembra siano stati i rapporti del C. con il successore di Robaldo, Oberto da Pirovano, che usava raccogliere attorno a sè, nelle concessioni di privilegi, una più vasta rappresentanza del mondo ecclesiastico cittadino.
La stima di cui il C. godeva può essergli derivata sia dalla sua adesione al programma di riforma proposto dal Papato, sia dal prestigio da lui raggiunto in campo culturale, sia irifine dal suo profondo amore per tutte le memorie ambrosiane. Quest'ultimo, aspetto, come si vedrà, costituisce il filo conduttore di tutta l'attività del Corbo.
I suoi strettissimi rapporti con uomini e ambienti della riforma sono messi in luce dal carteggio più volte citato: il vallombrosano Attone, divenuto vescovo di Pistoia, chiamava il C. suo carissimo amico; Paolo e Gebeardo di Ratisbona, che nella canonica di S. Magno seguivano la regola detta di s. Agostino, si rivolgevano a lui con affetto e venerazione; egli era inoltre in relazione con il monastero cluniacense di Pontida e con la canonica regolare di S. Pietro all'Olmo. È noto d'altronde che nella canonica di S. Ambrogio, almeno dagli ultimi anni del sec. XI, si seguiva una regola, forse quella di Aquisgrana, ma con un maggiore impegno di vita comune: se infatti i canonici potevano conservare la proprietà dei beni di famiglia, dovevano però usufruire in comune dei beni della chiesa.
La tensione verso una vita conforme agli ideali della riforma e agli indirizzi proposti dal Papato, da Urbano Il in poi, si avverte anche in due collezioni canoniche nate nell'ambiente canonicale di S. Ambrogio, la prima tra il 1130 e il 1139 (conservata nell'Archivio capitolare di S. Ambrogio, M. 11), la seconda dopo il 1140, probabilmente negli anni 1143-1144 (Bibl. Ambr., I. 145 inf., ff. 21r-73v): entrambe quindi ricollegabili al tempo del Corbo. In perfetta sintonia con l'indirizzo favorevole all'episcopato assunto da Callisto II, le due raccolte proclamano infatti l'assoluta autorità del vescovo sulle chiese locali; in conformità con i decreti del concilio lateranense I, dichiarano la incompetenza dei laici in materia ecclesiastica; infine sostengono la necessità di una più vera separazione del monaco dal mondo, in accordo, su quest'ultimo punto, con gli orientamenti della riforma monastica dei secoli XI e XII e in polemica con i monaci del vicino monastero i quali, in quegli anni, rivendicavano proprio il diritto di partecipare alla "cura animarum".
La prima delle due collezioni, inoltre, in cui si afferma il primato del pontefice romano e l'unità della Chiesa sotto il successore di Pietro, fa pensare che, nello scisma papale del 1130, la canonica santambrosiana abbia aderito ad Innocenzo II, contro l'orientamento della maggioranza cittadina e dello stesso arcivescovo Anselmo V. La lettera scritta tra il 1129 e il 1134 a Paolo e Gebeardo, in cui il C. vuole scagionare il clero ambrosiano dalla accusa di avere aderito all'antipapa, è certo un'altra testimonianza della posizione antianacletista assunta se non dalla Chiesa milanese nella sua totalità, certo dal C. personalmente e dalla canonica di S. Ambrogio.
Nell'esame dell'attività svolta dal C. in campo spirituale, non si può trascurare il suo impegno per far conoscere la liturgia e la storia della Chiesa ambrosiana e per diffondere il culto dei santi milanesi. Prima di tutto i santi venerati in modo particolare presso la chiesa di S. Ambrogio; il C. aveva infatti promesso reliquie di Gervasio, Protasio e Vittore ad Attone di Pistoia, il quale pensava di dedicare chiese a quei santi nella sua diocesi; Paolo e Gebeardo si lamentavano di mancare ancora di reliquie di Marcellina: segno che già possedevano quelle dei tre martiri e di Satiro. Su richiesta dei due amici di Ratisbona, desiderosi di arricchire il loro martirologio, il C. compose inoltre un catalogo, andato perduto, degli arcivescovi santi di Milano. È interessante notare che egli raccomandava il culto di Pier Damiani, nella cui legazione a Milano si può vedere una delle prime vittorie della pataria e l'inizio della riforma della Chiesa milanese.
L'opera culturale maggiore compiuta dal C. è senza alcun dubbio la grande collezione degli scritti di s. Ambrogio, alla quale probabilmente pensava già quando era ancora cimiliarca. Un codice dell'Archivio capitolare di S. Ambrogio, contenente il trattato ambrosiano In Psalmum CXVIII (M. 14), sotto una miniatura raffigurante un uomo prostrato ai piedi del santo, reca infatti la scritta: "Martinus presbiter Sancti Ambrosii". La raccolta delle opere del patrono della Chiesa milanese fu però portata a termine dal C. durante la prepositura; sotto una miniatura simile alla precedette, ma più curata, all'inizio del primo volume della raccolta (M. 31), si legge infatti: "Martinus presbiter ac prepositus huius ecclesie". La collezione, alle origini, oltre al trattato sul salmo 118, comprendeva quattro grossi volumi, che furono successivamente smembrati in altri di minore grandezza; di questi rimangono ancora nell'Archivio capitolare di S. Ambrogio cinque codici N. 31-M. 35). Alcune parti dell'opera voluta dal C. erano infatti andate perdute già nel secolo XV, altre pervennero alla Bibl. Apost. Vaticana (Vat. lat. 282; Vat. lat. 268), di una e rimasto un apografo dei secolo XV, conservato alla Bibl. Ambrosiana (F. 114 sup.).
Quanto al metodo seguito dal C. per realizzare la raccolta, il Mercati pensava che egli si fosse procurato gli scritti ambrosiani anche in paesi lontani da Milano e dall'Italia; ad una conclusione di questo genere era sollecitato dalla prima lettera di Paolo e Gebeardo fatta appunto per accompagnare il Tractatus in Psalmum LXI di Ambrogio, trovato dai due canonici ratisbonesi a Verona e da loro inviato all'amico milanese. Inoltre, in altri passi del carteggio, si allude più volte a ricerche compiute dai due per incarico del C., il quale aveva forse predisposto un elenco di opere ambrosiane a lui mancanti, nella Francia settentrionale e nella Sassonia. In realtà, dall'epistolario risulta molto chiaramente che le ricerche di Paolo e Gebeardo diedero come unico frutto il Tractatus in Psalmum LXL Inoltre, studi recenti sulla tradizione manoscritta di alcune opere di Ambrogio hanno mostrato che, nei casi esaminati, il testo accolto dal C. nella sua raccolta appartiene ad un ramo tutto milanese, per il quale talvolta è possibile ipotizzare la derivazione da manoscritti tardo-antichi. La sola opera che appartenga ad un diverso ramo della tradizione è proprio il Tractatus trovato a Verona dai due canonici di Ratisbona. Dall'epistolario del C. sembra piuttosto che il movimento dei codici abbia avuto direzione inversa, cioè che il preposito di S. Ambrogio abbia fornito Ratisbona ed altri centri di manoscritti milanesi. Il C. fece sicuramente copiare per Paolo e Gebeardo vari testi liturgici ambrosiani: il Sacramentario, l'Antifonario diurno e notturno completo di notazioni musicali, un breve elenco contenente l'incipit e l'explicit delle letture della messa; inoltre, probabilmente, prestò la sua copia della Expositio in Lucam di Ambrogio ai monaci di Pontida, i quali la chiedevano per correggere il codice da loro eseguito.
In campo economico, non pare che il C. abbia mutato orientamento rispetto al suo predecessore: come quello cercò infatti di rendere più razionale l'amministrazione dei beni della canonica concentrandone i possessi. In particolare, dal 1135 fino al 1152, dedicò una attenzione speciale ad Assiano, in pieve di Cesano Boscone. I risultati da lui raggiunti in questo settore rimangono da valutare: certo egli riuscì ad assicurarsi terre e diritti, ma fu anche costretto a contrarre debiti, che cercava di liquidare rinunciando a qualche proprietà. L'indebitamento si può forse far risalire a più di una causa: la stessa politica economica svolta dal C., la grande impresa libraria da lui condotta a termine, le spese notevoli a cui il collegio canonicale fu costretto per contribuire ai lavori allora in corso nella basilica.
A tali spese se ne aggiunsero poi altre quando, nel 1143-1144, la controversia con il monastero di S. Ambrogio entrò di nuovo in una fase acuta. Nel 1143 le due comunità santambrosiane si contendevano infatti le offerte dei fedeli alla chiesa, il possesso dei campanile nuovo donato ai canonici da Anselmo V nel 1128, i diritti su una nuova parrocchia sorta nei pressi di S. Ambrogio, oltre il rivo Musceta, a causa della espansione della città oltre le mura. In realtà l'oggetto vero della discussione era a chi spettasse il dominio sulla chiesa, e quindi la "cura animarum", che sia i monaci sia i canonici rivendicavano per sè, vantando ciascuno la maggiore antichità del proprio collegio, col sostegno anche di documenti falsi. La vertenza, di carattere esclusivamente ecclesiastico, fu complicata e resa più aspra dall'intervento dei laici in favore del monastero. I monaci infatti seppero sfruttare a loro vantaggio lo spirito antigerarchico e antiromano, laico insomma, suscitato anche a Milano dalla predicazione di Arnaldo da Brescia in Lombardia; seppero quindi portare dalla loro parte, oltre ai propri vassalli, l'organismo comunale, e perfino forze filoiniperiali come il marchese del Monferrato, per opporsi al canonici, bene inseriti nella linea di azione proposta da Roma, all'arcivescovo, incline ai canonici e obbediente al pontefice, al Papato stesso che precedentemente si era mostrato favorevole al Collegio canonicale.
L'opera svolta dal C. in questo biennio non si può facilmente sottovalutare, se si tien conto che, nel 1143, egli si muoveva dopo una sentenza consolare del tutto vantaggiosa per i monaci. Assicuratosi l'appoggio dell'arcivescovo, di un potente membro del clero ordinario quale il cancelliere Galdino, di Malastreva, un valvassore appartenente al ceto consolare, e forte delle sue personali relazioni con il cardinale milanese Guido da Somma, il C. seppe far notare al papa, preoccupato in quel momento dalla "renovatio Senatus" in Roma, la intrinseca laicità del moto milanese, il pericoloso precedente costituito dall'intervento di laici in materia ecclesiastica, la indebita pressione che, con le loro notevoli disponibilità di denaro, i monaci esercitavano nello stesso ambiente della Curia. In tal modo, nell'agosto 1144. il C. otteneva dai due legati che Lucio II aveva affiancato all'arcivescovo Robaldo nel decidere della controversia, una sentenza favorevole ai canonici santambrosiani su tutti i punti in discussione; e si vedeva confermate quelle decisioni da un privilegio arcivescovile del settembre. La situazione interna milanese suggerì però l'opportunità di una posizione meno rigida: infatti, già la concordia stabilita da Robaldo nel novembre 1144 tornava sulla questione, attribuendo ai canonici il campanile, con qualche limitazione nell'uso delle campane, e la nuova parrocchia, ma dividendo a metà tra i due collegi le offerte dei fedeli.
La lotta di quel biennio fu però troppo aspra perché un compromesso mettesse fine alla tensione. Negli anni seguenti emersero pertanto altri contrasti, dove, dietro motivi apparentemente inconsistenti, si voleva sempre affermare la preminenza di un collegio sull'altro.
Nel 1147 il C. e i canonici si rifiutarono di aprire l'altare d'oro ai monaci in occasione dei salmi per le feste di s. Ambrogio e dei santi Gervasio e Protasio, in quanto non erano soliti rendere questo servizio ai vicini. Una sentenza dell'arcivescovo Oberto nel dicembre 1147 diede però ragione ai monaci. Pochi mesi dopo si aprì una nuova controversia, questa volta perché l'abate, per la ricorrenza di s. Satiro, non voleva offrire ai canonici il pranzo tradizionale oltre ad una quantità simbolica di candele e di denari. Questa volta la sentenza data dal delegato dell'arcivescovo nel febbraio 1148 fu sostanzialmente favorevole al C. e al suo collegio.
Il 21 luglio 1148 il C. ottenne un altro successo; il papa Eugenio III concesse alla canonica la protezione apostolica e la conferma dei beni e dei diritti di cui godeva. Dopo di allora il C. sostenne solo un'altra battaglia, che si concluse con una sconfitta: nel settembre 1152 egli dovette infatti rinunciare, a nome del suo collegio, a quei diritti sull'ospedale di S. Giacomo al Ristocano che gli erano stati confermati quattro anni prima dal papa. Nell'ottobre dello stesso 1152 egli compì un acquisto importante in Assiano. Dopo di allora non si ha più nessuna notizia di lui: deve quindi essere morto tra l'ottobre 1152 e il 10 febbr. 1154, quando viene per la prima volta nominato il suo successore nella prepositura, Alberto di San Giorgio.
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