SQUARZINA, Luigi
– Nacque a Livorno il 18 febbraio 1922, figlio unico di Federico, originario di Lugo (dove il nonno paterno era stato provveditore agli studi), funzionario della Confindustria a Livorno, autore di un importante Codice minerario (raccolta coordinata delle principali disposizioni vigenti in Italia: Milano, Hoepli, 1944), nonché amico del musicista futurista Balilla Pratella e di Anna Matteucci Bordi di Forlì.
Oltre al testo Romagnola, dedicato alla madre, Squarzina dalla Romagna trasse l’umore generoso e sanguigno temperato da un ferreo controllo razionale. Dopo essersi maturato presso il romano liceo Tasso, conseguì la laurea in giurisprudenza con il massimo dei voti e la lode nel 1945, discutendo una tesi su Il diritto elettorale in Italia fino al fascismo; contemporaneamente si diplomò in regia all’Accademia nazionale d’arte drammatica, sotto il segno di Orazio Costa, optando per una messinscena storicizzante, a partire dalla lettura del testo. Qui rincontrò compagni di scuola talentuosi tra cui, in particolare, oltre a Luciano Salce e Adolfo Celi, Vittorio Gassman. Si prospettavano svecchiamento culturale e cambi generazionali profondi. Nel 1947, a Praga, al festival mondiale della gioventù, la sua regia di L’uomo e il fucile di Sergio Sollima vinse tutti i premi.
Di una iniziale vena lirica (le sue poesie risultano tuttora inedite), resta traccia nella scrittura degli esordi di Squarzina: se ne veda la disseminazione nel dramma Tre quarti di luna (terminato nel 1952), il testo più rappresentativo di quella temperie. Ecco alcune metafore di cui gronda il copione: «Il primo mese di scuola è come un pagliaio, tutti i fili che si strappano portano fortuna [...]. L’adolescenza si disfa come un truciolo di carta incenerita [...]. Pomeriggio sul letto, fissando un paesaggio di mastice che si rimpasta davanti agli occhi; sere in terrazza a conoscere sempre più stelle» (Teatro, 1988, pp. 6, 13 s.).
Squarzina ebbe un apprendistato imbevuto di un marxismo giovanile da Seconda Internazionale e rafforzato dall’apprendimento febbrile di più lingue: il tedesco per tradurre Le regole per l’attore di Goethe nel 1954, il francese utilizzato nell’approccio al boulevard elegante tipo Jean Anouilh, l’inglese grazie alla borsa Fulbright nel 1951-52 all’Università di Yale, dove si perfezionò nella Theaterwissenschaft con Alois Nagler, dopo un viaggio on the road negli Stati Uniti maccartisti. Il tutto riutilizzato nell’avventura dell’Enciclopedia dello spettacolo, al fianco dell’ideatore Silvio d’Amico e del figlio Sandro, di cui diresse la sezione Teatro per i primi quattro volumi (1952-1957), redigendo di persona vari lemmi. Contribuì inoltre, assieme a Ivo Chiesa e a Sandro d’Amico, a ottenere i volumi e i costumi teatrali del lascito di Adelaide Ristori, integrato dall’archivio di Guido Salvini, il nipote di Tommaso, fondando il primo Museo Biblioteca dell’attore, a Genova nel 1966.
I primi interventi registici si accompagnarono a riduzioni da materiali narrativi, trasformati in copioni teatrali. Oltre Uomini e topi (1944) di John Steinbeck, in una Roma appena liberata, Gli indifferenti di Alberto Moravia, affiancato nella stesura dall’autore (Sipario, 1947, n. 13), mentre nel 1963 firmò la sceneggiatura del Terrorista di Gianfranco De Bosio, per non citare anche il libretto dal Gattopardo portato sulla scena lirica nel 1967. Molto forti, in Squarzina, furono le motivazioni per accostarsi al grande romanzo novecentesco: Il fu Mattia Pascal (1974), dove valorizzò il ruolo del bibliotecario-pretino incaricato di seguire Giorgio Albertazzi nelle peripezie della trascrizione scenica, e La coscienza di Zeno, in cui strappò a un comico come Alberto Lionello i registri drammatici. E ancora Bouvard e Pécuchet, trattato assieme a Tullio Kezich (Sipario, 1968, n. 271).
Sulla scia degli entusiasmi interdisciplinari, sul finire degli anni Sessanta fondò, grazie al grecista Benedetto Marzullo, il corso di laurea in Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo (DAMS) presso l’Università degli studi di Bologna, chiamando i migliori nell’operatività connessa allo spettacolo e alla comunicazione, a fianco, tra gli altri, di Umberto Eco. In tale contesto, nel 1976 gli venne conferita la cattedra di istituzioni di regia, poi lasciata nel 1987 per spostarsi alla Sapienza e quindi a Roma Tre, dove divenne professore emerito nel 1998.
Capace di proficui trasbordi dalla lezione universitaria alla messinscena, in quanto gli autori indagati nell’aula divenivano oggetto puntuale di produzione alla ribalta, rese proficuo lo stressante pendolarismo tra oralità accademica e approccio critico dispiegato nelle prove dello spettacolo. E questo fluì agilmente nel concepimento dei saggi principali, oltre che riversare insolito acume inquisitivo in un profluvio di note di regia divenute spesso prefazione alla pubblicazione dei testi stessi.
Eclettica la lista dei suoi allestimenti che annoverò 114 regie di prosa, 31 liriche, 8 televisive, 12 radiofoniche. Repertori ridisposti in un museo drammaturgico personale, dove spesso erano le prime edizioni sceniche a motivarlo, come al tempo del primo Amleto integrale (1952; da lui tradotto ed edito a Bologna nel 1953), o il Tieste senechiano (1953), un po’ in anticipo sulla cruauté artaudiana. E sono allora i momenti del Teatro d’arte italiano, da lui condiretto assieme a Gassman appunto, tra il 1952 e il 1954, sodalizio spezzato all’improvviso per ragioni umorali in occasione del Prometeo eschileo andato in scena a Siracusa nel 1954.
Mosso da curiosità inesausta verso il nuovo e considerato il fondatore della ‘regia critica’ in Italia, apprezzava la scoperta elitaria inusitata, specie nel settore musicale, a partire da Gli Abenceragi (1957) di Luigi Cherubini, con titoli di solito nuovi per i nostri palcoscenici, da Ildebrando Pizzetti a Mario Peragallo, da Ernst Krenek a Benjamin Britten. Innanzitutto, i classici, riletti come contemporanei, trattati in quanto valore di scambio in una sorta di dialettica hegeliana con l’oggi: vedi il coro di hippies nelle Baccanti nel 1968 (tradotto da Edoardo Sanguineti, cui poi affidò anche I sette contro Tebe, all’Olimpico vicentino, nel 1992), che inglobava le rivolte di piazza e le cariche della polizia, l’anarchia ginzberghiana e i governi del centro destra, Mao e le droghe pesanti. Ma lo attrasse sin dall’inizio il montaggio nelle sequenze dello spettacolo, per non perdere mai il contatto con la platea, in un ritmo quasi cinematografico, tra tempo sincopato del vaudeville da un lato o il thriller-noir dall’altro. Così in Detective story (1951), in pieno boom, anche filmico, americano. Nell’eterogeneità delle scelte, le linee primarie vertevano su William Shakespeare, Carlo Goldoni e Luigi Pirandello. Del primo, in Misura per misura (1957 e 1976) sottolineava la macchina del potere, come anche in Troilo e Cressida (1964), con abiti e divise che rimandavano alle guerre novecentesche. Costante la fedeltà al versante angloamericano: l’Arthur Miller di Erano tutti miei figli (1947), il malizioso e tenerissimo Tè e simpatia di Sherwood Anderson (1955), dove nel ruolo del ragazzino dall’incerto orientamento sessuale, si esprimeva l’inquietudine di Luca Ronconi; Anna dei miracoli di William Gibson (1960), con la bambina sordo-cieca interpretata da Ottavia Piccolo esordiente. E ancora punte dall’elisabettiano Volpone di Ben Johnson nel 1977 a Casa cuorinfranto di George Bernard Shaw (1980), intinto nel cechovismo, sino a Tre donne alte di Edward Albee (1994), quando Marina Malfatti non esitò a invecchiarsi in un’aspra novantenne morente.
Per Goldoni, sentito quale modello di unità perduta con la sala, arrivò, nell’Avventuriero onorato (1992), a ipotizzare legami con i servizi segreti del tempo, mentre con La casa nova (1973) enfatizzò il primo sciopero di una mano d’opera non pagata nella storia del teatro. Nel felice Una delle ultime sere di Carnovale, varato alla Biennale di Venezia nel 1968, inserì la malinconia dei Mémoires con allusione alla diaspora sofferta dei nostri intellettuali, avvalendosi di suggestioni di Mario Baratto per il gioco a carte della ‘meneghela’. In Il ventaglio (1979, assieme alla ripresa del 1993 che sembrava uscire dal suo coevo saggio L’eros e lo stupore), affrontava la macchina del desiderio e le connesse peripezie del caso e del gioco, in una scena innalzata a puro campo energetico, con i personaggi divenuti diagrammi fisici.
Ben undici gli allestimenti pirandelliani, a partire da Ma non è una cosa seria (1957), contestualizzata nel superomismo di provincia al tempo dei fasci, fino, da ultimo, a La vita che ti diedi (1994; ripresa nel 2004). In Berretto a sonagli (1984), poco siciliano e di respiro europeo per il cupo Ciampa di Paolo Stoppa, su consulenza dell’amico Nino Borsellino riutilizzò in lingua il pezzo mirabile della versione vernacola, tolto da Angelo Musco, circa lo scorpione trovato sul letto coniugale. E spesso riversò grande attenzione alle fonti del plot, come in Tutto per bene (1988, con Gianrico Tedeschi), del resto da lui già allestite, dal Pane altrui con Renzo Ricci (1948) a Tramonto di Simoni (1982) con Alberto Lionello. Il climax venne raggiunto in Ciascuno a suo modo (1961), ricollocato in una iconografia futurista e rispettoso delle modalità figurative della prima storica nel 1924. Più che i canoni meta-teatrali, vi circolava la memoria degli Intermezzi del manierismo tardocinquecentesco, portando alla luce non solo i legami evidenti con le avanguardie del momento, ma le componenti quantistiche e le teorie dell’indeterminazione heisenberghiana, nel tentativo ambizioso di scrivere il caos, di mimare l’happening e il teatro di strada. E il regista, oltre a trasformare i personaggi dei critici in sagome riconoscibili, tra cui Antonio Gramsci e Piero Gobetti, si spinse a far recitare le didascalie stesse.
In Questa sera si recita a soggetto (1972), di minor impatto, due interventi nondimeno significativi: da una parte il recupero della scena della chanteuse con il dottor Hinkfuss, dall’altra la sequenza Massenspiel con la processione recitata da un assistente, mentre l’aeroporto veniva immerso nell’aeropittura del tempo. Rare viceversa le versioni da Bertolt Brecht, e senza le smanie epicizzanti di Giorgio Strehler: basti ricordare i Sette peccati capitali (1961) e poi la spavalda, sanguigna Lina Volonghi in Madre Courage e i suoi figli (1970).
Le scelte rispondevano pure alle istanze di mercato e alla macchina implacabile di produzione e distribuzione pubblica e privata. La scena sembrava trovarsi ancora al centro della città, un dramaturg fermo al modello amburghese o weimariano, o sia pur in chiave laica all’Avignone vilariana; come al tempo delle grandi polemiche suscitate dal Diavolo e il buon Dio di Jean-Paul Sartre nel 1962, con tutta la Curia mobilitata contro. Poetica dischiusa nella tanto produttiva fase dello Stabile genovese, diretto con Ivo Chiesa dal 1962, per 14 anni, e rilanciata al teatro Argentina dal 1976 al 1983, puntando a un teatro di repertorio, pur con minori sintonie con le istituzioni capitoline. Nondimeno, non mancarono qui idee nuove, come i rapporti seminariali con l’Università La Sapienza, l’inclusione delle cantine entro il cartellone principale, il varo dell’animazione nelle scuole, il decentramento, l’Estate romana, i laboratori aperti a ragazzi disabili, il risanamento di bilancio. Tensione progettuale dissolta nella precarietà del circuito commerciale, dal 1984 in poi, sino alle ultime, occasionali regie.
Squarzina s’interrogò costantemente sulla sua identità di regista: esemplare uno scritto come Nascita, apogeo e crisi della regìa come istanza totalizzante (1974), sintetizzata poi nella voce omonima per la IV Appendice dell’Enciclopedia Italiana (1981), dispiegata infine nella sinfonia invernale (quasi 600 pagine senza note bibliografiche), di Il romanzo della regìa – (di cui vaticinava l’eclisse) – Duecento anni di trionfi e sconfitte (2005), congedo e insieme esame di coscienza professionale e personale.
Regista egemonico e allo stesso tempo compatibile con i grandi attori, a differenza della funzione primaria con cui venne concepita la regia in Italia, star cercate a partire da Renzo Ricci per Il nemico del popolo ibseniano (1948), e da Gassman, quindi nel fugace connubio con la neonata Compagnia dei giovani (il clan De Lullo, Valli, Falk, Guarnieri) per Lorenzaccio di Alfred de Musset nel 1954, e poi Albertazzi e Adriana Asti, per far solo qualche nome. Perché, grazie a loro, lo spettacolo si immetteva nella memoria orale e nella tradizione nazionalpopolare, in particolare nel filone ottocento-primonovecento nostrano, da Squarzina rilanciato anche in titoli minori: il Cardinal Lambertini (1981) di Alfredo Testoni, dove il trionfo di Gianrico Tedeschi riproponeva felicemente l’era del mattattorismo (e dietro palpitava il ricordo della grande stagione dialettale, come in La famegia del santolo di Giacinto Gallina, 1986). E lo evidenziò nei 21 minuti di primo piano del volto di Paolo Stoppa nell’allestimento televisivo del Berretto a sonagli (1985). Il fatto è che amava i suoi interpreti. Ronconi giovinetto rimase ben otto anni in compagnia con lui, conquistato dalla «burbera soavità» del maestro. E li guidava infatti con mano ferma e grazia autorevole, pur non essendo lui attore, nonostante qualche cammeo cinematografico, come il giornalista nel Caso Mattei (per la regia di Francesco Rosi, 1972), suffragato dal Nastro d’argento come attore esordiente (a 50 anni), malgrado la voce un po’ monocorde e professorale.
E, subito dopo gli attori, decisivo fu lo spazio architettonico, con forti investimenti sul contenitore scenografico, sua autentica passione, variando con disinvoltura dalla scena all’italiana al plein air di Siracusa, dalle feste di San Miniato, dove aprì un moderno dibattito etico-religioso con Il potere e la gloria di Graham Greene (1955) e l’eliotiano Grande statista (1959), all’Olimpico vicentino per il battesimo del Misantropo di Menandro (1959). Di qui gli artisti coinvolti a fornire immagini e costumi: da Giacomo Manzù, per la regia lirica di Oedipus rex di Igor Stravinskij (1964), ripreso con sua regia all’Opera di Roma nel 2005, a Guido Crepax per La gabbia di Renzo Rosso (1968).
Mescolato in più modi dunque al mondo estetico, anche nel privato. Dopo un primo matrimonio con l’attrice Zora Piazza nel 1948, da cui nacque Federico nel 1953 (architetto), sposò in seconde nozze nel 1975 Silvia Danesi, emerita di storia dell’arte moderna presso l’Università La Sapienza, dall’unione con la quale nel 1979 nacque Anna Isabella (francesista).
Nella sua drammaturgia, sempre di lunga gestazione, e ritagliata nelle pause della produttività registico-professorale, almeno dieci i titoli, in un’estrema varietà di modelli.
Nell’Esposizione universale, scritta tra il 1945 e il 1948, bloccata dalla censura ma insignita con il premio Gramsci nel 1948, (inaugurata in Polonia nel 1951), refoli di neorealismo, per la moltitudine degli sfollati, i senzatetto abusivi che occupavano gli edifici dell’EUR piacentiniano a circoscrivere i casi individuali, con lo scioglimento finale segnato dagli spari della polizia. In Tre quarti di luna, dedicata al padre, e varata nel 1953, mise a fuoco i cattivi maestri sotto il fascismo, la trama essendo contestualizzata al 27 ottobre 1922, in un liceo della provincia romagnola, fermentante di ambizioni, desideri, progetti educativi. Una pièce à thèse, dove la grande storia tendeva trappole alle vicende piccole dei personaggi, stritolandone le pulsioni esistenziali. Sulla scena passavano allieve inquiete, bidelli bonari e ispettori minacciosi, professorini disfatti dalla noia, qualche prestito del primo atto del pirandelliano Pensaci, Giacomino!, accelerato dal brio di Dario Niccodemi. Il preside plagiato dalla riforma gentiliana, ruolo nella prima versione scenica del 1952-53 affidato all’aitante fisicità di Gassman, risultava una complessa figura di figlio dell’idealismo, poi ucciso dal seminarista spretato di Ronconi, a vendicare il compagno suicida. Quindi, La sua parte di storia (1955; premio Pescara, al debutto nel 1960 con la regia di Gianfranco De Bosio), centrata su un’inchiesta dei carabinieri intorno a un fatto di sangue, ambientato in un lontano paesino sardo, soggetto a leggi pastorali, in contrasto con la dottoressa americana impegnata a combattere l’epidemia che uccide i bambini, ma non tanto innocente come si scopriva nel finale in un clima tribunalizio alla Fabbri.
Romagnola, melodramma maturato tra il 1951 e il 1957, dove rispuntavano Romeo e Giulietta, schierati in campi avversi nel tempo della Resistenza, scandito in scene, non in atti, provocò alla prima presso il romano teatro Valle nel 1959 il lancio pittoresco di topi morti agganciati a palloncini tricolore da parte della gazzarra fascista. Emmetì, del 1961-1963, uscito in scena tra furibonde polemiche nel 1966, affrontava l’influenza del mondo industriale nella lingua quotidiana, mediante ludismi e luddismi linguistici, in una disponibilità insolita per moduli e neologismi sperimentali, coevi alla stagione del Gruppo 63, mentre le battute srotolavano a immettere al loro interno slogan pubblicitari, cascami di conversazione disimpegnata, una oralità ripetitiva, in terza persona, tra Theodor Adorno e Martin Heidegger. Ma un simile ardore neologistico siglava anche una sorta di processo omeopatico rispetto alle stesse avanguardie. In Cinque giorni al porto (1969), si occupò di temi sindacali, documento di una drammaturgia del territorio, in questo caso Genova, e in Rosa Luxemburg (1974), scritta come il primo copione con Vico Faggi, affrontò il motivo storico della rivolta. Sulla scia, Otto settembre, steso con Ruggero De Bernart e Luigi Zangrandi nel 1971. E ancora, l’inchiesta-apologo sul riassetto burocratico, ma cifrato da citazioni dalla commedia rinascimentale, in I cinque sensi (1987). Invece, in Siamo momentaneamente assenti (1992), ghost story, vincitrice l’anno prima del premio IDI (Istituto del Dramma Italiano), si divertì con i registri leggeri di uno spiritismo alla Noël Coward. Un milieu colto, tra letteratura e cinema, un gioco metateatrale, in quanto la donna deceduta (un tenero e divertito omaggio a Lalla Kezich, la compagna di una vita dell’amico Tullio) traduceva dal danese Karen Blixen mentre il vedovo, scrittore e sceneggiatore filmico, collaborava con uno squinternato regista, propenso all’immaginario, e dalle iniziali felliniane, Effe Effe. Un clima pertanto alla Ennio Flaiano (con rimandi all’Alcesti euripideo), e vertiginosi colpi di scena, agnizioni d’adulterio, confessioni e processi, per far passare l’oggetto ansioso della scrittura, vale a dire il tema della scomparsa del partner amato.
Tra le regie televisive, da ricordare Lo squarciagola, scritto con Lao Pavoni e trasmesso nel 1966, dedicato all’ascesa e al crollo di un’ugola canora (Sipario, 1966, n. 246). E in mezzo i radiodrammi, tra cui le sulfuree Interviste impossibili a Linda Murri nel 1974 e a Dante Gabriele Rossetti nel 1975.
Squarzina ammirava Strehler, il cui Arlecchino mirabolante stimolò nel 1963 il suo trionfante I due gemelli veneziani con uno scatenato Alberto Lionello. Considerava inarrivabili le regie del Cerchio di gesso del Caucaso di Brecht del Berliner e il Sogno shakespeariano di Peter Brook, strano binomio, a conferma di un gusto sempre eterogeneo. Vita di lotta e di riconoscimenti, la sua, allietata da una serie nutrita di premi, tra cui nel 1958 il Marzotto per Romagnola, nel 1998 l’Antonio Feltrinelli per il teatro assegnato dall’Accademia nazionale dei Lincei (di cui divenne socio nazionale nel 2002), nel 2003 quello alla carriera da parte del DAMS bolognese, nel 2006 il Galeone d’oro da Pisa.
Morì a Roma, l’8 ottobre 2010.
Opere. Teatro, Bari 1959 (comprende: L’Esposizione Universale, Roma 1949, con introduzione di V. Pandolfi, ristampata da Bompiani nel 2015 in occasione della messinscena al Teatro di Roma, con regia di P. Maccarinelli; Tre quarti di luna, La sua parte di storia, Romagnola, Il pantografo, Racconto per voci e suoni, Emmetì); Pagine per la scena, Milano 1966; Cinque giorni al porto, Genova 1969 (con V. Faggi); Otto settembre, Genova 1971 (con R. Zangrandi - E. De Bernard); Rosa Luxemburg, Bari 1975 (con V. Faggi). Si segnalano, inoltre, altre due raccolte: Teatro, con introduzione di E. Bonaccorsi, Genova 1988 (comprende: Tre quarti di Luna, Emmetì e I cinque sensi); e Teatro, Roma 1991 (comprende: L’Esposizione Universale, La sua parte di storia e Romagnola). Infine: I cinque sensi, Genova 1988; Siamo momentaneamente assenti, in Ridotto, 1992, 4, poi in La storia e il teatro, a cura di E. Testoni, Roma 2012.
Per la saggistica si vedano almeno: Nascita, apogeo e crisi della regia come istanza totalizzante, in Problemi del linguaggio teatrale, a cura di A. Caracciolo, Genova 1974, pp. 123-145; Da Dioniso a Brecht: pensiero teatrale e azione scenica, Bologna 1988; Questa sera Pirandello. Scritti e note di regia, Venezia 1990; Da Amleto a Shylock, Roma 1995; Il romanzo della regia. Duecento anni di trionfi e sconfitte, Ospadaletto 2005.
Fonti e Bibl.: Oltre a un imponente Archivio, donato nel 2009 all’Istituto Gramsci (la biblioteca con molti volumi preziosi è confluita nella sezione Teatro e melodramma della Fondazione Cini di Venezia), un sito apposito è in preparazione, diretto dalla vedova Silvia Danesi. Si veda, comunque, anche la voce relativa di G.C. Castello in Enciclopedia dello spettacolo, IX, Roma 1962, pp. 224-228.
Nella vasta letteratura critica: Passione e dialettica della scena. Studi in onore di L. S., a cura di C. Meldolesi - A. Picchi - P. Puppa, Roma 1994; L. S. e il suo teatro, a cura di P. Bosisio - L. Colombo F. Mazzocchi, Roma 1996 (con l’elenco completo degli spettacoli); Silvana Tamiozzo intervista L. S., in La maschera e il volto: il teatro in Italia, a cura di F. Bruni, Venezia 2002, pp. 473-498; F. Nicolosi, S. e Pirandello. Dalla matrice narrativa alla realizzazione scenica, presentazione di G. Sammartano, Roma 2012; P. Puppa, Lettera a L. S., in Ariel, I (2011), pp. 117-132; Id., Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Roma-Bari 2012; L. S. Studioso, drammaturgo e regista teatrale, Atti del convegno, Venezia... 2012, a cura di M.I. Biggi (con testimonianze e intervista a L. Ronconi, a cura di P. Puppa), Roma 2013; E. Testoni, S. e Guerrieri nel privato delle lettere e nel pubblico delle riflessioni, in Biblioteca teatrale, n.s., 2017, n. 121-122, pp. 183-202.