VACCARO, Lorenzo
– Nacque a Napoli, da Domenico e da Candida Morvillo. Primaria fonte biografica, Bernardo de Dominici (1742-1745 circa, 2008, p. 888) lo dice nato il 10 agosto 1655; tuttavia Lorenzo nel ‘processetto’ prematrimoniale, del 27 luglio 1677, relativo all’unione con Caterina Bottigliero (e in cui figura come testimone il collega argentiere Domenico Marinelli), dichiarava di avere ventiquattro anni (Archivio storico diocesano di Napoli, Fondo processetti prematrimoniali; Borrelli, 1970, p. 241): il che porterebbe a retrodatare la nascita al 1653.
De Dominici dice Domenico avvocato erudito, scomparso nella peste del 1656, e cita come avo Pietro, amministratore nella Regia Camera della Sommaria. Ma secondo Onofrio Giannone (1771-1773 circa, 1941, p. 170), peraltro detrattore del più noto biografo, tali indicazioni sarebbero inverosimili, cioè dovute a un tentativo di nobilitare la prosapia dell’artista. Lorenzo fu allevato dalla sola madre, che voleva indirizzarlo agli studi di legge, ed ebbe da Caterina quattro figli maschi e una femmina.
Scultore, modellatore, argentiere, decoratore, Lorenzo fu completo nelle arti plastiche (non praticò l’intaglio ligneo, sebbene collaborò pure con scultori in tale materia), e operò per Napoli, fatte salve le destinazioni estere, e prestigiose, di alcune sue creazioni. Un contemporaneo autorevole quale Carlo Celano (1692, I, p. 100) lo riferisce allievo di Cosimo Fanzago, che morì nel 1678. Più tardi De Dominici (1742-1745, 2008) conferma tale apprendistato e dice Lorenzo pure architetto, con competenze in meccanica e geometria, nonché pittore. Invero di quest’ultima attività, forse esercitata per diletto, si sa pochissimo, e nessun quadro certo di lui è noto. Inoltre il ruolo di Fanzago come maestro di Lorenzo è stato messo in dubbio dalla critica, a favore di un altro scultore, Andrea Falcone (Borrelli, 2012, pp. 141 s.).
La qualifica di architetto, altresì, è da intendersi entro i limiti della funzione decorativa o di complemento, che spaziava, con varietà di materiali e tecniche, dalla realizzazione di arredi al rivestimento di cappelle all’allestimento di apparati effimeri. Di contro non sono mai emerse prove per Lorenzo quale responsabile, stricto sensu, dell’ideazione spazio-volumetrica o delle soluzioni tettoniche di edifici. Anzi, spesso, egli risulta partecipante a cantieri diretti da altri maestri dell’epoca, più versati in sede progettuale e ingegneristica, come Dionisio Lazzari e Giovan Domenico Vinaccia. Sembra chiaro, insomma, che il biografo punti a dare di Lorenzo un’idea di universalità di esperienze, forse per meglio introdurre la poliedricità – questa sì effettiva – del figlio Domenico Antonio (v. la voce in questo Dizionario), il quale si formò e collaborò con il padre e ne proseguì svariate opere.
Le conoscenze su Vaccaro, in ogni modo, attendono ancora un inquadramento organico, sfavorito dal fatto che una parte significativa della sua vasta attività non ci è giunta, perduta per la stessa natura dei manufatti e per varie, spesso disgraziate vicissitudini conservative. Nondimeno, oltre che le fonti storico-letterarie, la documentazione d’archivio ha ormai reso agli studi l’importanza dell’artista.
Tre, essenzialmente, i mezzi e gli sbocchi della produzione vaccariana. Ci fu la scultura in marmo, di varia forma e destinazione, compresi taluni esiti di ritrattistica funeraria. Nello stucco, poi, Vaccaro e i suoi aiutanti furono in specie assidui e provetti: lui si occupava per lo più delle parti di figura – dove «fece apparire uno stile nuovo» (De Dominici, 1742-1745, 2008, p. 895) nelle invenzioni, nei panneggi e nei nudi –, lasciando ai ‘mastri’ stuccatori la definizione ornamentale e connettiva. Assai accreditata, infine, la formazione di modelli in creta per la traduzione metallica: e Vaccaro, che ebbe rapporti proficui con orafi e argentieri, fu tra i sicuri responsabili dell’alto livello raggiunto a Napoli da quest’arte, in cui la qualità plastico-espressiva del modellatore si sposava alla perizia tecnica degli addetti alla fusione e allo sbalzo.
Altro problema cruciale riguarda il rapporto tra Vaccaro e Francesco Solimena. Su ciò si studia di argomentare soprattutto De Dominici, del quale è la ben nota tesi del parallelismo tra i due, in un’ottica di scambio alla pari: una simmetria esegetica che ha trovato credito presso la critica (per esempio Fittipaldi, 1980).
Il primo lavoro documentato risale al 1673, quando Vaccaro fu pagato per una statua della Vergine Annunziata e un puttino per la facciata del conservatorio della SS. Annunziata (D’Addosio, 1918, p. 153), opere perdute.
Nel dicembre del 1675 Vaccaro ricevé la commessa della statua marmorea del giureconsulto Francesco Rocco per la sua cappella nella Pietà dei Turchini, progettata da Lazzari. La scultura, pagata nei primi mesi dell’anno seguente (Nappi, 1993), appartiene al tipo funerario, in voga nel Seicento napoletano, della figura intera, ginocchioni e in atto devoto (immediato precedente è la statua di Giulio Mastrilli, scolpita da Falcone, in S. Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco: Speranza, 2005). Ma pure al di là di queste ingerenze della committenza, il giovane scultore si dimostrava statuario dotato e insieme abile ritrattista, nel vigore delle masse e nella fisiognomica pungente dell’effigiato.
Il 25 novembre 1677 Vaccaro promise di scolpire le statue marmoree di S. Marcellino e di S. Festo, per la cona all’altare maggiore della chiesa dell’omonimo monastero benedettino napoletano (Catello, 1990, pp. 73, 76 s.). I due marmi, solidi nell’impianto e nei panneggi, rivelano l’inclinazione a una forma compatta.
Il 1679 è l’anno del primo incarico documentato a fianco di un argentiere, Antonio Monaco, per un S. Filippo Neri commissionato dalla S. Casa dell’Annunziata (D’Addosio, 1918, p. 153).
Il 1° settembre 1679 Vaccaro s’impegnò a completare l’ornamentazione marmorea della guglia innalzata nel largo di S. Domenico Maggiore, non finita da Fanzago (Catello, 2006): impegno che lo stesso Lorenzo non avrebbe portato a conclusione, essendo il monumento completato solo nell’inoltrato Settecento. Forse lo scultore rifinì le Sirene alla base della guglia, già sbozzate nella bottega di Fanzago.
Riguardo alla più rara produzione profana si segnala la lavorazione (o forse solo l’ultimazione), nel 1680, per un privato, di un gruppo con una figura femminile sopra un delfino, alle cui spalle si sarebbe dovuto aggiungere un altro animale marino: marmo con ogni probabilità destinato a una fontana, e mai reperito (Rizzo, 1984, pp. 399, 402).
Sul fronte della ritrattistica funeraria, dopo il Rocco, Lorenzo diede un’altra prova nel medaglione marmoreo con il busto in rilievo del reggente Giacomo Capece Galeota nel duomo di Napoli, per il quale c’è un pagamento nel 1681 (Rizzo, 2001, p. 219, doc. 31), a fronte della posa del monumento che l’epigrafe riferisce al 1677.
Nell’arte dello stucco spicca, tra l’altro, il cappellone del Crocifisso in S. Giovanni Maggiore: Vaccaro vi modellò le figure di Costantino e di Costanza ai lati e l’Eterno Padre tra gli angeli nel fastigio (Borrelli, 1967). L’esito è indicativo degli addentellati con la scultura barocca romana: sono soprattutto i due angeli inginocchiati, con il loro gestire, che sembrano ispirati a quelli dell’altare del SS. Sacramento berniniano in S. Pietro in Vaticano (Chiurazzi, 1984, pp. 230 s.).
Nel 1685, quando è documentata la stuccatura di Giuseppe Troise (Amirante, 1976, p. 184), Vaccaro plasmò i putti e le figure a mo’ di cariatidi – sugli esempi di Alessandro Algardi a Roma – nelle cappelle dell’Immacolata Concezione e di S. Chiara al Gesù delle Monache. Dovette seguire a ruota, nel 1686, il ciclo di figure sempre a stucco – profeti e sibille, e angeli – nelle lunette degli archi e nelle volte delle cappelle all’Annunziata (Catello, 1990), perduto nell’incendio del 1757 che distrusse la chiesa.
Verso la metà del nono decennio del secolo potrebbero datarsi le due rare statuette in terracotta con Ercole e l’Idra di Lerna ed Ercole e il leone di Nemea, conservate nel Museo civico Gaetano Filangieri di Napoli, attribuite a Vaccaro (Borrelli, 1970, p. 243) e di recente accostate ipoteticamente alla committenza di Gaspar Méndez de Haro y Guzmán marchese del Carpio, viceré di Napoli (1683-87) e celebre collezionista (D’Agostino, 2015).
Nel 1687 Vaccaro prese parte alla realizzazione della cona marmorea nella confraternita di S. Maria della Misericordia (detta dei Morticelli) a Foggia (D’Addosio, 1918, p. 153; Pasculli Ferrara, 1983, pp. 23-27). Tra il 1689 e il 1690 iniziò a essere pagato per lavori al cappellone dell’Immacolata Concezione nella chiesa gesuitica di S. Francesco Saverio (poi S. Ferdinando) a Napoli (pp. 328 s., docc. 263-264): vi portò quasi a compimento una statua di David, di cui è noto il bozzetto in terracotta (Ciechanowiecki, 1979; il complesso fu terminato più tardi dal figlio Domenico Antonio).
Tra il penultimo e l’ultimo decennio del Seicento pare registrarsi un aumento d’impegni e risultati nell’elaborazione per argenti, la cui fortuna varcò i confini del regno.
Del 1689 sono i modelli delle tre scene, eseguite in argento da Matteo Treglia e intrise di sensibilità pittorica, per il paliotto d’altare nella cappella di S. Maria delle Grazie in S. Maria la Nova a Napoli (Rizzo, 1983), forse in sostituzione di un precedente antependium (Catello, 1982, pp. 9-11).
De Dominici riferisce che Vaccaro progettò una cappella (ossia una custodia d’altare) in rame dorato, con colonne, pilastri, bassorilievi e statue, alla quale lavorò l’argentiere Antonio Perrella, e che fu inviata a Madrid a Carlo II d’Asburgo (Catello, 1997, p. 82), non prima di essere stata esposta nel Palazzo Reale di Napoli (Catello, 1982, pp. 8 s.).
Altra invenzione straordinaria di Vaccaro fu quella della grande lampada d’argento destinata al Santo Sepolcro di Gerusalemme, eseguita stavolta da Paolo Perrella (Catello, 1997, p. 82). Quest’opera, di cui pure si son perse le tracce, e che doveva essere eccezionale per dimensioni e sontuosità, recava incisa la data «MDCLXXXX» (Pacichelli, 1695, ne fa una descrizione accurata; anche nei Giornali di Antonio Bulifon, 1932, si menziona la lampada quando era in mostra a Napoli prima di giungere in Terra Santa).
È noto, altresì, l’apprezzamento della committenza aristocratica spagnola verso i plateros napoletani. Alla fine del mandato del viceré Francisco de Benavides conte di Santisteban (1688-96) risale la realizzazione delle Quattro parti del mondo, destinate anch’esse a Carlo II, e oggi nella cattedrale di Toledo, dove pervennero nel 1741 con il lascito di Maria Anna di Neuburg, seconda moglie di quel re (da ultimo: García Zapata, 2018). Individuati e assegnati a Vaccaro sulla base della descrizione di De Dominici (Santiago Paez, 1967; Catello, 1982, pp. 11-13), e probabilmente eseguiti dai Perrella (Catello, 1997, p. 82), sono quattro magnifici gruppi in argento e rame dorato, ornati di pietre preziose, e composti da statue su globi rappresentanti i continenti allora conosciuti: Europa, Asia, Africa e America, con ricche iconografie desunte dal repertorio iconologico di Cesare Ripa (González-Palacios, 1984, I, pp. 260 s., che ha evidenziato una prossimità con la pittura solimenesca). Ai piedi dell’America si è potuta decifrare la data del 1695 (e non il 1691 come si credeva), e raffronti efficaci sono stati istituiti con disegni di Philipp Schor, allora al servizio del Santisteban, e progettista di macchine effimere e argentierie (Fusconi, 2010). Dalle figure di Toledo sembrano dipendere i quattro busti marmorei dei Continenti, attribuiti a Vaccaro, nella Compton Verney House, Warwickshire (Knox, 2000).
Il 1691 è l’anno della celebre statua di S. Michele Arcangelo nel Museo del Tesoro di S. Gennaro, nata dall’esaltante concorso inventivo ed esecutivo tra Vaccaro e Vinaccia, con la consulenza di Luca Giordano (Catello, 1982, pp. 13 s.): opera incline a un gusto già quasi rococò, rispetto ai presupposti devoti di questo genere di manufatti (E. Catello - C. Catello, 2000, p. 78).
Tra il febbraio e il marzo del 1692 Vaccaro si vide sfuggire un incarico di assoluta rilevanza cui sembrava sicuro: il paliotto d’argento per l’altar maggiore della Cappella del Tesoro di S. Gennaro. All’ultimo momento, infatti, fu scalzato da Vinaccia, stavolta concorrente agguerrito, che fece un’offerta più bassa e si aggiudicò la commessa (Strazzullo, 1978, pp. 131, 136).
Nel 1693 Vaccaro risulta console dell’arte degli scultori e marmorari, insieme al collega di origini carraresi Bartolomeo Ghetti (Strazzullo, 1961-1962).
Nel 1694 si segnala, per l’effimero, l’apparato funebre progettato da Vaccaro per le esequie di Antonio Miroballo in S. Giovanni a Carbonara, celebrate il 27 marzo 1694. L’esito del catafalco è noto da un’incisione di Teresa del Po. Inoltre lo scultore ritrasse il personaggio in un medaglione marmoreo tuttora esistente nella cappella Miroballo in quella chiesa (Catello, 1984).
Nel 1694 Vaccaro lavorò ai putti e agli intagli marmorei per l’altare maggiore dell’Annunziata di Aversa, messo in opera da Gaetano Sacco su disegno di Vinaccia (Rizzo, 1984, pp. 402, 405). L’anno seguente contribuì al lavoro dell’altare maggiore di S. Domenico Maggiore a Napoli, rimaneggiato nell’Ottocento (Rizzo, 1983, p. 222).
Al 1695 si data il busto-reliquiario di S. Giovanni Battista (fatto patrono di Napoli in quell’anno), opera certa di Lorenzo, nel Tesoro di S. Gennaro, dove gli è stato attribuito anche quello di s. Maria Egiziaca (1699; Catello, 1982, pp. 14 s.). Nell’ottobre di quell’anno Vaccaro assunse l’incarico di realizzare un baldacchino in argento e cristallo, da lui disegnato, opera scomparsa, per il monastero benedettino di S. Maria Donnalbina (Catello, 1990; Rizzo, 2001, p. 225).
Documentato nel 1697 è il pannello marmoreo con il Martirio di s. Gennaro a bassorilievo nella chiesa del martire alla Solfatara di Pozzuoli (D’Addosio, 1918, p. 154), commesso dall’arcivescovo di Napoli il cardinale Giacomo Cantelmo. In quest’opera si sono rilevati soprattutto gli effetti pittorici nel trattamento del rilievo e nell’affastellarsi ‘antiprospettico’ della scena, non immuni da certa sensibilità ‘neomanierista’, caratteristica comune ai primi dipinti di Domenico Antonio agli sgoccioli del secolo (Chiurazzi, 1984, pp. 231 s.; Lattuada, 2005).
Le nuove potenzialità decorative di Lorenzo affidate integralmente allo stucco bianco si confermano, su scala architettonica, nella cupola di S. Agostino degli Scalzi, dove gli otto spicchi della calotta ospitano rilievi con Angeli musicanti, eseguiti dai collaboratori Bartolomeo Granucci e Nicola Mazzone (1698; Amirante, 1990, pp. 102, 110 nota 57; Rizzo, 1983, pp. 214 s.). In questa chiesa, ristrutturata da Arcangelo Guglielmelli, Vaccaro lavorò anche agli stucchi dei cappelloni del transetto.
Nel 1698 sono documentati i busti marmorei di S. Pietro e di S. Paolo per la cappella dei Bianchi della Giustizia agli Incurabili (Rizzo, 2001, p. 226, docc. 120-121) e i gruppi di puttini pure in marmo per S. Maria Donnaromita a Napoli (pp. 226 s., docc. 124, 127). Tra il 1699 e il 1700 si hanno pagamenti a Lorenzo per il nuovo altare in marmi della chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli (Rizzo, 1984, p. 405). Ancora per la statuaria in marmo, nel 1703 sono documentati il S. Girolamo e il Beato Pietro da Pisa, eretti sulle porte ai lati dell’altare maggiore di S. Maria delle Grazie a Caponapoli (Rizzo, 1983, p. 224, doc. 21). Ma ormai Vaccaro era dedito al suo cimento maggiore sul versante pubblico e monumentale.
Cinquantenne, al colmo della fama, il maestro aveva ottenuto nell’ottobre del 1702 l’incarico del modello per la statua equestre di re Filippo V di Spagna, destinata al largo del Gesù Nuovo: la ‘fedelissima’ Napoli intendeva così onorare il suo sovrano, che aveva visitato la città nella primavera di quell’anno. L’impresa fu data in carico al tribunale della Fortificazione, Acqua e Mattonata, e avrebbe dovuto essere compiuta in appena sei mesi, ma subì interruzioni e difficoltà. Lo scoprimento del monumento, solennizzato con ogni pompa, avvenne finalmente il 16 settembre 1705, e pare che lo stesso Lorenzo avesse provveduto al trasporto del colosso, escogitando inoltre una macchina atta a sollevarlo sul piedistallo marmoreo (Colombo, 1900; vari altri documenti sono in Rizzo, 1983, e 2001). Ma il Filippo V a cavallo sopravvisse per poco poiché fu fatto a pezzi dalla plebe furente, come si tramanda nelle cronache, all’entrata delle truppe austriache in città, il 7 luglio 1707.
L’aspetto dell’opera ci è restituito dai modelli in bronzo (o meglio riduzioni: due esemplari sono al Prado di Madrid, Santiago Paez, 1967; un altro è studiato da Lattuada, 2013), nonché dall’effigie della statua nel diritto delle medaglie commemorative coniate da Antonio de Gennaro nel 1704. Se ne evince l’impostazione solenne e pausata conferita da Vaccaro tanto al cavaliere quanto all’animale, in linea con un classicismo fors’anche a giorno del più attuale e influente esempio francese nel genere, il Luigi XIV di François Girardon, anch’esso distrutto; una formula distante, d’altro canto, dall’interpretazione mossa e drammatizzata in cui si era provato l’ultimo Bernini per il suo sfortunato Luigi XIV equestre.
Al 1705 è documentato il modello di Lorenzo per il S. Sebastiano in argento, di eccezionale qualità, donato dal cardinal Innico Caracciolo alla cattedrale di Aversa, dov’è custodito (Rizzo, 2001, p. 231, doc. 175; Catello - Catello, 2000, p. 95).
Alla fine del 1705 Vaccaro si accordò con i certosini di S. Martino per la realizzazione di quattro statue in marmo bianco per le cappelle di S. Giovanni Battista e di S. Bruno (Faraglia, 1892; Causa, 1973; di una di esse si conosce il bozzetto al Museo di S. Martino: Middione, 2001). Il lavoro rimase interrotto per la scomparsa improvvisa dell’artista, venendo poi assolto da Domenico Antonio.
Vaccaro morì il 10 agosto 1706, colpito da due villani con arma da fuoco nella sua masseria di Torre del Greco, per una lite su confini di proprietà (Don Ferrante, 1902, p. 142). Il suo corpo fu sepolto nella chiesa locale di S. Croce (per la quale Lorenzo aveva pure lavorato), edificio sommerso dalla colata lavica del Vesuvio del 1794. A parte il figlio, molti furono i suoi allievi, tra cui spicca, oltre a un’intera generazione di stuccatori, lo statuario Matteo Bottigliero (su quest’ultimo: D’Angelo, 2018).
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