ROSSI, Lorenzo (Laurentius de Rubeis, Laurentius de Valentia)
– Nei documenti ferraresi che lo riguardano, risulta essere figlio di Antonio e provenire «de Valentia».
La sicura identificazione della città con Valenza Po, attualmente in provincia di Alessandria, è piuttosto recente (Mazza, 1984, pp. 25 s.) e poggia su un’affermazione di Lorenzo stesso, che si definisce «Valentiensis insubris» nel Colliget di Averroè pubblicato il 5 ottobre 1482 (Indice generale degli incunaboli, I.G.I., n. 1107). In precedenza si era erroneamente pensato anche a una sua origine francese; non sono note tuttavia fonti piemontesi che lo nominino.
La sua data di nascita è sconosciuta e l’Averroè del 1482 rappresenta il primo termine cronologico utile per la sua biografia: è ragionevole pensare che a quell’altezza fosse già maggiorenne e dunque avesse compiuto i venticinque anni. L’edizione fu eseguita con alcuni non meglio precisati «socii» (dunque non meno di due, forse nascosti dalla marca tipografica «ZS» o «ZTS» o «ZST») e alcuni esemplari di essa dichiarano come luogo di stampa Ferrara, altri Venezia, altri ancora tacciono. La prassi non era isolata e poteva essere determinata dalla volontà di distinguere i luoghi di origine del progetto editoriale oppure da logiche di mercato. Rossi si dimostra così, già al suo esordio, capace di tessere rapporti con altri imprenditori e con altre piazze commerciali, soprattutto quella veneziana.
Il 19 novembre 1488 Rossi, cittadino ferrarese, incassò la dote della moglie Lucrezia Pirondini; dal matrimonio nacquero un figlio e quattro figlie. Il 25 maggio 1489 Rossi e Giovanni Herbort jr. (nipote dello stampatore Giovanni Herbort il Grande) comparvero invece davanti a un notaio per fare il punto sullo stato dei loro affari. Rossi, direttamente o tramite altre persone, aveva consegnato a Giovanni molti libri affinché questi provvedesse alla loro vendita e, alla data, Giovanni era debitore a Rossi di 115 lire di marchesini. Il documento allude anche a un viaggio di Giovanni a Venezia finanziato da Rossi; il che conferma come il tipografo e libraio ferrarese avesse riconosciuto nella città lagunare un centro di interesse prioritario per i suoi traffici.
Tra il 1489 e il 1492 l’attività tipografica di Rossi pare segnata dalla vicinanza ai frati del convento ferrarese di S. Francesco. In particolare escono dai suoi torchi il Leggendario di san Maurelio, 30 dicembre 1489 (I.G.I., n. 6297) e una miscellanea di opere di Niccolò da Lira, Antonio da Bitonto e Alessandro di Hales, 11 marzo 1490 (I.G.I., n. 6826) raccolte per la prima volta dal curatore Pietro da Molfetta, frate minore e «lector regens» dello Studio francescano di Ferrara. Il volumetto su s. Maurelio, compatrono della città estense, recava una bella immagine xilografica a piena pagina e si caratterizzava come libro popolare di devozione, manifestando precocemente la propensione di Rossi ai prodotti illustrati e di ampia circolazione; fu inoltre importante per l’agiografia successiva. Le proficue relazioni con l’ambiente francescano confermano invece l’abilità di Rossi nell’inserirsi nel contesto economico in modo efficace. Tale capacità si manifestò anche nel 1492, quando strinse accordi con il dottore in arti e medicina Francesco da Castello, familiare di Ercole I d’Este e futuro riformatore dello Studio ferrarese, per la stampa di libri. L’atto fu rogato il 16 giugno e riguardava in prima istanza l’Officium (18 ottobre 1492; I.G.I., n. 6964), per il quale il signore aveva ottenuto alcune indulgenze particolari e il permesso di introdurre differenze rispetto al testo romano, ma anche opere di medicina, poi effettivamente date fuori. Il ruolo di Francesco era finanziario e si traduceva in pratica nell’acquisto della carta. La medicina era il suo circuito abituale e quello per cui era in contatto con l’università; in più la sua influenza politica avrebbe giovato a ottenere esenzioni dai dazi per il trasporto della carta stessa.
Pochi giorni dopo, il 22 giugno, Rossi fondò con il ferrarese Andrea Grassi un’altra società tipografico-commerciale, in cui si dividevano costi e guadagni. A Rossi spettava la stampa dei libri e ad Andrea la loro vendita fuori città. Andrea aveva anche rilevato la quota di Francesco da Castello nella futura edizione dell’Officium e gli era dunque subentrato in quell’affare, ma il suo nome compare anche in alcuni testi di medicina stampati con Rossi tra il 1492 e il 1493. Questi manteneva però la prerogativa di produrre indipendentemente dal socio gli opuscoli scolastici destinati ai gradi più bassi dell’istruzione e le carte a uso amministrativo: materiale di smercio rapido e remunerativo. La società sarebbe dovuta durare dieci anni, ma fu sciolta già l’11 luglio 1495, probabilmente perché non portava i guadagni sperati. Gli arbitri deputati alla stima in vista della liquidazione valutarono gli oneri a carico dei due soci, che erano ancora debitori verso Francesco da Castello; pare tuttavia che Rossi uscisse meglio dalla vicenda, se non altro perché tratteneva (pagando un po’ di più) caratteri e utensili nuovi per la sua officina.
Alla chiusura della società fecero seguito le edizioni tipograficamente più eleganti di Rossi, sebbene non sempre correttissime sotto il profilo testuale: Pietro Pelagano da Trani, Liber de ingenuis moribus, 7 ottobre 1496 (I.G.I., n. 7671); Corona Beatae Mariae Virginis, 10 novembre 1496 (I.G.I., n. 3223; ristampata forse nel 1497, ibid., n. 3223 - A), ma soprattutto Iacopo Filippo Foresti, De claris selectisque mulieribus, 29 aprile 1497 (I.G.I., n. 5071) e s. Girolamo, Epistole (in volgare), 12 ottobre 1497 (I.G.I., n. 4746).
Sia il Foresti sia il s. Girolamo presentano un ricco corredo illustrativo e sono tra i libri più belli usciti dalle stamperie ferraresi del Rinascimento. Sebbene opera di un autore agostiniano, il De claris selectisque mulieribus ricevette le cure di Alberto da Piacenza e di Agostino da Casalmaggiore, due frati di S. Francesco, a conferma che i rapporti di Rossi con quell’ambiente non si erano interrotti. Complessa dovette essere la storia editoriale del volgarizzamento di s. Girolamo, i cui esemplari, peraltro, portano dedicatorie differenti a dimostrare almeno quattro emissioni distinte.
La stampa era stata in larga misura finanziata qualche anno prima – forse nel 1494 – dal frate carmelitano Giacomo Albertini, che era poi morto. Il 23 marzo 1498 i confratelli del convento ferrarese di S. Paolo, eredi della sua quota di volumi, in parte la vendettero a Rossi e in parte se ne servirono per saldare un debito del defunto. Si vede comunque che nell’ambito ecclesiastico locale il tipografo non si limitava a frequentare con profitto le cerchie francescane.
Lungo tutta la sua carriera, Rossi praticò il mestiere di libraio e cartolaio con maggior continuità rispetto a quelle di tipografo. Nei documenti egli figura regolarmente come «cartularius» (mercante di carta) e risulta vendere, legare e riparare libri. Il 10 agosto 1501 promise di pagare ai frati di S. Francesco il canone d’uso di un orto «in legandis et aptandis libris». Dal 1504 (ma forse anche prima) trasferì la sua bottega in piazza, «in plateis» secondo le carte notarili, luogo di esercizio dei maggiori cartolai della città. Abbiamo notizie d’archivio sparse, ma soprattutto una lunga lista di crediti per libri venduti e rilegati ad Alberto III Pio da Carpi, allora dimorante a Ferrara. Le spese sono relative al periodo 1499-1500 e colpisce la vasta gamma di legature che Rossi poteva offrire.
Risulta dai registri estensi che egli rimase sempre tra i fornitori della corte, cliente prezioso, per libri o servizi di carattere librario. Al proposito è da segnalare che Ercole I acquistò massicce quantità di copie di due edizioni di Rossi, sebbene a una certa distanza temporale dalla loro uscita.
Le due opere sono l’Officium (224 esemplari comprati nell’aprile del 1502) e la Corona Beatae Virginis Mariae (130 esemplari comprati nell’agosto del medesimo anno): tali operazioni fanno pensare a un sostegno, per quanto differito, alla stampa dei libri e si inseriscono bene nel quadro della devozione del duca, attenta alla diffusione della sua immagine pubblica.
L’attività tipografica di Rossi proseguì nei primi due decenni del Cinquecento, ma dagli inizi del secolo le testimonianze archivistiche al riguardo si riducono praticamente a nulla. Una rassegna dei titoli stampati ha suggerito che egli tendesse a ridimensionare l’impegno delle sue edizioni, non proponendo più libri sontuosi come quelli descritti. Tra gli autori pubblicati figurano nomi di rilievo, quali Celio Calcagnini o Mario Equicola, ma si tratta perlopiù di opere dal richiamo immediato, legate a fatti storici contingenti.
Forte rimaneva la vocazione ferrarese del catalogo, con un portabandiera estense come Tito Vespasiano Strozzi, che consegnava a Rossi l’Epicedium per il figlio Ercole (14 agosto 1506), e un irregolare della nuova generazione come Cassio da Narni, che gli affidava la sua antiariostesca Morte del Danese (1521). Continuava pure un altro filone tipico dell’officina, quello degli opuscoli effimeri: soprattutto pronostici e componimenti versificati che narravano eventi contemporanei, bellici in primo luogo. Questi materiali, molto fragili e dunque soggetti a drastiche decimazioni, non sempre furono pubblicati con il nome del tipografo; Rossi ne firmò alcuni e altri gli sono attribuibili con sicurezza.
Rossi era ancora vivo il 17 maggio 1521, ma risulta defunto in una partita di spesa del Comune di Ferrara del 1522. La sua stamperia – la più longeva e la più produttiva della Ferrara di quegli anni con una cinquantina di edizioni accertate – passò nelle mani del figlio Francesco.
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