MARTINI, Luigi
– Nacque a Sustinente, presso Mantova, il 7 ag. 1803 da Pietro, agricoltore, e da Annunciata Pinotti. I genitori, ferventi cattolici, lo educarono ai valori religiosi sviluppando in lui il sentimento della carità cristiana; sbocco naturale di tale formazione fu, al termine degli studi elementari, l’ingresso nel seminario vescovile di Mantova. Dopo il conseguimento del diaconato (1827), il 1° genn. 1828 arrivò per il M. l’ordinazione sacerdotale impartitagli dal vescovo di Mantova. Lasciato il seminario dove già da un paio d’anni insegnava come supplente agli allievi del ginnasio, il M., dopo aver trascorso un breve periodo come cappellano curato nella frazione di Sacchetta, fu inviato a reggere la parrocchia di Levata di Curtatone.
Vi restò dal 1830 al 1843, ma non allentò mai i contatti con il suo seminario dove ricoprì vari ruoli, da quello di vice rettore (1834) e poi di direttore spirituale (1836) a quello di docente di dogmatica (1839) e, più tardi, di pastorale, non disdegnando nemmeno le funzioni di bibliotecario. Così si venne formando una personalità umile ma capace di innestare, sull’educazione ricevuta in famiglia, i frutti di un’esperienza che aveva le sue molteplici radici nell’illuminismo settecentesco, nel giurisdizionalismo austriaco, nel giansenismo pavese, e da ultimo nel rosminianesimo: non diversamente da altri esponenti del clero lombardo illuminato, il M., non a caso ammiratore di A. Manzoni e del cattolicesimo operoso di alcuni suoi personaggi, veniva dunque interpretando la propria missione con una particolare sensibilità alle condizioni del popolo – in particolare quello delle campagne – unita a una fede sincera nella perfettibilità dell’uomo attraverso la conoscenza e l’educazione.
L’esempio di Ferrante Aporti influiva sulla sua cultura – vasta ma non profonda – almeno quanto la lettura assidua dei testi di teologia, perché come uomo di chiesa sentiva di dover impartire l’insegnamento religioso e praticare la carità verso tutti i suoi simili senza però sottrarsi alla promozione di iniziative volte ad alleviare le sofferenze di quanti erano vittime della miseria o delle calamità naturali. Di qui la sollecitudine del M. a incoraggiare la fondazione di asili e scuole per l’infanzia (1837), di un Istituto di S. Chiara per le donne in difficoltà (1852: poi Istituto monsignor Martini), di una Casa della Divina Provvidenza per le convertite (1853), di un Istituto delle piccole derelitte (1855), di un Istituto degli artigianelli per i figli del popolo (1857), di pie case di ricovero e mendicità.
Tutto ciò fece sorgere ostacoli e critiche da parte degli ambienti dove era avvertita l’esigenza di una difesa dell’ordine sociale e di un maggiore allineamento alle posizioni del temporalismo. A essere preso di mira fu soprattutto il seminario, in particolare quando, con la didattica affidata a preti considerati liberali (G.B. Avignone, G. Pezza Rossa, F. Bosio, E. Tazzoli, lo stesso M.), cominciarono a penetrarvi le idee di V. Gioberti e molti tra gli allievi presero a coltivare il sogno dell’indipendenza.
Dopo aver lasciato Levata, il M. era stato fino al 1849 parroco a Ostiglia da dove si era congedato con un saluto ai fedeli (Ultime parole dell’arciprete di Ostiglia d. Luigi Martini ai suoi parrocchiani, Mantova 1849) contenente la raccomandazione a non seguire i «falsi profeti» delle moderne dottrine rivoluzionarie (razionalismo, sansimonismo, comunismo, radicalismo, socialismo); nulla vi si diceva contro il patriottismo, dal M. giudicato non incompatibile con la morale cristiana. Intanto, già dal 1848 era stato nominato dal nuovo vescovo G. Corti rettore del seminario e aveva subito avviato un programma di riforme basato su un rapporto meno autoritario tra docente e allievi: «non più studio mnemonico su pochi appunti, non più rigore di severità fuor di luogo, ma fiducia ai chierici, ampie letture col sussidio di una biblioteca ricca e aggiornata, discussione in circolo delle letture e degli argomenti» (Toscani, p. 391). Roberto Ardigò, uno tra i discepoli più cari al M., fu il prodotto migliore di questo nuovo metodo; ma non si dovette aspettare la congiura di Mantova o la crisi interiore di Ardigò perché da parte dei settori più intransigenti si gridasse allo scandalo e si puntasse l’indice contro il vescovo e contro il M. che, essendone considerato il consigliere più ascoltato, si diceva gli avesse imposto una politica di tolleranza verso ogni forma di errore o di disordine morale contribuendo così a fare del seminario un laboratorio di ribellione all’Austria e alla Chiesa.
Le prime avvisaglie di una polemica dagli evidenti riflessi sulla questione nazionale si erano già avute con il ’48, quando molti seminaristi si erano svestiti per darsi alla politica o per unirsi ai combattenti. La vera bufera scoppiò però nel 1851, quando la scoperta della congiura mazziniana, le successive indagini, i processi e le condanne portarono alla luce le responsabilità di Tazzoli come capo della cospirazione e come artefice del coinvolgimento di molti altri preti della diocesi (Bosio, Pezza Rossa, B. Grazioli, G. Grioli, G. Ottonelli) più o meno direttamente collegabili alle attività del seminario. Per disposizione del vescovo il M. fu uno dei religiosi cui tra il 1851 e il 1853 toccò il compito di prestare assistenza spirituale ai condannati a morte nei giorni precedenti l’esecuzione: tra questi tre sacerdoti (Grazioli, Grioli e Tazzoli) a lui ben noti personalmente che, come gli altri cospiratori impiccati nella valletta di Belfiore, trovarono nel suo sostegno la forza d’animo necessaria per accettare serenamente una sentenza intesa a stroncare qualunque attività settaria in una città strategicamente importante come Mantova; una sentenza resa ancora più dura dalla passività con cui a Roma Pio IX aveva tollerato che la repressione austriaca si abbattesse sui religiosi e approvato altre misure punitive a loro carico, quali la svestizione e la sepoltura dei resti in terra non consacrata.
Uscito provatissimo da questa esperienza che lo aveva costretto ad accompagnare i condannati di Belfiore fin sul patibolo, nel 1854 il M. fu sollevato dalla carica di rettore del seminario e fatto oggetto di critiche che mettevano strumentalmente in relazione la presenza di tanti preti nella congiura con la sua presunta debolezza di docente: che era quanto gli rinfacciavano gli Austriaci, sostenendo che fosse inadatto alla carica di rettore «per soverchia dolcezza di carattere, per mancanza di accorgimento e per poca esperienza nelle cose del mondo» (Mantova. La storia, III, p. 733). Da allora il M. ebbe a cuore un solo impegno: quello di conservare per i posteri la memoria di coloro che, sottoponendosi al supplizio, avevano dimostrato come l’amor di patria che era stato il primo movente delle loro azioni fosse perfettamente conciliabile con i sentimenti religiosi che avevano manifestato nei giorni precedenti all’impiccagione.
Va detto che in passato il M. si era già misurato con lavori di una certa lena dando alle stampe, oltre ad alcuni scritti minori, una ponderosa raccolta delle sue lezioni (Il seminarista, I-VI, Mantova 1843-45) e un’opera in cui, con il proposito di contribuire all’elevazione non solo economica delle campagne, aveva espresso tutta la propria vicinanza al mondo rurale, a partire dalla figura paterna proposta al lettore come modello di vita onesta, laboriosa e sempre dedita agli altri. Pubblicato in due volumi nel 1856, Il buon contadino (ibid.), ebbe successivamente altre due edizioni (ibid. 1859 e 1861); con Au clergé. Méditations sur le sacerdoce (Châlons-sur-Saône 1864) le riflessioni del M. arrivarono anche in Francia.
Non si sa quanto durasse la gestazione del libro su Belfiore in cui il M., sul filo dei propri ricordi personali e di quanto raccontatogli da altri religiosi, ricostruì le ore passate con i detenuti nel breve periodo (di solito tre giorni) tra la pubblicazione della sentenza e l’esecuzione della pena capitale. Certamente la stesura del manoscritto provocò nel suo autore anche un forte coinvolgimento emotivo; e comunque per pubblicarlo fu necessario aspettare la fine della dominazione austriaca: Il confortatorio di Mantova negli anni 1851, 52, 53 e 55 (il confortatorio era la cella del carcere adibita ai colloqui dei preti con i condannati) uscì infatti in due volumi nel 1867.
Per quel poco che circolò, piacque per lo stile dimesso, quasi sciatto, del racconto, e per la compostezza con cui veniva rievocata una pagina tragica della storia cittadina e nazionale, senza dar luogo a recriminazioni o a sentimenti di odio ma anzi facendo risaltare i tratti d’umanità degli stessi giudici e carcerieri, per quanto inflessibili nell’applicazione delle leggi. Documento commosso e commovente d’un incubo cittadino, Il confortatorio sembra a prima vista rivelare nell’autore un sentimento irenico di fondo: in realtà il lettore non fatica a trovare nella materia narrata e sinanche nei silenzi (clamoroso quello sul papato) l’indignazione che vi era celata e che all’epoca la prudenza consigliò di frenare.
Nel suo trascurare completamente l’aspetto processuale e il dato della lotta politica (cui il M. fu sostanzialmente estraneo), il libro, apparentemente semplice, era in realtà molto abile perché collocava la narrazione su un piano di drammatica spiritualità e rivelava in chi lo aveva scritto le stesse capacità di penetrazione nell’animo umano che avevano convinto i condannati più scettici (P. Frattini, A. Scarsellini, B. Canal) a operare una sorta di conversione, e i credenti, primi tra tutti i preti, a trovare in un rinnovato slancio di ascesi la via d’uscita dalla disperazione. La dimensione del martirio cristiano ne usciva accentuata (un po’ come nel S. Pellico delle Mie prigioni, ma in una condizione psicologica ben più grave), a maggior gloria non solo di Dio ma anche della patria; e nel lettore – tra questi Manzoni, che ricevette dal M. una copia in omaggio – restava l’impressione che quelle vite così bruscamente troncate non appartenevano a cospiratori sanguinari o a preti indegni della veste talare, non erano espressione di minoranze rese violente da un accecamento ideologico, ma, uscite dal popolo, ne rappresentavano l’aspirazione collettiva alla verità e alla giustizia, e col loro sacrificio preannunciavano l’avvento di un’Italia nuova. Qua e là l’occhio del M. si soffermava rapidamente anche sul Paese appena unificato riservando parole di speranza all’istituzione monarchica, soprattutto in considerazione della coesione sociale che essa aveva saputo garantire; non meno importante era, in questo senso, la funzione delle famiglie, dimostratasi essenziale nel momento in cui si era trattato di ridestare nei condannati la forza d’animo e lo spirito di rassegnazione indispensabili per andare incontro alla morte.
Al di là del tratto umano, i detenuti avevano sentito di potersi fidare di lui: Felice Orsini, che lo conobbe da prigioniero nel castello di Mantova, lasciò di lui un ritratto che in poche righe spiegava da un lato la diffidenza delle autorità austriache nei confronti del M., dall’altro attestava in lui il possesso di qualità non ordinarie: «è un ottimo sacerdote, conforta i deboli, e chi si trova nella sventura; profonde tutte le sue entrate in opere caritatevoli, e allorché assiste i rei di Stato che vanno alla morte, non li costringe a compiere le cerimonie del cattolicesimo, siccome vorrebbe l’Austria» (F. Orsini, Memorie politiche, Milano 1962, p. 217).
Parroco della cattedrale di Mantova a partire dal 1854, nel 1859 il M. tornò a dirigere il seminario e a tenervi tra l’altro anche lezioni di agraria; morto il vescovo Corti che l’aveva sempre difeso, nel 1868 era stato appena fatto vicario capitolare quando scoppiò il caso di Ardigò, già suo allievo, professore nel seminario e suo collaboratore in varie iniziative culturali, convertitosi nel 1869 al positivismo con un celebre discorso su Pietro Pomponazzi. Successive dichiarazioni antinfallibiliste di Ardigò e la sua decisione di svestire l’abito talare, oltre a comprometterne definitivamente la posizione, fornirono agli ambienti dell’intransigentismo (in particolare al patriarca di Venezia G. Trevisanato) l’occasione per regolare i conti col M. che lo aveva sempre difeso e che ora scontava le simpatie per il giansenismo, lo scarso entusiasmo dimostrato in passato per il potere temporale e l’oggettiva situazione di disagio in cui, per un drastico calo delle ordinazioni, versava da qualche anno la diocesi mantovana, posta al centro di una zona dove si stavano diffondendo le teorie materialiste e il socialismo. Il seminario fu chiuso, i professori furono sospesi, la diocesi normalizzata (ma l’invio di un vescovo intransigente non fermò il calo delle ordinazioni) e il M. nel 1871 fu sollevato dall’incarico; per di più la seconda edizione del Confortatorio, apparsa nel 1870, fu sottoposta a indagine da parte della congregazioni romane, accusata di liberalismo e condannata informalmente, tanto che il M. dovette farla ritirare dalla circolazione. Se fu evitata la messa all’Indice dell’opera fu perché a Roma, malgrado la severissima relazione del segretario della congregazione dell’Indice, a parere del quale «il connubio del cattolicismo e del liberalismo rappresenta l’angelo delle tenebre trasformato in angelo della luce» (Luzio, 1927, II, p. 416), si vollero probabilmente evitare ulteriori lacerazioni con gli elementi più aperti della gerarchia.
Al M. non restò che sottomettersi: confinato per qualche anno in parrocchia, uscì dalla condizione di semiritiro quando nel 1875 un regio decreto lo nominò abate della basilica palatina di S. Barbara «esente dalla giurisdizione vescovile» (Pecorari, 1978, p. 113). Ma questa attenzione del sovrano non giovò alla sua immagine presso chi gli era ostile, come prima non gli avevano giovato le due nomine a cavaliere dell’Ordine mauriziano (1866) e della Corona d’Italia (1868).
Il M. morì a Mantova il 19 ag. 1877; aderendo alle sue ultime volontà, i resti furono inumati nel cimitero di Levata di Curtatone.
Fonti e Bibl.: Le carte del M., in origine conservate a Verona nella sede della Congregazione delle sorelle della Misericordia, sono ora depositate presso l’Arch. storico della diocesi di Mantova: cfr. L’archivio monsignor Luigi Martini: inventario, a cura di D. Martelli, Mantova 2003, che cataloga 26 buste di corrispondenza e 16 buste di manoscritti in cui figurano, tra gli inediti, l’Appendice al Confortatorio e il testo de La buona contadina. Uno spezzone del fondo, comprendente le carte relative ai martiri di Belfiore, è stato donato nel 1912 all’Arch. di Stato di Mantova ed è ora descritto da A. Bellù, Le carte Martini conservate presso l’Arch. di Stato di Mantova, in Mons. L. M. e il suo tempo (1803-1877), Mantova 1980, pp. 421-453. Questo volume raccoglie gli atti del Convegno di studi nel centenario della morte, tenutosi a Mantova dal 14 al 16 ott. 1978 e comprende, tra le altre, le relazioni di G. Landucci (Mons. L. M. e Roberto Ardigò, pp. 117-233) e X. Toscani (Clero e ordinazioni a Mantova dal 1815 al 1900, pp. 381-420). Il confortatorio, più volte edito sia in edizione integrale (I-II, a cura del Comune di Mantova nel 1952, con introduzione e note di A. Rezzaghi, e nel 1959) sia in ampie selezioni (L. Martini, I martiri di Belfiore: pagine… scelte e ordinate, a cura di G. Mazzoni, Firenze 1903, altre ed., ibid. 1907 e 1918; Il confortatorio di Mantova, a cura di A. Zorzi, Bologna 1961) ha fornito il maggiore apporto documentario alla ricerca di A. Luzio, I martiri di Belfiore e il loro processo, Milano 1916 (in Appendice, pp. 504-513, un saggio di Luzio su Mons. M. e Roberto Ardigò); dello stesso autore si veda pure La tortura morale inflitta a mons. L. M. per il suo «Confortatorio», in Profili biografici e bozzetti storici, Milano 1927, II, pp. 393-419. Si vedano inoltre: V. Campagnari, L’educazione del popolo nel pensiero e nell’attività di alcuni patrioti mantovani, in Rass. stor. del Risorgimento, XLII (1955), pp. 228-234; R. Salvadori, Il buon contadino di mons. M. e le campagne mantovane nell’ultimo periodo della dominazione austriaca, in Boll. stor. mantovano, III (1958), pp. 445-458; Mantova. La storia, III, Mantova 1963, ad ind.; Mantova. Le lettere, ibid. 1963, ad ind.; A.G. Pecorari, «Il confortatorio» di mons. L. M. e l’«Indice», in Civiltà mantovana, XI (1977), pp. 282-288; Id., Mons. L. M. tra Mantova e S. Sede (una vicenda complessa e contraddittoria), ibid., XII (1978), pp. 107-158 (condotto sui documenti del Vaticano); M. Bertolotti, Le complicazioni della vita, Milano 1998, ad ind.; S. Siliberti, Mons. Giovanni Corti e mons. L. M.: l’umile «potere» del servire a fronte dell’umiliante «potere» del dominare, in I martiri di Belfiore tra storia e memoria, a cura di A. Mortari - D. Ferrari - G. Manzoli, Mantova 2002, pp. 37-61; C. Cipolla, Belfiore, I, I comitati insurrezionali del Lombardo-Veneto ed il loro processo a Mantova del 1852-1853, Milano 2006, pp. 796-812.