FORTUNY (Fortuny y Madrazo), Mariano
Nacque a Granada, in Spagna, l'11 maggio 1871 da Mariano Fortuny y Marsal e da Cecilia de Madrazo.
Nel 1873 era a Roma dove il padre, pittore di successo e che ebbe notevole seguito anche in Italia, aveva uno studio nel quale assommava ai propri dipinti una ricca collezione di oggetti ornamentali di provenienza orientale e nordeuropea. La madre, appartenente a una famiglia di artisti e di studiosi d'arte di primaria importanza nell'Ottocento spagnolo, collezionava stoffe antiche. Lo studio del padre costituì uno dei più raffinati luoghi di incontro tra i rappresentanti del mondo dell'arte e del collezionismo del tempo: vi si respirava il fecondo gusto del Secondo Impero, con il suo paradigma di raffinatezza estetica che non conosceva ancora le prime incrinature.
A tre anni il F. rimase orfano del padre, che morì a trentasette anni appena. Forse proprio per questo la figura paterna ebbe nell'immaginario del figlio un ruolo fondamentale, avendone fatto questi un modello inamovibile. Quando tra gli appunti sparsi troviamo: "mi sono sempre interessato a molte cose diverse ma il mio vero métier è sempre rimasto la pittura" (G. De Osma, in F. nella belle époque, 1984, p. 24 n. 2) ci si deve probabilmente riferire a un desiderio infantile nel corso del tempo non superato.
Con la madre e la sorella Maria Luisa nel 1874 il F. lasciò l'Italia alla volta di Parigi, ove lo zio materno, Raymundo de Madrazo, ritrattista alla moda, lo iniziò alla pittura. In tale direzione il giovane pittore andò ricercando la sua strada negli anni della formazione, che combaciano con un'adolescenza versatile, ansiosa di nutrimenti letterari, quanto musicali e visivi, che ben presto sarà orientata dalle letture filosofiche di A. Schopenhauer e di F. Nietzsche quanto dalla conoscenza del mondo wagneriano. Nel 1889 la famiglia Fortuny si stabilì a Venezia.
Il F. aveva maturato la sua vena pittorica - al contrario dello zio suo maestro - in direzione classica, copiando nei musei le opere degli antichi maestri, e a Venezia quel suo bagaglio di materie pittoriche e di confronti diretti si stemperò nei crogiuoli delle fonde luci orientali di cui sono cariche le tele di Carpaccio, Bellini, Tiziano, Veronese e Tiepolo. Il côté orientalista che suo padre Mariano aveva sviluppato nell'esperienza del viaggio nel Vicino Oriente, si ravvivava in un sottile intreccio di memoria e penetrazione della cultura artistica che lo circondava. Quella Venezia orgogliosa dei suoi leggendari decoratori, tessitori e orafi costituì un mondo che in qualche modo lo sedusse per sempre e che lo avrebbe ispirato costantemente.
Nel 1895, con la prima Biennale, Venezia fu ancora una volta capitale dell'arte e meta dei suoi cultori; luogo dunque propizio al formarsi di una personalità complessa come quella del Fortuny. Negli anni parigini l'artista aveva avuto accanto, oltre a Raymundo de Madrazo, Benjamin Constant, fine ritrattista e conoscitore di quel milieu simbolista di cui sarebbe rimasta a lungo l'eco nella pittura del Fortuny.
Nel 1896 fu premiato con una medaglia d'oro all'Esposizione internazionale di Monaco di Baviera per il quadro, Le fanciulle fiori (Venezia, Museo Fortuny). In questo periodo fu fortemente attratto dalla pittura di A. Böcklin. Nel 1899 prese parte per la prima volta alla Biennale di Venezia, esponendo un Ritratto nel padiglione spagnolo; nello stesso anno sposò a Venezia Henriette Nigrin.
Frattanto cominciava ad appassionarsi al problema della luce: soprattutto nell'incisione usava punte sottilissime e morbide (addirittura con l'impiego delle setole dello spazzolino da denti) o affilate, atte comunque a creare una trama complessa di segni, ove il rapporto tra le luci e le ombre costituiva un linguaggio e nello stesso tempo una texture. Da questo interesse per la luce nacque l'incontro con la fotografia e con la macchina, la Panoramic Kodak.
La fotografia è il settore della produzione artistica del F. forse fino a oggi più attentamente studiato. Modello dei suoi ritratti è Venezia con i suoi luoghi deputati, i suoi scorci visivi, e in essi oggetti simbolo, quasi nodi della luce e dell'ombra, palazzo Martinengo e palazzo Pesaro Orfei, rispettivamente casa della madre e primo studio del F. nella città, e dimora-studio suo e della moglie.
Nell'archivio di palazzo Fortuny a Venezia si conservano - insieme con la maggior parte dei suoi dipinti, lampade, stoffe, e arredamenti - più di 10.000 negativi su vetro: sono in gran parte ritratti e nudi femminili, dai quali si ricostruisce facilmente il clima familiare in cui quelle immagini prendevano corpo, così contiguo al clima proustiano dominato dal sentimento dell'assenza e della perdita fatale. A questo rimandano le pose e gli arredi così come i particolari degli abiti, e, al di là della foggia, il modo di sentire gli abiti, di abitarli. L'indugio della breve posa, nella fotografia, porta in primo piano i merletti di Bruxelles che adornano la principessa di Hohenlohe o Mercedes de Madrazo y Rosales, l'incarnato lucente di Giorgia Clementi o di Maria Luisa Fortuny, gli atteggiamenti giocosi di Federico de Madrazo, cugino del F., e il F. stesso "in costume". Il segreto di queste foto sta essenzialmente nella luce che è sempre una luce diurna omogeneamente diffusa. L'immagine prende corpo con un breve contorno d'ombra che ne disegna i bordi tratteggiando le forme.
Non è soltanto un problema di resa fotografica quello che il F. affronta con la fotografia, ma più genericamente in essa il problema della luce, lo stesso che lo indurrà a spostare i suoi interessi sul teatro per lavorare a una concezione della scenotecnica che utilizzi le infinite possibilità della illuminazione elettrica recentemente scoperta. Il teatro wagneriano gli era stato fatto conoscere da un amico di suo padre, il pittore spagnolo Rogelio de Egusquiza, e subito lo aveva interessato per quella concezione di "arte totale" insita in esso; nel 1892 aveva visitato Bayreuth con sua madre e sua sorella, riportandone un gran desiderio di lavorare alla trasformazione della scenografia in senso moderno. Nel 1901 brevettò a Parigi un sistema di illuminazione teatrale basato sulle proprietà della luce indiretta, diffusa e regolabile. Il F. progettò una sezione di sfera, detta in seguito "Cupola Fortuny", da installare sul fondo del palcoscenico con il risultato di una diffusione completa della luce sulla scena (scritti dedicati dal F. all'illuminazione teatrale e alla scenografia sono pubblicati da Isgrò, 1986, pp. 167-191). Questo sistema, inaugurato nel 1906 nel teatro della contessa di Béarn a Parigi e accolto con entusiamo da Sarah Bernhardt, fu adottato in seguito da vari teatri europei.
L'idea di luce diffusa e indiretta venne applicata dal F. allo studio di una serie di lampade ove si coniugava con un design vuoi del tessuto, assai spesso di matrice orientale e di sapore eminentemente decorativo, vuoi della forma, che faceva appello a certi stilemi liberty e poi Werkbund, inaugurando un inatteso funzionalismo, che lasciava supporre, oltre alla conoscenza del décor preraffaellita, anche una certa familiarità con il coevo gusto viennese.
Nei primi anni del secolo il suo interesse per la pittura sembrò limitarsi al ruolo che questa poteva assumere nella rappresentazione teatrale. Dopo le scenografie per il balletto Mikado, rappresentato a palazzo Albrizzi (1899), nel 1901 creò le scene per il Tristano e Isotta alla Scala; nello stesso anno iniziò a collaborare con G. D'Annunzio per la Francesca da Rimini, che sarebbe stata presentata al teatro Costanzi di Roma, realizzandovi scene e costumi. Il progetto non andò in porto, ma segnò l'inizio di una stretta collaborazione e amicizia tra il F. ed Eleonora Duse. Fu proprio la Duse, per la quale il F. nel 1904 disegnò i costumi per La donna del mare di H. Ibsen, a far maturare in lui quella coscienza dell'abito come brano di pittura che, adornando il corpo, segna il passaggio dalla vita alla rappresentazione.
Nel 1906 il F. e la moglie Henriette organizzarono in palazzo Orfei un piccolo laboratorio per la stampa dei tessuti; nello stesso anno il F. fondò con la AEG una società per la realizzazione delle cupole a luce diffusa, che seguiterà a mettere a punto in diverse occasioni spettacolari fino al 1928.
Nel suo laboratorio veneziano il F. impiegò inizialmente la seta: disegnò una serie di veli ispirati all'arte cretese, che chiamò veli Knossos, e poi scoprì le proprietà cangianti del velluto - qualità in un certo senso naturali - che verrà utilizzato sia negli abiti sia per l'arredamento. La stampa del tessuto lo appassionò molto e, da grande sperimentatore quale era, aggiunse ai tessuti già adottati il cotone, puntualizzando con vari procedimenti, xilografici, serigrafici, pochoir, matrici di carta, varie proprietà della materia grezza trattata. Si trattava di tessuti fatti venire dall'India e dalla Cina e che si mescolavano con quelli antichi della collezione paterna e materna. Adottò rame e alluminio per ottenere nella stampa effetti d'oro e d'argento e, pur impiegando nel tempo anche metodi di stampa fotomeccanici, eseguì personalmente ogni verifica sulle trasparenze policrome dei tessuti, tanto da offrire sempre il risultato di un artigianato finissimo.
Nel 1909 brevettò il vestito Delphos messo a punto in circa due anni di lavoro, ispirato alla tunica delle korai, realizzato in satin plissé (pieghettato ottenuto a caldo con un rullo di ceramica), arricchito di cascate di perle di vetro, che verrà ripetuto per un ventennio e darà al F., in occasione della Esposizione internazionale delle arti decorative di Parigi, nel 1911, la fama di eccellente couturier.
Negli anni della guerra entrò a far parte a Venezia del Comitato per la salvaguardia delle opere d'arte. Nel 1919 aprì alla Giudecca una fabbrica di tessuti d'arredamento per la produzione semi-industriale di cotoni stampati. Con essi arredò casa Vanderbilt, la sala da gioco dell'hotel Excelsior al Lido, il Museo Carnavalet di Parigi e il Metropolitan di New York. In seguito brevettò i suoi colori (le tempere Fortuny), il sistema policromo di stampa su stoffa e una speciale carta per la stampa fotografica (nel corso della sua vita registrò in Francia ventidue brevetti: si veda l'elenco pubblicato da S. Polano in F. nella belle époque, 1984, p. 157).
Gli abiti del F., che partono dal corpo come punto di sostegno del tessuto che scende dalle spalle morbidamente lasciandolo libero, si realizzano in un ambito di creatività che nega il concetto di moda come inevitabile rinnovamento. Si discostano pertanto dagli abiti del genio della moda parigino, P. Poiret, con il quale sono registrabili esigenze comuni relative all'agio e alla libertà del corpo. Ma poiché il F. tratta anche l'abito come opera d'arte, ne rifiuta proprio per questo ogni destino effimero.
Negli anni Venti gli abiti del F. si trovavano sul mercato parigino e anche newyorkese, oltre che nelle capitali europee. Ed era sempre lui a gestire in prima persona la distribuzione, mentre il significato di un suo abito fu mirabilmente espresso da M. Proust in un passo della Recherche (Alla ricerca del tempo perduto. La prigioniera, Torino 1978, pp. 28 s.).
Nel 1922 il teatro alla Scala di Milano adottò il suo sistema di illuminotecnica. In quel periodo egli si dedicò più intensamente alla pittura: partecipò alle Biennali veneziane - dal 1922 al 1942, con esclusione delle edizioni del 1926 e 1932 - come espositore oppure come commissario del padiglione spagnolo. Nel 1929, per Il carro di Tespi di G. Forzano, adattò la sua cupola a un sistema teatrale ambulante riducendo le dimensioni delle attrezzature e rendendole pieghevoli. Nel 1932 disegnò le scene per i Maestri cantori di Norimberga per il teatro dell'Opera di Roma, spettacolo che verrà riproposto nella medesima versione nel 1935, 1939 e 1947. Nel 1933 fu impegnato con le scene per La vida breve di M. de Falla alla Scala. Le sanzioni economiche comminate dalla Società delle nazioni contro l'Italia nel 1935 danneggiarono la produzione della fabbrica veneziana, tanto che il F. la cedette (la fabbrica, tuttora esistente, ha conservato il marchio Fortuny).
Il F. morì a Venezia il 2 maggio 1949; l'anno seguente alcuni suoi dipinti (tra cui l'Autoritratto, 1947) furono esposti alla XXV Biennale veneziana accanto a quelli del padre e dei Madrazo.
Fonti e Bibl.: S. Fuso - S. Mescola, in Immagini e materiali del laboratorio Fortuny (catal.), Venezia 1978, pp. 11-29; I. Zannier, M. F. fotografo, ibid., pp. 31-36; A.M. Deschodt, M. F. Un magicien de Venice, Paris 1979; G. de Osma, M. F. His life and work, New York 1980; S. Fuso - M. Mescola, M. F. collezionista (catal.), Milano 1983; F. nella belle époque (catal., Firenze), Milano 1984 (con bibl.); I. De Guttry - P. Maino - M. Quesada, Le arti minori d'autore in Italia dal 1900 al 1930, Roma-Bari 1985, ad Indicem; C. Rennolds Milbank, Couture:the great fashion designers, London 1985, pp. 91-98; G. Isgrò, F. e il teatro, Roma 1986 (con bibl.); C. Wilcom - V. Mendes, Modern fashion in detail (catal.), London 1991, pp. 30-32; T. Chow, Fashion collected, New York 1992, pp. 82-86; P. Pistellato, in La pittura in Italia. Il Novecento, I, 1900-1945, Milano 1992, II, pp. 893 s. e ad Indicem; B. Buscaroli Fabbri, M. F. interprete di Wagner, in Wagner e l'Italia (catal.), Bologna 1992, pp. 34-55; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XII, pp. 233 s.; Enc. dello spettacolo, V, col. 554.