DEGLI OTTONI, Luciano
Nacque a Goito (prov. di Mantova) da Agnese, di casato ignoto, e Gian Francesco, in una data non precisabile, ma sicuramente anteriore all'anno 1490, se egli poté fare la sua professione religiosa il 5 sett. 1507 a San Benedetto Po, nel monastero della Congregazione riformata benedettino-cassinese, che prevedeva per i professi un'età non inferiore ai diciassette anni. Due suoi fratelli, Modesto e Pietro, furono anch'essi monaci a San Benedetto Po.
La ricostruzione della biografia del D. presenta non poche difficoltà, legate sia alla dispersione o distruzione degli archivi benedettini sia alla presenza di vari monaci con il nome di Luciano, spesso indicati nel documenti senza il luogo di provenienza.
La presenza del D. nel monastero mantovano è tuttavia documentata, salvo una interruzione tra il 1515 e il 1519, fino al 1523. In quegli anni soggiornavano a San Benedetto Po - che era uno dei centri culturali più vivaci e più cosmopoliti della Congregazione - alcune figure destinate a svolgere un ruolo di primo piano nella vita letteraria e religiosa del Cinquecento: il provenzale Dionisio Faucher, Giambattista e Teofilo Folengo, Gregorio Cortese, Benedetto Fontanini, futuro autore del Beneficio di Cristo. Sotto la guida di Gregorio Cortese, che pronunciò i voti nel 1508 e che divenne presto maestro delle scuole, il D. compì i suoi studi, che - dopo i primi rudimenti grammaticali e le esercitazioni nel canto piano - comprendevano la logica, il diritto canonico e la teologia. Fin dal periodo della sua formazione si può ipotizzare che il D. fosse indirizzato dal Cortese verso gli studi biblici e patristici, piuttosto che verso la teologia scolastica.
Il 12 giugno 1525 il D. venne scelto da I. Squarcialupi come notaio per le sue operazioni di "reformator". Dopo quella data le sue tracce si perdono e la ricostruzione della sua carriera monastica non può procedere che per congetture. Se il Lucianus monacus cui è indirizzata a Roma una lettera di Gregorio Cortese è il D., si può ipotizzare un suo soggiorno nel monastero di S. Paolo. Le chiare allusioni del Cortese alle proprie responsabilità nei confronti del monastero romano consentono di fare risalire la lettera ad un periodo immediatamente successivo al 14 ottobre 1528, data in cui il Cortese, allora abate di S. Pietro di Perugia, era stato nominato amministratore di S. Paolo a seguito della destituzione dell'abate don Giacomo da Milano.
È probabile che si possa fare risalire agli anni intorno al 1535, che videro la Lombardia a seguito della morte di Francesco II Sforza teatro delle lotte franco-imperiali, un suo soggiorno nello Stato di Milano al governo di più di un monastero. Nella dedica (scritta a Milano) dei Divi Ioannis Chrysostomi in apostoli Pauli epistolam ad Romanos commentaria al cremonese Giovanni Battista Speciano, capitano di Giustizia, egli, alludendo a quei "periculosissimis bellorum temporibus", rievoca la loro consuetudine presso il Ticino, i favori da lui ricevuti in relazione al governo "coenobiorum mihi creditorum", nonché la fiducia accordatagli dall'ormai defunto Francesco II Sforza.
È probabile che il D. si trovasse a Brescia, nel monastero di S. Faustino, quando apparvero in quella città presso lo stampatore Ludovico Britannico nel 1538 i Divi Ioannis Chrysostomi in apostoli Pauli epistolam ad Romanos commentaria. Luciano Mantuano divi Benedicti monacho interprete et in eos qui eundem Chrysostomum divinam extenuasse gratiam arbitriique libertatem supra modum extulisse suspicantur et accusant, defensore.
L'opera era preceduta da una prefazione elogiativa dell'amico e confratello Giambattista Folengo e da un breve componimento latino di Teofilo Folengo. I rapporti del D. con i due Folengo sono del resto testimoniati anche dai Pomiliones di Giambattista Folengo, pubblicati nel 1533 insieme ai Varium poema et Ianus del fratello Teofilo, in cui tra gli interlocutori figura accanto ad Isidoro Chiari e a Benedetto Fontanini anche il Degli Ottoni. Traduzione latina delle 32 omelie del Crisostomo sull'Epistola ai Romani di s. Paolo, condotta sul testo greco pubblicato a Verona nel 1529nell'ambito della politica editoriale volta al recupero, dei testi patristici promossa dal Giberti e su un altro esemplare manoscritto inviatogli dallo stesso Giberti, i Commentaria, come indicato fin nel titolo e come emerge dalle annotazioni, sono una aspra polemica contro luterani e scolastici. Aderendo fedelmente a s. Paolo e all'interpretazione che Crisostomo aveva dato della epistola ai Romani, il D. riteneva che in conseguenza del peccato di Adamo l'uomo non ha ereditato la colpa del primo uomo, bensì l'alienazione da Dio. Incapace di redimersi con le proprie opere, egli è riconciliato con Dio attraverso il dono immeritato del sacrificio della croce. Mediante la fede in questo atto gratuito divino, in questo beneficium, l'uomo potrà riacquistare la sua originaria perfezione. Ma la fede nella grazia è per il D. ad un tempo dono di Dio e consapevole adesione da parte dell'uomo, poiché egli è libero di accettarla o di rifiutarla. Una volta accettata la fede, grazia ed opere, necessaria conseguenza di una fede viva, cooperano al processo di salvazione. A tutti gli uomini è dato di riconciliarsi con Dio mediante la fede in Cristo crocefisso, poiché la provvidenza divina è stata elargita a tutta l'umanità senza eccezioni. La dottrina della predestinazione non poteva essere negata in maniera più netta.
Queste posizioni teologiche del D., affiancate di recente a quelle formulate in vari scritti da monaci benedettini cassinesi suoi contemporanei, sono apparse espressione di una pietà specificamente benedettina, fondata, secondo alcuni, su una robusta tradizione "melagiana"; sulla vasta presenza nella formazione dei monaci della Congregazione degli scritti dei Padri della chiesa di Antiochia, secondo altri.
Non è certo se il Luciano da Mantova che figura come priore a San benedetto Po in due atti notarili rogati il 6 apr. 1538 e il 2 maggio 1539 sia il Degli Ottoni.
Nel capitolo generale del 1543 il D. fu destinato abate di S. Maria di Pomposa, ma poiché a causa della malaria l'abbazia era stata abbandonata, risiedette a S. Benedetto di Ferrara, dove dovette stabilire i primi contatti con Giorgio Siculo.
A seguito della convocazione del concilio a Trento, il capitolo generale della Congregazione, riunitosi nel giugno del 1545 a San Benedetto Po, elesse come rappresentanti di tutta la Congregazione il D., Isidoro Chiari e Crisostomo Calvini. Giunti a Trento il 18 giugno 1545, i tre abati dovettero assentarsi poco dopo.
Nel novembre il D. si recò a Cremona per la morte dell'amico Giovanni Battista Speciani (27 ott. 1545) ed assistette all'orazione funebre, pronunciata da Paolo Tartesio, insieme al cremonese Bernardo Feliciano, che nei Dialoghi della morale philosophia Antonio Brucioli aveva annoverato tra i frequentatori dei giardini del monastero benedettino veneziano di S. Giorgio Maggiore accanto al Cortese, a Reginald Pole e a Donato Rullo.
Tornarono a Trento immediatamente dopo l'apertura ufficiale del concilio (13 dicembre). La lunga controversia che la loro presenza suscitò riguardo ai loro poteri fu risolta dai padri conciliari ammettendoli tutti come rappresentanti della Congregazione, ma riconoscendo ad uno solo di loro il diritto di voto decisivo. Prim'ancora dell'apertura del concilio, nel luglio 1545, Marcello Cervini, il futuro papa Marcello II, ebbe tra le mani il manoscritto di un dialogo del D. sul libero arbitrio (andato smarrito), in cui A. Massarelli, segretario del concilio, individuò alcune tesi ereticali e che giudicò "ineptissimus".
Nel settembre il Cervini scrisse in proposito una lettera (anch'essa non pervenuta) al presidente della Congregazione. Di nuovo nel gennaio del 1546 le posizioni dottrinali del D. suscitarono perplessità. Fra' Domingo de Soto, domenicano spagnolo, cui era stato affidato il compito di esaminare libri eretici e sospetti, isolò nel Commentario a Crisostomo tre errori relativi all'interpretazione spirituale delle fiamme dell'inferno, alla tesi che gli infanti morti senza battesimo non subiscono pene e che causa della predestinazione alla salvezza sono le nostre opere, non la volontà divina. Chiamato a difendersi da tali accuse, il D. avrebbe ritrattato. È probabile, inoltre, che egli fosse tra gli abati che all'inizio del 1546 aveva chiesto al card. Cristoforo Madruzzo di invitare al concilio F. Melantone e che il cardinale accusò di propensioni "luterane".
Se è difficile desumere dagli atti del concilio la paternità dei singoli, interventi, che, comunque, dovevano rappresentare una posizione comune ai tre abati, emerge, tuttavia, una linea coerente seguita dai benedettini che impostarono i loro interventi sui problemi teologici dibattuti facendo costantemente appello ai testi scritturali e patristici. La posizione assunta dagli abati nelle discussioni relative al canone della Sacra Scrittura non riveste particolare interesse, mentre nel dibattito sulla Scrittura e la tradizione essi si schierarono al fianco della minoranza esprimendo una categorica opposizione alla parificazione di scrittura e tradizione. Circa il posto degli studi biblici nell'insegnamento teologico i benedettini si batterono perche avessero una posizione preferenziale "reiectis cavillosis scholasticorum cavillationibus", suscitando l'aspro attacco di Domingo de Soto, il quale dichiarò che gli Ordini monastici in osservanza della loro regola non dovevano occuparsi di studi. Mentre gli abati si pronunciarono solo su punti minori relativi al decreto sul peccato originale, nelle discussioni che seguirono sulla scottante dottrina della giustificazione svolsero una parte molto attiva, anche se destinata a non influenzare la definitiva formulazione del decreto. Il D. prese la parola il 7 ottobre ed il 23 novembre e, al di là dei numerosi rilievi di natura stilistica e lessicale, i suoi interventi investirono il concetto stesso di fede e lo esposero a una severa condanna. Egli sostenne la tesi secondo cui la perdita della giustizia doveva avere come conseguenza la perdita della fede perché fede e peccato sono incompatibili fra loro. Sulla questione della certezza dello stato di grazia, il D., dopo aver fatto una distinzione fra fede e scienza ed avere concluso che "certum est enim fidem stare non posse cum certitudine scientiae. Quare nec scientia cum certitudine fidei", escludeva che si potesse parlare di certezza di fede, ma riteneva che il giusto fosse obbligato a credere che avrebbe ottenuto la vita eterna.
Non escludeva tuttavia che mediante una speciale rivelazione il cristiano potesse avere la certezza di essere salvato e che "quosdam ita perfectos fuisse ac etiam esse fortassis, quod se sentiant esse iustificatos et in gratia Dei, ob affluentiam et dulcedinem spiritus et aquam vivam". Con maggiore audacia tornò a sostenere queste tesi nella congregazione del 23 novembre, in cui fu "ab omnibus patribus uno ore acclamantibus... reprobatum". L'indomani, dinanzi ai padri conciliari, fu costretto a ritrattare, ma quel giorno stesso comunicava il contenuto del suo "voto" a Giorgio Siculo, chiedendogli di pronunciarsi sulla controversa dottrina della giustificazione. L'8 dicembre il Siculo inviava a Trento il Trattato di iustificatione, dedicato al card. Madruzzo e a questo consegnato dal D., che lo tradusse in latino e ne condivise le tesi. A seguito della promulgazione del decreto sulla giustificazione, cui diede il suo placet, ilD. espresse in una lettera a Ercole II d'Este la sua sfiducia nei risultati dei dibattiti conciliari, in cui vedeva prevalere l'elemento scolastico, giudicando il decreto "fatto tutto nel modo che hanno voluto i dottori scolastici" (14 genn. 1547, in Evennett, p. 371). Simile delusione egli manifestò anche in relazione ai canoni dei sacramenti: se nel suo intervento del 18 febbraio non sollevò serie obiezioni, in una lettera ad Ercole II disapprovò che ci si fosse attenuti rigorosamente ai canoni del concilio di Firenze senza prendere neppure in esame le opinioni e le tesi degli avversari (4 marzo 1547, ibid.). Sulla questione della residenza episcopale sollevata nel giugno del 1547, i benedettini insistettero che dovesse essere imposta anche agli abati. Scrivendo a Ercole II il D. si diceva inoltre favorevole alla proclamazione dello ius divinum della residenza, ma scettico circa l'attuazione dei decreti di riforma. Quando, nel marzo del 1547, sorse il problema della traslazione del concilio a Bologna, gli abati non si opposero. Il D. partecipò ai lavori del concilio a Bologna dall'ottobre del 1547 al febbraio del 1548, intervenendo sui sacramenti e sul matrimonio clandestino cui non riconosceva alcuna validità.
Al periodo del concilio risale uno scambio epistolare con il cardinale Iacopo Sadoleto purtroppo andato perduto. Il cardinale, che aveva incontrato il D. a Ferrara nella primavera del 1545 e ne aveva apprezzato l'"excellens ingenium singularemque doctrinam", scrivendo al Chiari il 20 genn. 1546 per sottoporgli il De peccato originis, lo pregava di far leggere il suo scritto anche al D., di cui diceva di condividere le tesi sul problema della predestinazione.
Nel capitolo generale della primavera del 1549 il D., su pressioni del cardinale Ercole Gonzaga, fu deputato abate di San Benedetto Po. Il suo soggiorno nel monastero mantovano durò appena un anno. Accusato di aver lasciato circolare "libri" non meglio precisati e di aver tollerato disordini "come è di mangiar carne senza licentia e altre cose peggiori", l'abate fu deposto e relegato momentaneamente nel monastero di Praglia da dove, il 15 maggio 1550, si rivolse al Gonzaga chiedendone la protezione. Tre giorni dopo i monaci di San Benedetto scrissero al cardinale, che aveva percepito l'allontanamento del D. come un affronto personale, cercando di convincerlo a prendere le distanze dal deposto abate per i "moltissimi capi che li sono opposti". Alla fine di giugno il Gonzaga chiese ed ottenne l'intervento del Pole, protettore della Congregazione per uscire con "honore et riputation" dalla spiacevole vicenda.
Il D. venne designato abate di S. Maria in Monte di Cesena, ma le deposizioni di fronte all'inquisitore di Ferrara dell'eretico visionario benedettino Giorgio Siculo, fatto imprigionare nel settembre 1550, lo misero in gravi difficoltà. Dapprima invitò Ercole II ad agire con prudenza, ritenendo che le speranze di una profonda rigenerazione della Cristianità per mezzo del concilio proposte dal benedettino in termini di acceso profetismo spiritualistico meritassero di essere prese in seria considerazione. Le sue esortazioni furono vane e la sua posizione si aggravò con l'incarcerazione di Benedetto Fontanini trovato in possesso di un "libro" di Giorgio Siculo, identificato con ogni ragionevole probabilità con il "libro maggiore", l'opera con cui intendeva comunicare ai padri conciliari la sostanza delle rivelazioni avute da Cristo che gli era apparso "in propria persona". Con due lettere del 6 e dell'8 dicembre (pubbl. in Ginzburg-Prosperi, pp. 202 ss.) il D., timoroso delle ripercussioni dell'arresto e delle rivelazioni dei confratelli tornava a rivolgersi al Gonzaga, ai cui favori attribuiva l'origine della sua disgrazia, chiedendogli che il suo caso fosse esaminato dal Gonzaga stesso e dal Pole e non dai suoi confratelli giudicati "cani arrabiati". Il cardinale, avvedutosi della gravità della faccenda, non fidandosi dell'imparzialità di Girolamo Scroguerro da Piacenza, abate di S. Faustino di Brescia (monastero in cui il Siculo trovò molti seguaci), cui era stato evidentemente affidato il compito di istruire il processo contro il Fontanini e il D., si rivolse all'inquisitore di Ferrara il quale, impegnato nei processi ai complici, non poté recarsi a Mantova, ma mandò il suo vicario con le deposizioni contro il Degli Ottoni. Esaminatele con l'inquisitore di Mantova e con il proprio suffraganeo, il Gonzaga dovette convincersi della colpevolezza del Degli Ottoni.
Il 3 genn. 1551 il Gonzaga scrisse al monaco "voi siete inditiato talmente che di ragione ponno li padri vostri procedervi contra et punirvi secondo le leggi canoniche et della vostra congregatione" e lo avvertiva che, non avendo "mai dato favore ad heretici o sospetti d'heresia", non poteva fare altro che lasciare il processo nelle mani di Girolamo da Piacenza e degli altri padri e raccomandare loro "equità, giustitia et carità". Non senza amarezza concludeva, associando il D. all'autore del Beneficio di Cristo: "Ame duole infinitamente che voi non siate stato tale et il Fontanino ch'io habbia potuto pigliare la protetion vostra per essere mantovani, ma poi ch'el mancamento vien da voi et non da poca amorevolezza mia verso la patria overo da persecutioni fratesche, ma da sincero processo formato da chi ha autorita contra di voi, m'haverete per iscusato, se non m'ho voluto impacciar ne fatti vostri" (Archivio di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga, E.LXI.2, b. 1921, f. 276rv). Nonostante questa durissima condanna, il Gonzaga non mancava di porgere al D. un aiuto estremo, inviandogli i verbali degli inquisitori con le deposizioni dei testimoni a suo carico. Anticipandogli in tal modo gli elementi sulla base dei quali i benedettini avevano formalizzato o stavano formalizzando le accuse a suo carico e rivelandogli i nomi di coloro che avevano deposto contro di lui, gli offriva con grande tempestività la possibilità di elaborare una linea difensiva particolarmente adeguata ed efficace.
Purtroppo le imputazioni contro il D. non ci sono note, né è possibile stabilire puntualmente fino a che punto condividesse il complesso di dottrine propagandate dal Siculo (antitrinitarismo, radicale negazione della gerarchia e dei sacramenti e in particolare del battesimo impartito secondo la tradizione ecclesiastica e della presenza reale del Cristo nell'eucarestia, dottrina del sonno delle anime dopo la morte, polemica contro la messa il culto della Vergine e dei santi, le cerimonie ecc.). Nel memoriale presentato all'Inquisizione di Venezia nel 1570 Nascimbene Nascimbeni nell'elencare i complici del Siculo ricordava "Don Luciano Mantoano abbate, in Ferrara. Ho conosciuto costui complice di Giorgio, perché avea libri di quello, i quali translatò di volgare in latino, de iustificatione e il libro grande. Approbò la visione di quello per buona, magnificava la dottrina e la persuase anche a me, parlando seco alcune volte in vita di Giorgio" (C. Ginzburg, Due note sul profetismo, cinquecentesco, in Rivista storica ital., LXXVIII [1966], p. 205). Questa testimonianza, resa vent'anni dopo, trova conferma nelle lettere dello stesso D. al cardinale Gonzaga e ad Ercole II d'Este.
Sebbene nell'aprile del 1551, timoroso di rimanere coinvolto in una vicenda di tale gravità, Ercole Gonzaga esortasse Ercole II a collaborare con gli inquisitori contro i seguaci di "quel ribaldo" del Siculo, la sua autorevole protezione dovette certamente risparmiare al Fontanini e al D. la sorte che toccò al loro confratello siciliano, impiccato a Ferrara il 23 maggio 1551. Il 22 genn. 1551 il capitolo straordinario della Congregazione riunitosi a San Benedetto Po sanciva la rinuncia del D. all'abbaziato di Cesena "propter infirmitatem et alia impedimenta", formula elegante con la quale veniva mascherata la sua deposizione, in attesa dello svolgimento del processo difensivo. Nel dicembre del 1551 "ex causa maioris infermitatis" veniva destinato al monastero di S. Maria di Valverde, poco distante da San Benedetto Polirone, che ospitava solitamente i monaci polironiani malati.
Nel gennaio del 1552 a conclusione del processo, "absolutus ab omni gradu superioritatis" il D. venne trasferito a S. Croce di Campese, che era un piccolo monastero dipendente da San Benedetto Po presso Bassano del Grappa, dove, raggiunto poco dopo dal Fontanini appena scarcerato, morì verso la fine di quell'anno come ricorda il necrologio.
Le sue vicissitudini non cessarono dopo la morte: i suoi Divi Ioannis Chrysostomi in apostoli Pauli epistolam ad Romanos commentaria, messi all'Indice da Paolo IV nel 1559, furono condannati anche dai successivi Indici di Pio IV (1564), del card. Quiroga (1588) e di Sisto V (1590); Domingo de Soto, che lo aveva attaccato al concilio, nei suoi In epistolam divi Pauli ad Romanos Commentarii (Antuerpiae 1550) lo accusò di pelagianesimo e Sisto da Siena nella Bibliotheca Sancta (Venetiis 1566) lo definì "scholasticae theologiae prorsus expers et ob id scholastici nominis perpetuus hostis" e "ineptus et miserabilis homuncio", giudizio condiviso da Antonio Possevino nell'Apparatus Sacer.
Fonti e Bibl.: Alle fonti ed alla bibl. indicate in H. O. Evennett, Three benedictine abbots at the Council of Trent, 1545-1547, in Studia Monastica, I (1959), pp. 343-77, e in C. Faralli, Per una biografia di L. D., in Boll. d. Soc. di studi valdesi, CXXXIV(1973), pp. 34-51, occorre aggiungere: Archivio di Stato di Mantova, Estensioni notarili, P. F. Borgoforte, n. 417, ad annum; il nobile bresciano Flavio Alessio Ugonio nel De maximis Italiae atque Graeciae calamitatibus, In Academia Veneta [Venezia] 1559, pubblica a cc. 54r-58v, una sua lettera indirizzata Reverendis Abbatibus Sancti Benedicti in concilio Tridentino congregatis, ex Italia milites Christi; F. Arisi, Cremona literata, Parmae 1706, pp. 140-53. Cfr., inoltre, Benedetto da Mantova, Il Beneficio di Cristo, a cura di S. Caponetto, Firenze-Chicago 1972, pp. 445 s., 462, 492 ss.; C. Ginzburg-A. Prosperi, Le due redaz. del "Beneficio di Cristo", in Eresia e Riforma nell'Italia del Cinquecento, I, Firenze-Chicago 1974, pp. 164 ss., 193-204. La corrispondenza pubblicata in quest'ultimo lavoro da Ginzburg e Prosperi relativa alle vicende del D. nel 1550-51 va completata con la lettera scritta di propria mano dal card. Ercole Gonzaga al D. abate di Cesena, da Mantova 3 genn. 1551, di cui rimane copia in Arch. di Stato di Mantova, Arch. Gonzaga E.LIX.r, b. 1921, f. 276rv; G. Miccoli, La storia religiosa, in Storia d'Italia, II, 1, Torino 1974, pp. 1054-59; C. Faralli, Una polemica all'epoca del Concilio di Trento: il teologo e giurista Domingo de Soto censura un'opera del benedettino L. D., in Studi senesi, LXXXVII (1975), pp. 400-19; G. Spinelli, Serie cronologica degli abati cassinesi di S. Eufemia di Brescia, in Benedictina, XXVI (1979), pp. 39 s.; A. Prosperi, Un gruppo ereticale italo-spagnolo: la setta di Giorgio Siculo (secondo nuovi documenti), in Critica storica, XIX (1982), pp. 335-51; B. Collett, A Benedictine Scholar and Greek Patristic Thought in pre-Tridentine Italy: a Monastic Commentary of 1538 on Chrysostom, in Journal of Ecclesiastical History, XXXVI (1985), pp. 66-81; Id., Italian Benedictine Scholars and the Reformation. The Congregation of S. Giustina of Padua, Oxford 1985, pp. 119-137, 186-245; A. Prosperi, Opere inedite o sconosciute di Giorgio Siculo, in La Bibliofilia, LXXXVII (1985), pp. 137-157.