CARLINO, Marco Antonio (Ateneo)
Sull'incertezza che può sussistere circa il nome è lo stesso C. a fornire spiegazioni: in un capitolo della sua opera, La grammatica volgar dell'Atheneo (Napoli 1533), afferma di chiamarsi "Marco Antonio Carlino, atheneo". Ateneo è un "agnomen", che - prosegue l'autore - secondo l'uso latino andrebbe preposto al "cognomen", ma in quanto "con più poche parole dimostriamo, quanto che sia, l'intendimento del nome, appo lui il porremo". Si tratta quindi per Ateneo di un appellativo umanistico del quale il C. si serve parimenti ai nomi di Partenio e di Sabatio usati per determinare gli interlocutori del suo dialogo sulla lingua.
Del C. non si posseggono notizie riguardanti la sua nascita e gli studi compiuti presumibilmente nella città natale, che dovette essere Napoli. Non si conosce neanche l'Accademia in cui il C. fu ascritto e dove egli operò, sebbene la sua preparazione umanistica e l'impianto stesso dell'opera. grammaticale, che è erudita e classicheggiante, denuncino a chiare lettere l'appartenenza dello scrittore a una delle molte accademie operanti nel territorio napoletano nel primo trentennio del sec. XVI.
La Corti, studiando La grammatica volgar, esclude l'Accademia Pontaniana "perché né l'Ateneo né i personaggi del dialogo risultano nell'elento dei membri dell'accademia, a noi noti". Ora, l'identificazione dei personaggi che intervengono nel dialogo - don Diego Cabaniglio, Antonio Garlone conte di Alife, Mario Loffredo, Pirro Antonio, Giudice sorrentino (Partenio) e l'umanista "Sabatio" - può in qualche modo circoscrivere la rosa delle eventuali accademie nelle quali può avere operato il C.: "l'Accademia dei Costanti - continua la Corti -, che fioriva verso il 1530, quella degli Eubolei durata fino al 1546, l'Accademia Argo della prima metà del secolo XVI e l'Accademia Martirano chiusasi nel 1565 (in questa ultima si radunavano funzionari di Carlo V e lo stesso imperatore vi fu ospite nel 1535; orbene dal dialogo si deduce che uno degli interlocutori, Mario Loffredo, era carissimo al conducitore dell'ispano esercito e che gli altri, cioè il conte don Diego Cabaniglio e il conte Antonio Garlone di Alife, riuniti a discorrere nell'alloggiamento dell'illustrissimo signor principe di Salerno, appartenevano al medesimo ambiente". Quest'ultima, dunque, sembra essere stata l'accademia che più probabilmente accolse i dotti conversari degli eruditi immaginati dal C. nella sua opera. Quanto all'epiteto di Ateneo spettante al grammatico non è impossibile che la sua scelta possa ricollegarsi, come suggerisce la Corti, alla diffusione che nel primo ventennio del secolo XVI assunse la traduzione latina dell'opera del lessicografo greco Ateneo Naucratide.
L'opera prende l'avvio dall'analisi del "lei" nel verso petrarchesco "Che come vide lei cangiar Thessaglia". Partenio propone di interpretare il pronome "ne 'l causativo" e "Thessaglia ne 'l diritto". Donde si snoda la discussione sull'opportunità di teorizzare il volgare nella stessa maniera in cui i latini trassero soprattutto da Virgilio le regole per la loro lingua. La prima asserzione teorica è fondata sul principio che "la comune nostra favella ch'io dico, nella parola ed iscrittura porta, viene osservata per Ragione, Auttorità et Uso" (una soluzione di compromesso già conosciuta dai grammatici classici e usufruita dai successivi teorizzatori della lingua volgare). Continua poi il C. a parlare del "nome" - che è l'unica parte del discorso analizzata nell'opera - di cui otto sono gli "osservamenti": "specie", "qualità", "comparazione", "gieno" (genere), "novero", "forma", "grado" e "terminagione". L'opera contiene infine un "Notamento" "de nomi di che sia detto nello costui ragionamento".
Maria Corti ha esaurientemente investigato le fonti classiche che appaiono più o meno manifestamente sotto ciascuno di questi otto capitoli corrispondenti alla trattazione del "nome", sottolineando affinità e divergenze che l'Ateneo dimostra nei confronti degli altri grammatici volgari. Per la "specie" la fonte principale è il libro IV delle Institutiones di Prisciano, che informa anche in maniera molto netta il capitolo riguardante la "qualità", ove lo scrittore si differenzia in maniera talvolta sostanziale dai grammatici volgari (Perotti, Matteo di San Martino, Rinaldo Corso) che hanno usufruito della medesima fonte classica. Circa la "comparazione" sia il C. sia Matteo presentano una trattazione sufficientemente originale rispetto alle fonti classiche, data la differente strutturazione del comparativo volgare e il diverso modo di reggenza. Per il capitolo sul "gieno" è evidente la derivazione del C. da Prisciano, confermata dal fatto che egli traduce alla lettera la definizione prisciana del "genere dubbio". La principale fonte del capitolo sul "novero" è Carisio: mentre infatti Prisciano distingue soltanto in base a natura e uso le serie dei nomi singolari e plurali e ne fa un'indagine sommaria, Diomede e Carisio non solo suddividono i nomi in "singularia tantum" maschili e femminili, "pluralia tantum" maschili e femminili, ma esemplificano abbondantemente e quella di Carisio è una esemplificazione più ricca di quella di Diomede. Corrispondeva quindi perfettamente all'intento classfficatore e alla mentalità analitica del C. il ricorso ad una fonte più abbondante fra quelle che aveva a disposizione. Per quel che riguarda la "forma" le fonti classiche più evidenti sono Carisio e Donato; per il "grado" il ricorso più manifesto è quello a Donato, come avviene per la sezione dedicata alla "terminagione". Questa ultima parte della trattazione si rivela tra le meno interessanti rispetto a quella dei contemporanei grammatici.
Ciò che caratterizza l'opera del C. è il tentativo di conferire una dignità al volgare tramite una corrispondenza molto precisa della nuova lingua con la "grammatica" latina. è altresì peculiare dello scrittore napoletano, allo scopo di razionalizzare al massimo la grammatica volgare, il proposito di scegliere tra le possibili fonti latine quelle maggiormente esemplificative, ovvero di contaminare varie fonti onde rendere più ricco e abbondante lo schema dei modelli da cui dedurre l'apparato del volgare. Fedele al suo schema di contaminazione esercitata al livello classificatorio, il C. adotta un criterio del tutto simile per ciò che attiene alla questione della lingua, e il sincretismo linguistico di cui si serve è ovviamente quello mutuato dal Castellano del Trissino, arricchendo le singole motivazioni attraverso il Fortunio e il Bembo.
Il pensiero esposto dal C., che, come il Trissino, fa di sé un personaggio sulle cui idee discutono i dialoganti de La grammaticavolgar, prende le mosse dalla necessità di delucidare che cosa si intenda per "terso volgar dire". Alla domanda del Sabatio di chiarire l'argomento, il Partenio risponde essere quel volgare elevato a sfera d'arte per opera degli scrittori: come difatti nel mondo latino solo per merito degli scrittori gli idiomi sabini, etruschi e campani furono assorbiti e unificati nella realtà della lingua latina, così il volgare, nato dalla trasformazione del latino parlato in seguito alle invasioni barbariche, ha potuto, per merito di un numero assai esiguo di buoni scrittori, assurgere alla nitidezza della lingua letteraria.
Secondo Partenio il latino è ormai una lingua straniera tale da essere appresa da un napoletano nella stessa maniera in cui il medesimo soggetto apprenderebbe lo spagnolo, il tedesco o il siciliano. Se il Sabazio obietta che il latino è lingua nostra da molto tempo, il Partenio gli può replicare che, come per una lunga consuetudine si acquista il possesso di una lingua, così per una lunga dimenticanza, si può perdere: la lingua dei Romani si apprende ormai tramite la sola cultura, mentre quella che si possiede ora, e che può quindi giudicarsi "nostra", è soltanto il volgare.
Stabilito ciò, resta da vedere come può essere letteraturalizzato il volgare, come cioè esso possa attingere alla sfera di una dignità letteraria tramite l'imitazione dei buoni scrittori. A questo livello, che è proprio di tutta la trattatistica cinquecentesca di derivazione bembiana, il C. ha una personale proposta da porgere e questa consiste nell'imitazione non più del Petrarca nella poesia e del Boccaccio per la prosa (secondo le direttive contenute nelle Prose della volgar lingua), ma del Petrarca, dell'autore dell'Arcadia e dello stesso Bembo degli Asolani.
L'influsso del Trissino è manifesto non solo nel concetto di lingua comune, ma proprio nel suggerimento di assumere il Sannazaro fra i modelli da scegliere per l'imitazione dello stile. E ciò con particolari conseguenze nella prassi del grammatico, in quanto l'auctoritas del nuovo modello letterario - ribadita con pervicacia rispetto alla presunta esemplarità di Dante e del Boccaccio - serviva poi alC. per giustificare sul piano della lingua comune alcuni tipici napoletanismi.
Un'ultima osservazione - puramente esteriore - concernente la grammatica del C. investe la sua notevole oscurità espressiva. L'Ateneo ostenta termini desueti, nell'intento di delucidare e di percorrere una normativa non si perita di costruire dei periodi quasi inesplicabili, per classificare e sottoclassificare intrica a tal punto il materiale esemplificafivo da rendere il lettore perplesso sulle scelte. Niente è più lontano da questa esibizione di puro tecnicismo che la limpida prosa del trattato bembiano, intercalata, secondo il gusto rinascimentale, di ampie pause in cui la precettistica cede il passo alla narrazione storico-letteraria, alla rievocazione di ambienti e di personaggi. Saranno anche da ricercare in siffatti motivi di difficoltà espressiva, di voluta e ostentata oscurità, le ragioni che hanno ristretto la conoscenza dell'opera dell'Ateneo ad un ambiente sostanzialmente provinciale, escludendogli per lungo tempo quella fama concessa a grammatici maggiormente dotati di qualità letterarie.
Bibl.: C. Trabalza, Storia della grammatica ital., Bologna 1963, pp. 108 ss.; M. Corti, M. A. A. C. e l'influsso dei grammatici latini sui primi grammatici volgari, in Cultura neolatina, XV (1955), pp. 195 ss.; F. Flamini, Il Cinquecento, Milano s.d., p. 138.