MALPIGLI, Lucrezia
Nacque a Lucca il 30 maggio 1572, ultima delle figlie di Vincenzo e di Luisa di Benedetto Buonvisi. Il padre, nato dal matrimonio fra Nicolao Montecatini e una figlia di Giovan Lorenzo Malpigli, era stato adottato dal nonno materno, insieme col fratello Giovanni, ereditandone, nel 1541, la maggior parte dei beni e il cognome Malpigli.
La M. passò la prima gioventù a Ferrara, dove, dal 1578, il padre s'impegnò prima in un'ingente impresa di bonifica poco fortunata e poi come tesoriere del duca Alfonso II d'Este. Presto la giovane fu promessa in sposa a uno dei figli di Paolo Buonvisi. A causa della morte prematura del giovane, la famiglia impose alla M. il matrimonio con il secondo degli eredi del Buonvisi e, scomparso anche questo, l'affidò al terzo dei fratelli, Lelio. Le nozze furono celebrate a Lucca nel 1591, mentre il padre, dopo alcune speculazioni sfortunate, riusciva a superare una grave crisi economica grazie proprio all'aiuto dei parenti acquisiti.
A Ferrara la M. aveva conosciuto e si era innamorata di Massimiliano Arnolfini, non ricco e di famiglia assai meno illustre di quella dei Buonvisi. Trasferitasi a Lucca con il marito, la M. riprese la relazione con Arnolfini. Costui, da molti giudicato un uomo violento, teneva a presentarsi in pubblico accompagnato da un piccolo gruppo di bravi. Era seguito dai suoi armati anche durante i giorni tumultuosi dell'inimicizia fra Bartolomeo Arnolfini e Ambrogio Boccella, alla quale i giovani delle due famiglie e i loro sostenitori partecipavano con passione mettendo in subbuglio la città. Non pare, comunque, che il rapporto clandestino - al contrario di quanto affermato dalla narrativa storica - andasse oltre alcuni e rari incontri nella casa di una coppia di servitori compiacenti e lo scambio di lettere ingenue e appassionate.
Secondo gli atti processuali, l'Arnolfini, roso dalla gelosia e dal timore che il Buonvisi avesse scoperto il legame con la M., decise di liberarsi del rivale facendolo uccidere da un sicario. Nella notte del 1( giugno 1593, il Buonvisi, al ritorno da una funzione religiosa insieme con la moglie, fu assassinato in piazza dei Servi alla presenza della Malpigli. Vista l'autorevolezza della vittima e della famiglia, la mattina successiva gli Anziani, il gonfaloniere e il podestà pubblicarono un bando che ingiungeva a chiunque avesse notizia dell'accaduto di presentarsi alle autorità. Il primo a dichiarare che il mandante dell'omicidio era Massimiliano Arnolfini fu Lorenzo di Giovanni Buonvisi, parente stretto dell'ucciso e una delle maggiori autorità cittadine.
Abbandonato il suo primo rifugio, villa Arnolfini (oggi Contz) a S. Pancrazio dove l'amico Ludovico Buonvisi era andato a trovarlo, l'Arnolfini riuscì a sfuggire agli esecutori e a valicare, insieme con tre compagni, il confine lucchese dalla parte della Garfagnana. Frattanto alcuni esponenti dell'aristocrazia e del governo locale erano corsi ad avvisare le autorità cittadine dell'incontro fra il fuggiasco e Ludovico Buonvisi. Questa serie di episodi indica chiaramente l'acuirsi, in seguito alla morte di Lelio Buonvisi, delle tensioni già presenti all'interno dell'aristocrazia lucchese, unita solo di fronte ai pericoli esterni (rappresentati dai diversi tentativi di introdurre anche a Lucca un tribunale dell'Inquisizione e da quelli del granduca di Toscana di impossessarsi della Repubblica), e come le vicende che coinvolsero la M., nonché l'accusa che ella fosse la vera ispiratrice dell'assassinio del marito, debbano rientrare in questo clima di tensione.
Ludovico Buonvisi, ammettendo di avere incontrato Arnolfini, evitò il carcere al contrario dei tre presunti complici di quest'ultimo: Orazio Carli, Vincenzo del Zoppo e sua moglie Pollonia, rei di avere accolto i giovani amanti nella loro casa. Torturati ripetutamente, cominciarono ad ammettere le loro colpe e presto emersero, oltre a quelle dell'Arnolfini, anche le responsabilità della M., che molti ritenevano informata dei propositi omicidi dell'amante. A sottrarre la M. agli sguardi ossessivi e al carcere intervenne il fratello Giovan Lorenzo, che l'aiutò a rifugiarsi nel convento cittadino di S. Chiara dove, la mattina del 5 giugno 1593, prese l'abito di S. Francesco con il nome di suor Umilia. Inquisiti e torturati di nuovo, quando ormai non avevano più alcunché da aggiungere alle loro dichiarazioni, Carli e i due mezzani furono decapitati nelle carceri del Sasso. Con queste esecuzioni esemplari si chiuse l'atto investigativo e si aprì la questione di come indurre le autorità religiose a consegnare la M. al braccio secolare.
Nonostante alcune ambascerie, affidate a un personaggio di mediocre influenza - il cancelliere Vincenzo Petrucci - per non turbare il difficile equilibrio politico cittadino, Clemente VIII si mostrò molto riluttante ad autorizzare la consegna della M. alle autorità della Repubblica, né valsero i cinquanta giorni trascorsi a Roma dal paziente emissario in attesa di brevi e non sempre cordiali incontri, a fargli mutare opinione. A rendere ancora più agitate le acque si aggiunse il sospetto che, dietro la vicenda di sangue e alle conseguenti discordie insorte fra i cittadini, si nascondesse una ben architettata cospirazione ordita dall'esule Orazio Lucchesini - che viveva a Firenze con la moglie, la poetessa Laura Guidiccioni - con la complicità di Bernardino Antelminelli, di Curzio Carincioni e del vescovo di Lucca Alessandro Guidiccioni il vecchio (rifugiatosi a Roma dal 1566 per gravi contrasti con la Repubblica), per consegnare la Repubblica nelle mani del granduca Ferdinando I. Queste voci, non del tutto infondate, confermano come la Repubblica, senza sottovalutare la minaccia fiorentina, cercasse anche attraverso l'emozione suscitata dall'uccisione di Buonvisi di chiudere finalmente la partita con alcuni dei suoi più irrequieti e pericolosi cittadini.
Arnolfini, sulla cui testa l'11 giugno 1593 le autorità avevano imposto una taglia di 500 scudi, insieme con pochi bravi aveva trovato rifugio in Val di Magra, e sembrava avere perso la ragione. Così almeno sosteneva la madre, la saggia e anche astuta Caterina Arnolfini, per tentare di sottrarlo al boia, qualora fosse stato catturato. Tuttavia, solo dopo un esilio durato circa ventidue anni, Arnolfini fu scoperto e arrestato mentre vagava per la campagna lucchese e poi murato vivo nella torre di Viareggio, dove morì presumibilmente nel 1629.
Aiutata e sostenuta dal fratello Giovan Lorenzo, che le corrispose una ricca dote (in due atti dell'aprile 1594), mentre il padre era sempre rimasto estraneo alle sorti della figlia, la M. sembrò avere accettato con rassegnazione la vita religiosa. Dodici anni dopo circa, fu però coinvolta nello scandalo seguito alla scoperta di alcune tresche amorose nelle quali erano coinvolte le suore del convento di S. Chiara, grazie anche alla compiacenza e all'appoggio di Giovan Battista Dati (uno degli esponenti più autorevoli del governo cittadino) e del pittore Francesco Passeri da Pariana, forse il vero responsabile di quanto accaduto all'interno delle mura claustrali.
Fu proprio contro Passeri che, una volta reso pubblico lo scandalo e cominciato il processo a carico delle religiose nel 1607, Tommaso Sanminiati, l'amante della M., ancora bellissima nonostante i 35 anni di età, scatenò tutto il suo odio, giungendo addirittura a tramare con la M. il modo di ucciderlo con il veleno. Stessa sorte sarebbe dovuta toccare anche a suor Celidonia Burlamacchi, pericolosa testimone dei loro incontri. A testimonianza di questo scellerato proposito restano alcune lettere scambiate tra la M. e l'amante, dalle quali emerge non solo lo spirito sempre inquieto della donna, ma anche l'essenza di un amore tragico che porta Sanminiati a ritenersi oggetto di un fatale incantesimo e, di conseguenza, a pensare alla M. come a una strega. Ci sono tutti gli elementi classici di quel clima di morbosità e trepidazioni che agitarono i chiostri della prima metà del '600 e che a Lucca trovarono il loro epilogo negli avvenimenti accaduti nelle stanze segrete del convento dell'Angelo circa tre decenni dopo, con al centro, sempre, giovani appartenenti alle grandi famiglie cittadine.
Proprio perché nobili e protette dalle famiglie e dal vescovo Bartolomeo Guidiccioni il giovane, allora in aperto contrasto con la Repubblica, le sei monache del convento di S. Chiara non furono consegnate al braccio secolare, bensì punite dalle autorità religiose con pene abbastanza miti dopo un processo lungo ed estenuante, che si concluse nel 1609. La pena maggiore toccò necessariamente alla M., che nel corso dell'istruttoria non aveva mai dato segni di pentimento. Fu condannata, infatti, a essere murata viva nella cella più misera del convento. Ma non fu tanto la punizione quanto la morte del fratello amatissimo a toglierle per sempre la voglia di vivere anche quando, molti anni dopo, le condizioni di reclusione vennero in parte mitigate.
L'ultima notizia della M. - aveva allora 46 anni - è legata al testamento della madre Luisa Buonvisi (17 sett. 1618), che la ricordava fra i suoi eredi.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Lucca, Cause delegate, f. 6, cc. 625-660 (interrogatori dei sospetti e dei testimoni della morte di L. Buonvisi); Consiglio generale, Riformagioni pubbliche, f. 77, cc. 221-222; Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, f. 2829: Avvisi segreti delle cose di Lucca; S. Bongi, Storia di L. Buonvisi lucchese raccontata sui documenti, Lucca 1864; T. Strocchi, L. Buonvisi. Racconto storico lucchese del secolo XVI, s.l. 1882; E. Bertini, Le grandi famiglie dei mercanti lucchesi, prefazione di N. Carranza, Lucca 1976, pp. 83-96; L. Fortunato De Lisle, L. and her Massimiliano. A Renaissance woman's story (Salvatore Bongi's Storia di L. Buonvisi revisited), in New England Journal of history, LII (1995), 1, pp. 63-74.